DE SECLY LUIGI

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DE SECLY LUIGI

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Lecce 5 dicembre 1897 – 23 febbraio 1970

L’antifascista, a trent’anni è il più genuino esempio di studioso e intellettuale della generosa terra salentina, direttore della Gazzetta del Mezzogiorno

Poche cose lo amareggiavano profondamente: l’accusa di aver ‘dimenticato’ la sua terra d’origine, il suo nobile luogo natio per ‘accasarsi’ con il capoluogo pugliese;i giudizi negativi, anche i più benevoli, verso Benedetto Croce, che egli considerava suo Maestro di cultura e dirittura morale, e le tante note polemiche contro La Gazzetta del Mezzogiorno, il giornale in cui egli aveva trascorso tutta la sua vita professionale.

Ai primi risponde… il fatto si è che Bari,diversamente da Lecce, è una città dinamica, piena di entusiasmo, costruttiva. È ricca di vita, di commerci e di industrie, che ha costruito le sue nuove fortune colmando il mare, bonificando arenili e paludi. Ciò che più ammiro in questa gente non è solo la loro concretezza, quanto la capacità dei baresi di sognare in grande. I sogni, si sa, sono difficilmente realizzabili, ma loro ne fanno tanti che alla fine qualcuno lo realizzano. Ed ecco che in una cittadina ancora borgo, nasce il Teatro Piccinni, la Camera di Commercio, il Petruzzelli, la Banca d’Italia, la stessa Gazzetta e il più grande acquedotto del mondo. Peccato che non abbia una grande tradizione culturale. Poi, ricordandosi dei Laterza, aggiungeva… ma sono sulla buona strada!

Quando, molti anni dopo, lascerà il giornale, la sua Gazzetta, salutando i Lettori, scrive: non posso allontanarmi da Bari senza rivolgere il mio riconoscente pensiero alla nobile Città che, giovanissimo, mi accolse generosamente e che con animo di figlio devoto ho accompagnato, come meglio ho saputo e potuto, nel cammino della sua ascesa.
Finalmente dunque, dopo 40 anni d’impegnativo lavoro, 17 dei quali alla guida del maggior quotidiano pugliese, finalmente, il tempo è suo, e gli è dolce pensare alle ore,ai giorni da dedicare ai suoi libri, immergersi senza foga, senz’affanni, nei tanti volumi di storia e filosofia del Maestro Benedetto Croce, che ha letto e riletto,eai tantissimi altri di letteratura e arte, perfino di economia…materie che rinvigoriscono lo spirito donando pace e serenità all’animo inquieto e travagliato da una vita divenuta troppo esuberante per il nostro carattere.

Benedetto Croce non l’ho mai veduto – scriveva de Secly nel 1922 – però ho letto i suoi libri e le biografie che lo riguardano, l’ho seguito col pensiero dappertutto e di lui mi sono formato un concetto alquanto preciso. Qualche anno fa mi permisi di scrivergli contro: erano gli anni della mia giovinezza. Avevo letto allora il medaglione di Paolo Orano e ne ero rimasto sconcertato. Ma il paradossale scrittore sardo mi lasciò frastornato e ritornai a prendere in mano le opere del Croce. E lessi: le lessi tutte.
E dunque, fin dai primi mesi del 1961, eccolo a Lecce… nella mia cara, vecchia Lecce – bigotta e chiusa entro le mura sin dal principio del ‘900 -che non è la Bari degli anni Quaranta aperta e dinamica, senza nobili passioni e senza religione. Né l’ambiente familiare è il medesimo: ai miei tempi, a Lecce, vi era la casa dei nonni, delle zie, dei parenti e dei vecchi amici e tra gli uni e gli altri, il tempo trascorreva placidamente. Qui a Bari invece l’isolamento è assolutoe, paradossalmente, il tempo vola.
Ma era un isolamento ‘voluto’ a causa del suo carattere schivo oltre ogni misura.

Luigi de Secly nasce a Lecce il 5 dicembre 1897. Era un ragazzo precoce rispetto ai suoi coetanei. Introverso, timido, riservato anche nei rapporti con i suoi coetanei. Non amava la compagnia chiassosa, l’amicizia invadente. Fin dai primi anni di scuola media si nutriva di libri. La rigida educazione sociale e culturale imposta dalla madre, dava un senso preciso alla dignità senza ostentazione. Sempre accuratamente vestito con abiti di varia tonalità di grigio, misurato nel contegno, mai un eccesso, rispettoso e comprensivo per le pene altrui, non ebbe mai a lamentarsi per la sua condizione durante tutto il Ventennio.
Isolato, soffriva l’isolamento e non s’è mai accorto che nella città in cui ha vissuto per oltre quarant’anni, anche i suoi concittadini d’adozione avevano ‘nobili’ passioni, erano religiosi, amavano San Nicola quanto i leccesi amavano San Oronzo. E se fosse andato nella città vecchia si sarebbe accorto che anche a Bari c’erano le famiglie allargate, che si viveva con i nonni, con le zie, i parenti, gli amici.

Ma Luigi de Secly era un giornalista e un Direttore atipico… un uomo dalla personalità molto complessa, diceva sua figlia Luce. Il suo mondo era fatto di libri, di migliaia di libri religiosamente raccolti e custoditi, viveva in una dimensione diversa dalla vita reale, vedeva quello che lui voleva vedere e lo vedeva attraverso i libri, i giornali, i periodici.
Fibra di lavoratore instancabile, vive solo per i suoi libri e con i suoi libri. La vita tumultuosa non lo attrae: la sua vita è nella sua biblioteca. Ed è in questo santuario che egli medita lungamente e assiduamente. L’inciso è il ritratto della quotidianità di Benedetto Croce, in realtà de Secly descrive se stesso!
Non appaia strano,perciò, se spesso la vita di tutti i giorni, il mondo ‘diverso’ dal suo, di tanta gente che cercava di sopravvivere tra le miserie umane e materiali, gli sfugge. Il suo mondo era fatto di ‘morale e cultura’, un mondo più ‘interiore’ che ‘esteriore’ e dunque non riesce a vedere, soprattutto nel suo Salento, distese di terreno incolto ed arso dal sole, decine e decine di paesi ancora senz’acqua, migliaia di famiglie senza tetto, l’analfabetismo, la disoccupazione, la miseria. La Puglia, quella che lui ‘vedeva’ negli anni Cinquanta e che aveva…immense estensioni di terreni dove negli ultimi trent’anni sono sorte aziende agricole e industriali, orti e vigneti lussureggianti, coltivazioni di tabacco, stabilimenti e fabbriche… in realtà non esisteva.

C’erano, migliaia e migliaia di ettari di terreno, ma erano, anche nella provincia barese, abbandonati, incolti, aridi. I giovani, i reduci del secondo conflitto mondiale, non avevano nessuna intenzione di tornare a zappare una terra avara di frutti, in balia di eventi atmosferici; i latifondisti preferivano investire le loro risorse nelle industrie settentrionali,che assicuravano ottimi profitti, piuttosto che rischiare raccolti magri per l’imperante siccità.

C’erano,è vero, vigneti e uliveti, ma molto rimaneva sugli alberi o nelle cantine. Non si poteva portarle da nessuna parte, tutto il sistema dei trasporti, specie ferroviario già misero prima del conflitto, era da ricostruire; quegli stabilimenti e fabbriche che vedeva de Secly, erano molto sporadiche, bisognerà attendere i primi anni Sessanta per cominciare a vedere piccole realtà industriali nel barese.
Terminati gli studi tecnici, il giovane Luigi si rese conto che la scuola non gli aveva dato molto ed essendogli preclusa l’Università decide di continuare gli studi da autodidatta… da poiché il dignitoso stipendio del genitore, ispettore delle Ferrovie dello Stato, non era sufficiente al sostentamento della famiglia. Per molti anni de Secly, secondo di undici figli, ha mandato alla madre parte della sua retribuzione per aiutarla a crescere la numerosa prole.

Come procurarsi allora i testi scolastici, libri di storia, letteratura e filosofia di cui aveva bisogno e che leggeva avidamente, insieme a pamphlet dissacranti di Giordano Bruno e volumi, saggi e articoli di Pietro Marti che sfogliava di nascosto dalla madre? Sarà proprio Marti che de Secly conosce e frequenta assiduamente, a risolvere i suoi piccoli problemi economici e aprirgli la strada verso il giornalismo.

Il fascino dei libri

De Secly aveva conosciuto Pietro Marti, un professore di Ruffano, nel 1915 quando aveva 18 anni…e ne ero rimasto affascinato. La personalità, la vivida intelligenza, l’erudizione, l’entusiasmo dell’anziano professore, nonché filosofo, storico e giornalista, direttore e fondatore di periodici e quotidiani, influenzerà non poco la vita del giovanotto arricchendolo di studi umanistici. Ogni volta che lo ricorda, si commuove… è stato il mio primo Maestro… scrive de Secly nel suo diario. È stato lui ad offrirgli una collaborazione giornalistica nelle sue varie pubblicazioni, specie nel periodico La Democrazia consentendogli di acquistare… libri, sempre e solamente libri…i libri avevano su di me un fascino satanico, annota egli stesso.
Quando nella primavera del 1961 si trasferisce nella sua città, nella grande casa della vecchia Lecce, cercherà di fare una stima della sua libreria senza riuscirci, erano tanti, proprio tanti. In tutti i quarant’anni che de Secly ha vissuto a Bari, ogni mattina, immancabilmente, passava dalla libreria Laterza per salutare don Giovanni, per informarsi sulle novità librarie e poi, che ci fossero o meno, non usciva dalla libreria senza aver acquistato un volume. Poi c’erano i libri che gli regalavano amici ed estimatori certi di fargli piacere, quelli che gli consigliava Benedetto Croce, quelli indicati da altri amici e infine quelli che riceveva al giornale per le recensioni.

Tutti i miei libri – scrive de Secly – riflettono le varie fasi delle mie molteplici passioni di uomo, di scrittore e di giornalista. Quanti erano? Non li ho mai contanti; forse sette, otto o diecimila. Dove sono? Dovunque. Nessuna stanza si è salvata dall’invasione testarda e irrompente. Sapeva solo, e lo annotava con rammarico, che non avrebbe mai raggiunto i cinquantamila volumi che aveva Benedetto Croce nella sua grande casa-biblioteca di Napoli.
Ma come arriva Luigi de Secly al quotidiano di Bari, al Corriere delle Puglie?
Nel 1918, appena finita la ‘grande guerra’, ricco degli insegnamenti del professor Marti e di qualche esperienza da pubblicista, il giovane de Secly fa l’unica cosa che può fare un meridionale che non sia un bracciante agricolo o manovale edile: emigra, si trasferisce a Roma, dove spera di ottenere un impiego da pubblicista presso i numerosi quotidiani della Capitale. Ottiene qualche collaborazione, fra queste una con la redazione romana del Corriere delle Puglie dove pubblica, il 14 novembre 1919, il suo primo articolo, il resoconto di una conferenza della scrittrice Teresa Labriola sul suffragio femminile.

Un secondo articolo viene pubblicato il 22 – una recensione su un volume delle opere di Benedetto Croce – e un terzo ed ultimo, il 24 novembre 1919, su socialismo e nazionalismo. Tutti e tre gli articoli sono firmati, fatto inconsueto per un praticante, ma il direttore-proprietario del Corriere, Martino Cassano, che ha un fiuto eccezionale nello scovare giovani di talento, deve aver notato quegli articoli e prima che finisca l’anno de Secly è chiamato a Bari dove viene assunto come redattore ordinario.
Anche nel 1920 de Secly scrive solo tre articoli e sempre recensioni. Il lavoro di redazione impegna molto e il giovane praticante ha bisogno di fare cucina, si dice in gergo, deve imparare il mestiere.
Gli anni 1920, 21 e 22 sono anni difficili anche per una redazione ben guidata. I quotidiani sono come tante fucine dove il fuoco è alimentato dalle passioni politiche, in questo periodo molto accese, il Paese è sul punto di voltare pagina e il Corriere delle Puglie non farà eccezione. Troppi contrasti, troppe opinioni differenti e radicali, non c’è modo di mantenere un clima sereno in redazione e Martino Cassano, che ha fondato e diretto il Corriere per trentacinque anni, si rende conto che il suo tempo è passato, si sente quasi un estraneo fra quei ragazzi, ha sessant’anni, è stanco, non ha più voglia di lottare…la confusione è al massimo – scrive – la competizione politica ha preso una forma volgare e brutale.

E dunque,il 1° maggio 1921, convoca la redazione e annuncia che intende lasciare la direzione politica del giornale per affidarla a Leonardo Azzarita, un molfettese irruento con un carattere difficile, e a Raffaele Gorjux, più moderato e tollerante, nella speranza che i due riescano a guidare la redazione con equilibrio. Due caratteri opposti, due idee politiche diverse: il primo è un acceso nazionalista, il secondo è di cultura e formazione liberale. Appena un mese dopo infatti Gorjux si dimette: la convivenza con Azzarita era impossibile, era come fermare un treno in corsa con le mani.
Così, nel febbraio del 1922, Raffaele Gorjux fonda la Gazzetta di Puglia insieme ad un consistente numero di redattori, fuorusciti dal Corriere, compreso Luigi de Secly che poco apprezzava i metodi alquanto bruschi di Leonardo Azzarita.
La Gazzetta sarà un giornale schiettamente pugliese – si legge nel primo numero – ci occuperemo delle classi più elevate come delle più modeste; in politica siamo liberali democratici senza pregiudizi di tendenze e siamo decisamente contro ogni violenza, contro ogni demagogia, contro qualsiasi estremismo.

Era una dichiarazione di principio in sintonia con gli ideali di de Secly, ma erano giorni, ore drammatiche che culminarono, il 28 ottobre dello stesso anno, con la marcia fascista su Roma e l’incarico del Re a Benito Mussolini per formare un nuovo Governo.
De Secly, intanto, continua a svolgere i compiti di redattore e recensire, di tanto in tanto libri, in prevalenza di e su Benedetto Croce, il suo ‘nuovo’ Maestro, ma non ha dimenticato Pietro Marti al quale dedica un lungo articolo su una pubblicazione del Professore: La provincia di Lecce nella storia dell’arte.
In breve, mentre gli animi si scaldavano per quanto andava accadendo nel Paese, de Secly cercava di estraniarsi. Già discreto di suo, vive la propria vita senza partecipare al dibattito politico, evitava ogni polemica, ogni discussione con i colleghi che non fosse di natura culturale.
Al mattino, dopo la consueta visita alla libreria Laterza, si cercava un angolo tranquillo e si godeva la lettura del suo quotidiano preferito il Corriere della sera diretto da Luigi Albertini che de Secly ammirava incondizionatamente… il fondatore vero del giornale milanese, il direttore di uno dei più grandi quotidiani europei… austeramente liberale, uomo diritto, leale, severo con se stesso e con gli altri- scriveva nel 1950 – la mia ammirazione per lui investiva tutti gli interessi della vita professionale, della vita morale e della vita politica del grande giornalista.

Nel 1924 due eventi daranno una svolta alla sua vita personale e culturale: si sposa con Lucia Lopez y Royo, una ragazza appartenente ad una nobile famiglia d’origine spagnola, e s’incontra per la prima volta a Bari con Benedetto Croce. Non sta nella pelle quando Giovanni Laterza lo presenta al Maestro… mi parla, parliamo. La sua voce piana e armoniosa mi conquista. Prima di lasciare Bari, Benedetto Croce lo invita a Napoli per mostrargli la sua enorme biblioteca… e un piccolo laboratorio dove ho imparato a restaurare libri antichi.
Il 24 giugno 1924 de Secly, estasiato ed euforico per aver ricevuto udienza dal Maestro, scrive un articolo sulla figura e la visita di Don Benedetto a Bari che, notoriamente inviso ai fascisti, provoca la reazione della segreteria federale barese che torna a premere su Raffaele Gorjux affinché convinca il suo giovane redattore ad iscriversi al Partito. Ma questi minimizza… ma lasciatelo perdere, è innocuo… dirà al segretario Leonardo D’Addabbo che, ancora per qualche tempo, lo lascia in pace.

Ma non gli danno tregua. De Secly è uomo di cultura, i fascisti pugliesi vogliono darsi anche un’aureola culturale ed il giovane crociano è utile alla ‘causa’, alla sede del centro di cultura fascista pugliese. Tuttavia, per il momento non insistono.
Poi, nel febbraio del 1925 de Secly, prendendo spunto da un volume di Mario Borsa sulla libertà di stampa, scrive una lunga recensione. Il libro, in verità, gli consente, tra le righe della recensione, di esprimere il ‘suo’ concetto di libertà di stampa. Già lo stesso Mario Borsa si dilunga in una opinione contraria alle misure restrittive adottate dal Governo di Mussolini in merito alla libertà di stampa… ad onor del vero – commenta de Secly – fin d’ora applicate con la maggiore parsimonia possibile e valide per un periodo transitorio, ha affermato lo stesso ministro degl’Interni Luigi Federzoni… ma per una materia così controversa crediamo sia opportuna una valutazione politica.

È vero che libertà di stampa vuol dire libertà di coscienza, libertà di riunione, di guarentigie costituzionali, di istituzioni parlamentari, di indipendenza della magistratura; libertà di pensare, di scrivere, di controllare; di criticare, di correggere, di consigliare – continua de Secly – è vero che il problema non interessa soltanto i giornalisti ma tutti i cittadini; ma è anche vero che questo sconfinato spirito di libertà deve trovare una remora nella propria coscienza morale, quando specialmente sono in gioco interessi colossali, l’esistenza stessa d’interi popoli… ma scrivere tutto quel che di torbido si è scritto e si va scrivendo sulla situazione italiana senza che una legge impedisca la diffusione di tali notizie, lo Stato, in nome dei diritti della collettività, deve garantirsi… troppo spesso il mestiere dell’oppositore non è quello del critico ma del diffamatore.

Erano le ‘leggi restrittive’ per la stampa emanate dal fascismo dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti che nell’estate del 1925, lo Stato si arroga il diritto… in nome della collettività…di rimuovere il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini.
Nel 1926 la Federazione fascista pugliese confortata, dalla recensione su quel libro di Mario Borsa, torna alla carica con Raffaele Gorjux per indurre de Secly ad iscriversi al Partito e, questa volta, in termini perentori: o firma l’iscrizione e prende la tessera, o lascia. E de Secly firma. Si era appena fatto una famiglia, l’anno prima aveva avuto una bambina, Luce, continuava ad aiutare la famiglia paterna e… tranne il giornalista, non sapevo fare altro. Ma non riusciranno a coinvolgerlo nelle iniziative culturali del Partito. Il massimo che riescono ad ottenere è qualche articolo sulla rivista Japigia, fondata da Leonardo D’Addabbo e alcune recensioni di libri in uno dei quali – scritti e discorsi di Mussolini – esalta il Duce.
Era un modo, l’unico, per cercare di allentare la pressione: sorvegliato, seguito e qualche volta anche convocato in questura, specie quando incontrava Benedetto Croce, subiva blandi interrogatori che non avevano seguito.

L’avventura milanese

Ma anche in altri giornali le cose stavano cambiando in fretta. Mussolini, già giornalista, direttore e fondatore di quotidiani aveva deciso di occuparsi personalmente della stampa nazionale. Offrirà a tutti un’alternativa semplice: allinearsi alla stampa di regime o chiudere. Molti preferirono chiudere i battenti, chi non lo fece, continuando ad opporsi al fascismo, avrà le tipografie incendiate, altri si allinearono. Fra questi ultimi anche il prestigioso Corriere della Sera diretto, dopo l’estromissione di Luigi Albertini, da Ugo Ojetti che sarà meno intransigente del suo predecessore ma dopo due anni anche lui dovrà fare spazio al fascistissimo Maffio Maffi.
Dal 1° gennaio 1926 la Gazzetta di Puglia rompe gli indugi e trasforma l’attenzione e la simpatia per il fascismo in piena adesione. Posto di fronte alla prospettiva di perdere il giornale, Raffaele Gorjux, che aveva appena finito di farsi costruire un ‘Palazzo del Giornale’, la storica sede in piazza Roma, odierna piazza Moro, si allinea. Non solo, ma grazie alla straordinaria verve e professionalità della moglie di Gorjux, donna Wanda, che aveva abbracciato la causa fascista con tutto l’ardore di cui è capace una donna, la Gazzetta di Puglia, che dal 1928 cambia la testata ne La Gazzetta del Mezzogiorno, diventa… più realista del re.
Nel giugno del 1927 de Secly tenta di liberarsi dall’accerchiamento dei gerarchi locali e, auspice Giovanni Laterza, si trasferisce a Milano chiamato dal Corriere della Sera. Lavorare nel più grande giornale del Paese, era il massimo della sua ambizione:immaginava, sperava che con il più influente quotidiano nazionale il Regime sarebbe stato più tollerante, invece! Quando de Secly giunse a Milano i fascisti meneghini si erano già liberati di Luigi Albertini.

A trent’anni de Secly è il più genuino esempio di studioso e intellettuale della generosa terra salentina. Ad Ugo Ojetti, il nuovo direttore del Corriere della Sera è bastato un breve colloquio per comprendere il valore di quel ragazzo. De Secly, da parte sua, trova Ojetti una persona squisita, che sì, appoggiava il governo fascista, ma non lo ‘serviva’. Messo subito a suo agio, in un ambiente completamente diverso dal provincialismo del capoluogo pugliese, dopo poche settimane si ammalò di un malessere difficile da guarire, la nostalgia. Non riuscirà a superare il richiamo della sua terra, a Milano era solo, gli mancava la moglie, la figlia, il calore di Puglia, l’amata Lecce, i suoi genitori. Gli mancava tutto. Sopraffatto dalla malinconia… di vecchie e care abitudini, tre mesi dopo il mio arrivo a Milano, me ne tornai a Bari, alla Gazzetta… accolto da Gorjux con molta benevolenza.

Inizia così un lungo, lunghissimo periodo di esilio volontario. Si estranea dalla vita quotidiana dei colleghi, cerca di mimetizzarsi, di far pesare il meno possibile la sua presenza in redazione, soprattutto di non mettere in imbarazzo il suo protettore che continua a ricevere pressioni. In compenso, dal 1927 fino al 1943, scrive centinaia di articoli, per lo più recensioni, alimentando e arricchendo di genuina cultura le pagine del giornale. L’unico compromesso che accetta è quello di recensire, ogni tanto, libri che esaltano l’opera del Regime e del suo Capo…ha potuto e saputo illuminare le menti e ridare la fede a chi l’aveva smarrita. Era un inciso autobiografico? Era forse lui,de Secly, che s’era smarrito? No, era solo ‘mestiere’. Era parte di un tacito accordo che tendeva a compiacere i fascisti pugliesi per vivere senza patemi d’animo.

Con Gorjux il fascismo non ha mai usato metodi spicci come ha fatto con altri Direttori di quotidiani o settimanali che si ritrovavano disoccupati da un giorno all’altro. Don Raffaele, godeva di buona considerazione fra i gerarchi nostrani, anche e soprattutto per la grande influenza della moglie, donna Wanda, e se pure i condizionamenti erano pesanti, in molte occasioni riusciva ad imporsi. Più e più volte il Partito aveva chiesto la testa del suo protetto, colpevole di non contribuire alla causa, colpevole di frequentare Benedetto Croce e la libreria Laterza… focolaio di antifascisti!Ma non l’ottennero!
Raffaele Gorjux, il fondatore e direttore de La Gazzetta del Mezzogiorno, si spegne domenica 6 giugno 1943. Il 25 luglio, appena un mese e mezzo dopo, Benito Mussolini è arrestato.

Le prime notizie su quanto è accaduto a Roma nella notte fra il 24 e 25 luglio durante la riunione del Gran Consiglio, arrivano a Bari verso la tarda serata del 25. Più che voci, sono sussurri per le orecchie di amici intimi e fidati. Al giornale c’è poca gente a causa del riposo domenicale e de Secly, che raramente partecipa alla formazione del numero del lunedì, apprende da comuni amici la notizia della caduta del fascismo verso la mezzanotte del 25 a casa sua. È incredulo, disorientato. Tuttavia, telefona al giornale e il direttore, Pupino Carbonelli, imposto dalla Federazione della Capitale, conferma che lui pure, più che notizie precise, ha sentito una babele di si dice senza senso. De Secly vorrebbe uscire, ma è tardi, è pericoloso avventurarsi per le strade buie e piene di centinaia di diseredati senza tetto e affamati. Passa la notte misurando la sua stanza in preda ad una grande eccitazione e quando alla fine avrà conferma che quelle voci erano vere, annota sul suo diario: siamo ridiventati uomini. Il fascismo è caduto. Dio sia lodato.
Quella mattina, il 26 luglio, sono uscito prestissimo e mi sono recato al giornale. Spettacolo impressionante per le vie, il quale dimostra che il regime fascista non raccoglieva più consensi, ma ostilità generale. La gente si scambia auguri, si abbraccia, ride per la gioia, ha dimenticato persino la guerra, o meglio crede che la guerra sia finita. Nei bar non si paga, è un modo come un altro per festeggiare l’avvenimento. Tuttavia la gente ha sempre paura e non c’è nessuna manifestazione pubblica. Per le autorità, ancora fasciste, è un titolo di merito e come tale viene segnalato a Roma dove invece nella stessa notte il popolo tumultuante ha invaso vie e piazze.

L’eccidio di via Nicolò dell’Arca

Il 27 luglio, de Secly, scaccia i suoi timori e scrive per la prima pagina del 28, un articolo dal titolo Viva la libertà… la libertà che ci ha dato la vita, la libertà che ci ha fatti crescere e diventare Popolo, Nazione, Stato; la libertà senza della quale l’arte stessa sarebbe miserabile lenocinio; la libertà che è il perno del nostro pensiero, della nostra opera, di ogni civile progresso. Questa libertà è stata per venti anni conculcata, manomessa, annientata. Oggi il Re, un uomo e un soldato, l’ha ridata all’Italia e l’Italia, come colui che apre gli occhi alla luce, guarda attonita dinanzi a se e tuttavia già saldamente sicura di se, già pronta a battersi perché questa libertà sia garantita, perché sia rispettata, perché dia i suoi frutti. L’uomo è uomo solo se è libero.

Quella stessa mattina, 28 luglio, de Secly come al solito, si ferma alla libreria Laterza dove trova una grande animazione. Avventori, amici, sconosciuti si complimentano per il suo editoriale. Si forma un gruppo di giovani che volevano andare incontro ai detenuti politici rinchiusi nella caserma Rossani che si diceva sarebbero stati scarcerati quella mattina. Per strada comparvero coccarde, bandiere tricolori. Attraversarono via Sparano – che durante il Ventennio aveva assunto il toponimo di via Vittorio Veneto – poi qualcuno suggerì di passare da via Nicolò dell’Arca, dove c’era la sede della Federazione fascista, presidiata da un cordone di soldati. I ragazzi chiedevano soltanto che fosse rimossa l’insegna che campeggiava sulle finestre della Federazione.
Mentre de Secly lasciava il corteo e si recava al giornale, a pochi metri di distanza, scoppia la tragedia. Dalla finestra della Federazione qualcuno spara dei colpi di pistola, a scopo intimidatorio,sul numeroso gruppo di giovani e i soldati, che stavano all’ingresso della sede fascista, non sapendo da quale parte venissero i colpi d’arma da fuoco, spararono sulla folla: pochi minuti dopo sul selciato di basole nere, si contarono 23 morti.

Durante la stessa notte carabinieri e agenti di polizia, una quindicina di militi, guidati da un commissario e da un ufficiale dell’Esercito – pareva dovessero arrestare cinquanta delinquenti – si recano al giornale ed arrestano Luigi de Secly per ‘incitamento alla sedizione’…il prefetto, il questore fascisti, si sono vendicati – scrive un anno dopo sulla Gazzetta nel rievocare l’episodio – sono trasportato in carcere. Impressione sinistra. Mi perquisiscono, mi tolgono tutto. Mi assegnano la cella n. 45 al primo piano. Notte insonne. Cimici in gran quantità. Sulla porta della cella viene applicato il cartello ‘pericoloso’. Giornate uguali, gli allarmi aerei si susseguono uno dopo l’altro… si può dunque morire tranquillamente. Che conta ormai la vita senza la libertà? Sono diventato un numero qualsiasi. Ottengo di poter leggere. Mi si inviano dei libri. Li divoro. Ma non possono prendersi appunti. Non si può scrivere. È la morte morale.
Anni dopo confesserà: quello che mi aveva profondamente amareggiato e ferito non era l’onta del carcere, ma quella striscia di cartone attaccata alla porta della mia cella con la scritta ‘pericoloso’.
Era noto a tutti che era il più mite degli uomini.
L’istruttoria, per un processo che non si farà, viene preparata dal caporal maggiore Aldo Moro e il 19 agosto Luigi de Secly viene scarcerato.

Il 12 settembre 1943 entra a Bari la prima jeep dei nuovi alleati, gli inglesi, e per prima cosa occupano e controllano la Gazzetta e Radio Bari attraverso il P.W.B. – Psychological Warfare Branch – confermando l’incarico di Direttore del giornale a Luigi de Secly di cui sapevano già tutto. Il 18 ottobre il generale Badoglio firma il decreto che ripristina la libertà di stampa mentre il Direttore conferma la sua fede liberale, l’appoggio al governo Badoglio… e l’accusano di servilismo.
Durante venti anni di regime fascista – risponde de Secly – il medico ha potuto fare il medico, l’avvocato, l’avvocato, l’ingegnere, l’ingegnere e così via, tutti costoro hanno potuto custodire le proprie idee senza assumere alcun impegno di natura politica: qualche volta, è vero, chi non era iscritto al partito fascista ha dovuto compiere delle rinunzie, ma spesso si trattava di rinunzie marginali. Non così, purtroppo, è avvenuto per i giornalisti per i quali la politica era un ferro del mestiere e specialmente per coloro che come noi traevano dall’esercizio professionale lo stretto necessario per l’indispensabile pane quotidiano, ma che, dopo aver subito l’imposizione della tessera, per vent’anni si erano rifiutati – nonostante le pressioni di ogni sorta, spesso minacciose e violente – ad assumere incarichi più o meno retribuiti. Quei giornalisti – che vivevano una segreta e pericolosa vita, che compivano ogni giorno rinunzie, sempre più ripiegati su se stessi, con l’anima assente e il cuore in tumulto e che non rinunziavano ad accompagnare per le vie di Bari Benedetto Croce o Giovanni Laterza e che ad ogni piè sospinto si facevano segnare sul libro nero della Polizia – quei giornalisti, dicevamo, meritano almeno il rispetto anche di quelli che non hanno mai preso tessere.
Così quando alcune lettere anonime, fogli sparsi, individuabili nell’orbita del Partito d’Azione, attaccano i lavoratori della Gazzetta o, peggio ancora, la dignità, l’onestà intellettuale, il valore professionale di tutta la redazione, de Secly non riesce ad ignorarli e risponde… tra le accuse più deplorevoli degli anonimi, vi sono quelle di carattere finanziario-morale. Noi cioè, saremmo dei venduti. Venduti, s’intende a chi. Ora è bene chiarire che nessun vantaggio è venuto ai compilatori di questo foglio ne all’Amministrazione di esso, da quando la Gazzetta è divenuto organo del P.W.B. Gli Alleati sono rimasti sempre assolutamente estranei ai problemi di natura amministrativa e l’Amministrazione del giornale paga ad essi, puntualmente, secondo i prezzi convenuti, le materie prime che occorrono. Gli stipendi di tutti i dipendenti, a sua volta, non hanno subito ritocchi se non quelli legali, e il direttore del giornale percepisce emolumenti inferiori a quelli di un quattordicenne assunto dagli Alleati per lavori manuali. La situazione reale è dunque questa: La Gazzetta del Mezzogiorno vive di vita propria, cioè delle vendite e del gettito pubblicitario e non ha finanziatori né palesi né occulti. I suoi dipendenti son pagati meno di qualunque altra azienda similare.

Che de Secly, quale direttore, guadagnasse meno di chiunque lavorasse per gli Alleati, non ci sono dubbi. Gli americani soprattutto, pagavano i loro operai, il personale di servizio, cinque volte più delle paghe correnti, tanto… erano sempre soldi nostri.
Ma le accuse continuano, il giornale è ambiguo, gli scrivono, e lui, per chiarire meglio la linea politica della Gazzetta il 22 dicembre 1943, in un editoriale dal titolo Punti Fermi, scrive:
Si è accusato questo giornale – e anche quando non lo si è nominato l’allusione era evidente – di essere ‘ambiguo, addomesticato’, eccetera. Ora è bene si sappia che la Gazzetta del Mezzogiorno non è ambigua e tanto meno addomesticata, che essa è un giornale liberale – senz’altre aggiunte superflue – un giornale di centro, attentissimo agli interessi del Paese, al cui servizio unicamente essa è, senza sottintesi o sotterfugi di sorta; che infine, da un punto di vista meramente tecnico, è un giornale di informazione, rispettoso delle manifestazioni dell’altrui pensiero, da qualunque parte provengono, purché espresse onestamente e chiaramente. Coteste opinioni, anche se contrarie alle nostre, noi le registreremo sempre con obiettività, ma nessuno ci impedirà mai di discuterle e, se necessario, di confutarle.

Nel frattempo, verso la fine del 1943, si fa strada l’idea di istruire a Bari un congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale dell’Italia libera. Il compito di organizzarlo è affidato al giovane magistrato liberale Michele Cifarelli. La proposta è accolta con entusiasmo da de Secly che mette a disposizione il giornale per un dibattito precongressuale di tutti i partiti al fine di esprimere liberamente le loro idee, le loro convinzioni le loro proposte sul futuro del Paese e sui temi da dibattere in seno al Congresso… da poiché il fervore della discussione rappresenta un salutare sintomo del ritorno alla vita di un Paese libero – scrive de Secly – agli intellettuali, ai giornalisti, agli uomini politici rimane il compito di migliorare la lotta tra di essi mercé una fervida lotta educativa, la quale non si deve limitare all’esercizio del contendere ma estendersi al miglioramento delle condizioni sociali perché un popolo che vive nel benessere rifuggirà sempre da ogni asprezza e da ogni pericoloso estremismo.

Benedetto Croce, il Maestro

Il Congresso si apre il 28 gennaio, alle 9 in punto al Teatro Piccinni presidiato dalle truppe ma non chiuso al pubblico e si svolse in un’atmosfera di grande maturità politica e sociale. Il tema su cui l’Assise è chiamata a confrontarsi è: il Governo prossimo venturo. Dovrà, cioè, essere un Governo in nome di Vittorio Emanuele III oppure un Governo in nome di una reggenza?Il primo relatore della giornata è Benedetto Croce che, senza mezzi termini e senza perifrasi, si scaglia contro il Re: il punto sostanziale che agli Alleati sembra cosa secondaria e per ora trascurabile o rinviabile è, per noi italiani, il centro della nostra vitalità e il fondamento del nostro avvenire; e,se non si risolve, c’impedisce anche di dare alla guerra contro i tedeschi tutta quella partecipazione che possiamo e vogliamo dare perciò… fin tanto che rimane a Capo dello Stato la persona del presente Re, noi sentiamo che il fascismo non è finito, che esso ci rimane attaccato addosso, che continua a corroderci e infiacchirci, che risorgerà più o meno camuffato e che così non possiamo respirare e vivere.

Amen, la discussione è chiusa. Ci saranno altri e diversi interventi, ma tutti dello stesso tenore… voi siete giunti a decisioni unanimi e virili circa il Re – sostiene il conte Carlo Sforza a seguito della mozione finale – esempio unico nella storia, avete intentato un processo di cui il procuratore generale più alto è stato Benedetto Croce; processo in cui il Re è risultato colpevole e che ha mostrato anche la nostra maturità politica. Raramente, nella storia, si è visto un popolo intero, esprimere così ampiamente, quasi generosamente, la sua impressione di disgusto e di orrore verso un uomo cui si era affidato e che lo ha tradito.
De Secly pubblica tutto, ogni parola, ogni commento, ogni discussione, ligio alle sue promesse, al suo concetto di libertà, eppure gli contestano di non essere stato imparziale…non da oggi abbiamo reso omaggio al principio della pluralità dei partiti – e la collezione del giornale è a disposizione di chiunque voglia consultarla -ma pluralità non vuol dire unità, è anzi il suo contrario. Bisogna non lasciarsi sopraffare, bisogna impedire l’assalto alla diligenza perché il bene della riacquistata libertà ci sia conservato il più a lungo possibile. La vita politica italiana deve essere improntata unicamente a onestà ed equilibrio, a senso di responsabilità e di rettitudine a serenità di giudizio e a critica costruttiva…e per tutto il 1944 perciò torna a ribadire di voler restare fedele all’impegno di ospitare tutti i partiti, tutte le correnti.

La completa, totale libertà di stampa, era la sua massima aspirazione…la stampa rappresenta la coscienza pubblica scrive ed essendo in buona fede, non avvertì, né immaginò, che i partiti avrebbero abusato della sua disponibilità. Perciò, quando all’inizio di marzo del 1945 il P.W.B. lascia ufficialmente il controllo della Gazzetta, si scatena il finimondo… Gesù, Gesù che gazzarra – commenta – l’apertura, democratica per un confronto leale e corretto delle opinioni di tutti diventa una specie di lavatoio pubblico dove ognuno scrive, senza pudore e rispetto, le posizioni più varie e violente.
Il primo ad abusare della disponibilità della Gazzetta e dell’amicizia personale di de Secly, è Tommaso Fiore, il quale, più che fare propaganda per il Partito D’Azione, si serve del giornale per fare rabbiose requisitorie contro i liberali che… accettarono la dittatura per antico abito di comoda pigrizia e di paternalismo borbonico. E ancora… le tradizioni liberali si sono rivelati spesso cavalli di Troia per nascondere altra merce. Ora si vanno tutti rinnovando o rinfrescando al nuovo afflato. Lotta di classe sì, ma non a danno della Nazione. Difesa dello Stato sì, ma non per l’oppressione dei più. Tradizioni liberali sì, ma di liberalismo operante per la libertà.
Don Tommaso sapeva benissimo che esattamente in questo consisteva il liberalismo di de Secly, ciononostante, in un altro articolo rincara la dose: c’è della brava gente che non sa ancora decidersi, che per decidersi aspetta che gli altri si decidano, noi la conosciamo da un pezzo. Sono per lo più i liberali e i demo-cristiani- il trattino è voluto -i padroni del Mezzogiorno, delle situazioni locali e di tutto. Venti anni fa si trovavano verso il fascismo, nella stessa indecisione, ma poi, visto che il Governo era fascista, si lasciarono tirare ed aderirvi di buon grado. Salvo poi a protestare oggi: nessuno di noi è stato fascista! Del resto – scrive ancora Tommaso Fiore – chiedete a Benedetto Croce cosa pensi del fascismo: una febbre scarlattina. Mal di poco dunque. E contro le Monarchie? Sono come quei serpenti che, anche colpiti a morte, mordono.

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De Secly dapprima lascia correre poi, timidamente, fa osservare ai lettori…che gli articoli del Professore imporrebbero qualche riserva da parte nostra ma lasciamo giudicare a voi. Gli attacchi non cessano. Alcuni, perfino amici di vecchia data, si scagliano contro il giornale, contestano la sua direzione, l’accusano di essere reazionario e parziale, mentre de Secly, che continua a pubblicare ampie sintesi di ogni corrente politica proprio per dimostrare il contrario, si accorge di scontentare tutti. In breve, le sue aperture al confronto finiscono per ritorcersi contro di lui e contro il giornale.
Tenta così di mettere un argine alle contestazioni… perché purtroppo è invalso l’uso di rivolgersi alla Gazzetta in tono minaccioso e con linguaggio truculento quasi che questa fosse una testa di turco. Era arrivato al punto di non sentirsi libero di esprimere la sua personale opinione… chi vi dà il diritto – scrive l’azionista Vincenzo Calace – di esprimere opinioni personali facendole passare per quelle della maggioranza?
De Secly non avrebbe mai portato il giornale su un terreno conflittuale così duro se non fosse stato tirato per i capelli. Egli riteneva che la polemica… il sale della democrazia, doveva effettuarsi all’interno di un dibattito civile e rispettoso delle opinioni altrui, non mai condita da contumelie e volgarità… e quello che accade con la caduta del fascismo dopo vent’anni di forzato silenzio, non gli garba affatto. Toccava a lui, ora, affrontare la violenza delle opposizioni.
Così, la sua buona volontà, la disponibilità al confronto, s’incrina. All’inizio si concede al contraddittorio, poi comincia a diventare insofferente, infine diventa intollerante e la sua buona fede, l’ampia concezione di democrazia finiscono per renderlo prigioniero di tutte le forze politiche e sindacali già in lotta, non tanto per la ricostruzione politica, sociale e morale del Paese, come de Secly andava predicando, quanto per la conquista del potere.
Paradossalmente sarà proprio l’accesa polemica politica a decretare il successo diffusionale della Gazzetta uscita dal Ventennio alquanto disastrata. Bisognava soltanto tenerla fuori dalla rissa o… nei limiti dell’umano intendimento… diceva, ma questa divenne fine a se stessa, divenne aspra, violenta,e lui, per principio, per sua natura, rifiutava la violenza mentre la costanza con cui de Secly cerca la parte migliore dell’uomo, rasenta l’ingenuità.
Tommaso Fiore, Domenico e Nicola Pastina, Vincenzo Calace, Fabrizio Canfora, Mario Vinciguerra, Mauro Spagnoletti, Michele Cifarelli, Saverio Nitti, Michele Troisi, Giovanni Lasorsa, Saverio Nisio, perfino il liberale Giuseppe Perrone-Capano, Carlo De Donato, Giuseppe Petraglione, Carlo Muscetta e molti altri ancora che lo ‘aggredivano’ e contestavano, erano tutti amici… amici carissimi… persone che de Secly stimava e rispettava per la loro cultura,per intelligenza e per la comune militanza nella sventura, per essere stati ‘contro’ per tutto il Ventennio, pur rimanendo,al contempo, distanti per formazione politica.
Soprattutto per la comune frequentazione ai segreti cenacoli con Benedetto Croce a villa Laterza quando il filosofo veniva a Bari. Allora, più o meno tutti di varia estrazione politica, si riunivano intorno al Maestro per ascoltarlo, per discorrere piacevolmente, per argomentare fatti recenti, storici e politici che uscivano dalla miniera inesauribile della sua memoria prodigiosa e ricca.
E però, a tutto c’era un limite. Guai a toccare i simboli più preziosi di de Secly. Allora lui pure diventava duro, astioso, perdeva il lume della ragione e il suo linguaggio colto si trasformava, diveniva semplice, chiaro efficace:assimilava lo stesso frasario, la stessa prosa dell’intollerante Tommaso Fiore e della ‘cricca’ di militanti del Partito d’Azione. Alfine, sfogatosi, finita l’amarezza per essere stato costretto ad esprimersi a muso duro, dimenticava tutto: era incapace di serbare rancore.
Ma già dopo il Referendum istituzionale, durante la fase della Costituente e subito prima delle elezioni politiche del 1948, de Secly comincia a cambiare. È tempo di scelte, è tempo di schierarsi e degli, liberale, contrario ad ogni forma di ‘regime’,sceglie di opporsi ai suoi nuovi nemici: i ‘fusionisti’, socialisti e soprattutto i comunisti che lo accusano di tutte le nefandezze del mondo… la battaglia ormai è per un sistema di vita piuttosto che un altro; è tra la schiavitù e la libertà, tra la democrazia e la dittatura. Perciò, tutto è lecito!
È guerra, specie nelle tornate elettorali, politiche o amministrative.
Le edizioni pugliesi dell’Unità e dell’Avanti lo definiscono maggiordomo della reazione e dell’imperialismo guerra fondaio. E lui risponde… non vale la pena discutere e confutare le vostre argomentazioni, siete capaci solo di scrivere contumelie, villanie, insulti. Roba insomma da codice penale.
Ma la polemica si fa sempre più dura, gli insulti, le villanie, le offese anche personali continuano… potremmo lasciar correre – scrive il Direttore – ma purtroppo non si può… per la ragion che nol consente. Poi, con evidente ironia, commenta… grazie, molte grazie,siete troppo buoni. Anzi, sono perfino dispiaciuto di aver rubato tanto spazio alle vostre preziose pubblicazioni. La colpa non è mia ma vostra o forse delle vostre redazioni centrali che vi consentono di scrivere tante sciocchezze. Mi accusate, tra l’altro, di essermi venduto al fascismo ieri, alla Democrazia Cristiana oggi: ne ho ricavato ben poco evidentemente se sono rimasto povero e ho bisogno di lavorare duramente per guadagnarmi il pane.
Difende la riforma agraria perché… la gente muore prima di ottenere un pezzo di terra abbandonato mentre i ‘sudati risparmi’ della borghesia restano nelle banche per essere investiti nell’industria del Nord. La borghesia lo accusa di fare gli interessi del proletariato… in molte lettere mi viene espresso il rammarico che io avessi abbandonato al suo destino la borghesia per esaltare i contadini, cioè senza eufemismi il proletariato. Sono illazioni arbitrarie… difendiamo le riforme sociali e sosteniamo la piccola proprietà contadina perché non si è mai dato che un borghese diventi proletario… e se il comunismo si oppone a questa trasfusione di sangue è perché vuole che il proletariato resti proletariato, indifferenziato e amorfo.
Difende la borghesia… e i proletari l’accusano di gretto conservatorismo. Perfino dal Salento, la sua terra, è tacciato di tradimento.I leccesi soprattutto, che ben sanno di avere in lui un concittadino, lo accusano di faziosità, di discriminazione, di provincialismo e di curare solo gli interessi di Bari.
E va bene -risponde de Secly – siamo provinciali, accogliamo però l’accusa come una lode se provinciali significa tenersi al sodo, lontani dalle ubbie, procedere con i piedi di piombo. In fondo ci turba tutto ciò che brilla perché siamo dei contadini ammalati della passione della terra. Certo, la Gazzetta è attentissima agli interessi della città che l’ha promossa e l’ha veduta nascere e la sostiene; ma è attentissima anche agli interessi delle altre città e zone della regione, perché crediamo fermamente non vi sia contrasto fra gli interessi del capoluogo e quelli della regione. Bari desidera avere attorno a se terre feconde e fervide di attività, così come la Puglia avrebbe interesse ad avere una Bari capace di riassumerne e di potenziarne le inesauste energie… e sempre abbiamo rispettato il geloso amore per il natio loco.
Ma lui pure si sente tradito dai suoi concittadini: alle elezioni amministrative del 10 giugno 1951, nonostante i suoi sforzi a favore della Democrazia Cristiana e dei partiti di centro, i leccesi votano per i monarchici e per ilPartito dell’Uomo Qualunque ed eleggono sindaco il monarchico Oronzo Massari.
Ormai, la contrapposizione politica non ha più regole, la radicalizzazione ideologica ha raggiunto livelli parossistici. Non ci sono più sconti per nessuno, neanche per gli amici liberali o per lo stesso Partito, che nel 1951 preferisce una opposizione costituzionale all’opposizione costruttiva all’interno del Governo. Per de Secly era una scelta discutibile poiché… un’opposizione fuori dal Governo è paragonabile e confondibile con l’opposizione socialcomunista.
Neanche lo stimato deputato liberale, amico personale del Direttore, Giuseppe Perrone-Capano, che ha giustificato la scelta del Partito con un presunto pericolo di clericalizzazione della DC si salva dai commenti sarcastici del Direttore: Oh! Gesù, Gesù, dove si è ridotto il Partito Liberale. L’on. Perrone-Capano sempre pronto a protestare contro la minaccia del clericalismo non ha ancora protestato contro la minaccia del comunismo; l’on. Perrone-Capano sempre pronto a protestare contro la voce dei cattolici non ha ancora protestato contro la voce che si leva da Praga e che i giornali socialcomunisti indicano come la ‘voce dell’Italia’. Dunque due pesi e due misure! Per un liberale di stretta osservanza, quale egli si proclama, è un affare grave.
De Secly, insomma, ha raggiunto un tale limite d’insofferenza verso tutto il mondo comunista da avere gli stessi toni dileggianti, la stessa animosità, la stessa violenza dei suoi oppositori… questa è gente di una intolleranza retriva e abietta, sono subdoli e ambigui, scrive.

La ‘guerra’ continua (Leggi anche)

Il 6 giugno 1953 si svolgono per la seconda volta, le elezioni politiche generali. Qualche giorno prima Luigi de Secly si ritrova fra le mani un volantino di propaganda del Partito Comunista che chiama gli italiani all’appello… il Partito dei lavoratori, il Partito degli sfruttati e degli oppressi, il Partito di Gramsci e di Togliatti chiede oggi l’appoggio vostro per il suo programma di pace, di lavoro e di libertà.
E de Secly commenta: Oh tremenda irrisione chiedono la pace i creatori della guerra fredda; chiedono lavoro quelli che lo impediscono con gli scioperi politici a catena e con l’ostruzionismo parlamentare; chiedono la libertà i conculcatori di essa, quelli che l’hanno soppressa negli Stati satelliti e nell’ambito stesso del loro partito. Tanta audacia lascia perplessi e smarriti!
E, prima che la campagna elettorale si chiuda, scrive ancora: non vorremmo che il lettore pensasse ad un nostro stato d’animo particolarmente drammatico e pessimista ma in Italia purtroppo alternativa non vi è: fuori dai partiti di centro non vi è democrazia, ma il bieco totalitarismo… che vuole assidersi al potere e distruggere le fondamenta della vita nostra e di portarci con la violenza e col sopruso in uno schieramento che non può essere nostro. L’Italia è stata posta da Dio nell’Occidente dell’Europa. La sua civiltà, la sua storia, la sua arte, la sua letteratura sono occidentali; l’Italia non può vivere che nella sua casa, sotto il tetto assegnatole dal destino, di fronte al suo mare libero.
A dispetto dei contrasti politici e ideologici però, nonostante la scomparsa di Alcide De Gasperi, il 18 agosto del 1954, malgrado l’ingovernabilità causata dalle velleità degli alleati di governo e dalla riottosità nel partito di maggioranza relativa, dilaniato dalle ‘correnti’, nonostante le semestrali crisi di governo, il Paese marcia speditamente verso il ‘miracolo economico’. Ma bisogna accelerarla e dunque bisogna cambiare. E la Democrazia Cristiana, al fine di sottrarsi dalla sudditanza dei piccoli partiti con cui è stato costretto a governare negli ultimi anni, intende ripetere il successo plebiscitario del 1948 per aggiudicarsi la maggioranza assoluta… bisogna edificare una diga, un muro di voti per limitare la forza dei partiti minori e ridimensionare i socialcomunisti.
Bisogna ottenere una maggioranza tale da non essere costretti a formare Governi con più alleati.
L’ingrato compito è affidato ad Amintore Fanfani, segretario nazionale della DC, grande personalità, dotato di una vivacità impressionante tipica degli uomini di taglia small. Governare da soli non ci entusiasma – dirà Fanfani – ma è l’unica alternativa che ci resta. Comincia così, il gioco delle parti. È un gioco duro, crudele, spietato dove per amor di tesi, tutto è permesso, dove contraddirsi è il meno. Un gioco in cui è vietato guardarsi intorno e sentire altre voci, un gioco in cui spesso, uomini obiettivi, sereni, capaci di discernimento, diventano ombre vaganti con negli occhi una sola luce, un solo faro, una sola verità: la propria. E, va detto, nell’enunciare, spiegare, esporre il verbo, la verità assoluta – i socialcomunisti sono reduci delle denunce dei crimini di Stalin e delle vicende d’Ungheria – Fanfani non è secondo a nessuno.
De Secly inizia la sua campagna elettorale il 30 gennaio 1958. Riprendendo un discorso di Togliatti al Teatro Adriano di Roma, il Direttore scrive: il ‘Migliore’ ci ha presentato la consueta fiera delle meraviglie, il solito disco dei comunisti sparsi nel mondo: ricchezza in Russia miseria altrove, bontà in Russia, protervia e odio altrove. La Russia è la pace, gli Stati Uniti sono la guerra. Poi però afferma che se l’Italia accetterà l’installazione dei missili americani, la Russia attuerà una rappresaglia ‘fino allo sterminio’ – ha detto testualmente Togliatti – contro quei Paesi che accetteranno le ogive atomiche. E ancora… la DC ha ricostituito il vecchio stato poliziesco… un falso storico perché in un ‘vecchio stato poliziesco’ non avrebbe potuto prosperare il più forte partito comunista d’Europa.
Questo il clima nel quale si combatte la prossima battaglia elettorale.
Or non è guari – scrive de Secly verso la fine di febbraio – ho ricevuto una lettera, non so perché anonima. L’autore chiede la mia opinione intorno ad alcuni argomenti di ardente attualità. Egli non comprende come parole quali: libertà, pace, giustizia, progresso, democrazia, Parlamento, libera stampa, partiti, giornalisti, ecc. abbiano, a seconda di chi le dice, un significato diverso e contrario. Ma è chiaro che per poter vivere bisogna abbandonare la via dello scetticismo e del dubbio e ancorare la propria opinione a qualche cosa di certo, a qualche cosa in cui si crede. La pace è la pace, la libertà è la libertà, la democrazia è la democrazia. Purtroppo, però, l’interpretazione comune di queste parole non è più universale, dalla Rivoluzione d’Ottobre in poi le lingue si sono mescolate ed è nata la ‘torre di Babele’.
Così è accaduto che la parola ‘pace’ non ha più il significato tradizionale. In una piccola enciclopedia del socialismo e del comunismo, si legge che…la pace potrà essere realizzata solo quando sarà prevalso, nel mondo, al sistema capitalistico il sistema sovietico.
Ovviamente, non commenta con lo stesso metro le fosche previsioni di Amintore Fanfani che in un discorso a Taranto dirà… se vincessero i socialcomunisti, per alcuni sarebbe la Siberia, per altri il mare o un lampione!
È il gioco delle parti e non sarà una battaglia politica sul filo della polemica, ma una lotta al massacro, a chi le spara più grosse. Venti giorni prima delle elezioni, la babele di lingue e opinioni è tale che non si capisce più niente. Non si parla più di programmi, non esistono più ‘patti’, niente più ‘alleati’, ognuno per sé. Fino a ieri – scrive de Secly il 4 maggio – l’appello della DC era anche rivolto all’elettorato democratico, cioè all’elettorato dei partiti di centro. Oggi non più, uno dopo l’altro le direzioni di quei partiti si sono schierati contro la DC e allora bisogna creare una diga. E’ sufficiente richiamarsi alle rivelazioni di quanto è accaduto nel mondo comunista dal 1947 fino a ieri, una via lunga e tenebrosa costellata di assassini, di morti misteriose, di lotte personali senza quartiere, di odii senza pietà e senza scampo, per convincersi che l’Italia non può essere affidata, neanche per un giorno, ad un branco di belve. Abbiamo da difendere un patrimonio spirituale, morale e materiale immenso, il passato e l’avvenire.
Se la prende con Palmiro Togliatti, gli dice di non comprendere come un uomo di cultura, un intellettuale, riesca a conservare le sue convinzioni senza mai un dubbio… come è accaduto che Ella sia passata immune dallo studio della storia sempre col chiodo del marxismo nella testa senza mai tentennare? Mai un’idea nuova ha fatto presa sul suo cervello?
La Democrazia Cristiana vince le elezioni ma non come avrebbe voluto, la DC ha retto l’urto concentrico del Partito Comunista e dei socialisti, divisi dopo i fatti d’Ungheria, ma non c’è da essere euforici, dovrà continuare a governare con i cosiddetti ‘cespugli’ i piccoli partiti di centro.
Si apre così la nuova legislatura e conserva le vecchie abitudini.
A comporre il nuovo governo, varato il 2 luglio 1958, è chiamato Amintore Fanfani che per l’appoggio dei soli socialdemocratici è definito di ‘centrosinistra’. Sei mesi dopo è già crisi. Il 26 gennaio 1959 Fanfani si dimette dalla presidenza del Consiglio, il 31 da segretario politico della DC.

L’uomo nuovo

Ci vorranno due mesi per eleggere un nuovo Segretario. Ci vuole un nome nuovo, equilibrato che dia un senso di staticità, forza e stabilità del Partito. Quell’uomo si chiama Aldo Moro, astro nascente della DC, portatore di stimoli,di nuove aperture eletto Segretario della DC dal Consiglio Nazionale nella notte del 16 marzo 1959 e confermato dal Congresso il 29 ottobre…il compito pesante che mi è stato conferito è quello di raccogliere in unità le forze del cattolicesimo operante in campo politico. Nessuna ricerca di alleanze… la DC deve restare saldamente ancorata al centro democratico chiusa così sia a destra che a sinistra ma… flessibile sul piano tattico sempreché non si esca dall’area democratica.
Moro ha intuito e ribaltato a favore della DC, il momento delicato della vita del partito, innestandovi un concetto di forza: se è vero che nessuno vuol governare con la DC, è altrettanto vero che nessuno può governare senza la DC. Il partito dunque è, e resta al centro, attorno a questa linea non ci sono steccati a condizione che sia la destra, o la sinistra, a muoversi verso il centro. Ecco il concetto di ‘flessibilità sul piano tattico’.
Aldo Moro, o come dice altri, il prof. Aldo Moro, dovunque, per abito o costume mentale ha cercato sempre di lasciare traccia di sé lavorando sodo perché non è di quelli che accettano un incarico per assidersi sugli allori – scrive de Secly- tuttavia il suo nome e l’opera sua erano conosciuti soltanto da una ristretta cerchia di uomini, da una élite che a lui ricorreva per consiglio, per meditazioni, per conciliare uomini e tesi. A siffatti compiti era del resto chiamato da una innata signorilità, da una fine dialettica, da una notevole agilità mentale, dalla pacatezza e sobrietà del linguaggio, dalla spontanea cordialità dei modi, dalla riservatezza e dall’impossibilità direi fisica di usare una parola fuori posto o di sostituire l’oltraggio alla critica.
Ricordo ancora – continua il Direttore – quando tenne a Bari il primo discorso nella sua qualità di Segretario politico della DC: il momento era grave… si trattava di assicurare la vita contemporaneamente del Governo e del partito. Molti dubitavano che Moro sarebbe riuscito ad affrontare tanti difficili compiti con energia perché, dicevano, quel che gli manca è proprio l’energia.
Poi, Moro parlò, e la sala colma di iscritti alla DC che da tempo avevano dimestichezza con lui, con la sua oratoria, vibrò dall’uno all’altro capo: non era più il Moro stilizzato, immobile dinanzi ai microfoni, con lenti e solitari gesti per sottolineare raramente qualche frase e qualche concetto; era un Moro diverso anche se non aveva perduto le sue caratteristiche essenziali, anche se quel tono umanissimo riusciva a conservare e a garantire una personalità che si era andata lentamente e solidamente formando nel corso degli anni. Sul suo volto passione e commozione si avvicendavano, le parole erano divenute perfino dure e drastiche, il concetto non si avviluppava più cautamente in una serie indefinita di circonlocuzioni ma esprimeva con immediata rapidità, il gesto accompagnava più spesso e adeguatamente la parola. Il cambiamento era stato totale e il pubblico che ascoltava se ne accorse subito e sentii intorno a me qualcuno che diceva: ecco la risposta ai dubbiosi. Da allora egli è divenuto il protagonista della DC. Non lo diciamo noi soltanto, ma in tutto il Paese il suo nome è divenuto popolare perché è riuscito a dare un tono alla battaglia politica, perché egli è divenuto il baluardo e la trincea della sola battaglia e della sola vittoria che conti veramente: quella per l’unità. Il popolo l’ha intuito e la stampa, da Torino a Milano, da Palermo a Catania, ne ammira gli accenti, gli obiettivi, il calore inimitabile, e la forza della la sua cordialità, la sua pacatezza si sono trasformate in forza viva e operante. Il popolo ha intuito che egli non è un ambizioso, che egli è il cireneo pronto al sacrificio pur di conservare al partito l’unità nel segno comune dello scudo crociato.
De Secly non vivrà abbastanza per sapere che la storia gli darà ragione!

Di nuovo a casa, nell’amata Lecce!

Nel 1959 il Direttore riceve la visita del presidente della Società di gestione della Gazzetta Nicola Tridente il quale, con molto tatto, lamenta spese eccessive della redazione… è aumentato il numero dei collaboratori, dall’Italia e dall’estero, è aumentato il notiziario, la foliazione e il consumo di carta, costosissima. Gli fa perfino balenare un deficit di gestione. In pratica, è un invito a farsi da parte, a dimettersi, ma lui non ha gradito, ed è così turbato che sente la necessità di confidarsi con i lettori.
Ci sia consentito, una volta tanto, parlare di noi stessi. Non per vanità, s’intende, ma perché parlare di se stessi vuol dire parlare di questo fenomeno complesso che è il giornale, che si pone al centro della vita moderna e della vita moderna esprime amori e odi, progressi e regressi, virtù e vizi. Bisogna dirlo subito: non abbiamo amici, anche se abbiamo lettori. Sono contro il giornale vasti settori dell’opinione pubblica, ci sono contro uomini politici e partiti di diversa opinione, ci è contro la Magistratura che ignora spesso la funzione, i problemi, gli aspetti essenziali del giornale, infine – e pare incredibile – ci sono contro le Amministrazioni dei giornali stessi che lesinano le spese e negano la vita tormentata, i doveri, le particolari caratteristiche del lavoro giornalistico.
Dopo questo sfogo, gli viene detto con chiarezza che il 31 dicembre 1960 dovrà lasciare!
Fin qui, il de Secly pubblico, il giornalista antifascista e anticomunista, lo storico, il filosofo, il letterato. Ma com’era il de Secly privato? C’era qualcosa che amava in modo particolare oltre alla famiglia e alla sua Lecce? Quali gli svaghi personali, le piccole grandi cose che riempiono la vita alleggerendo affanni, dispiaceri, pene di tutti i giorni? I libri, libri e ancora libri che fin da adolescente gli consentono‘avventure del pensiero’. Poi c’era Benedetto Croce e infine il cinematografo.
Comincia a leggere libri di letteratura, arte, storia e politica subito dopo le medie superiori e,quando incontra il professore di Ruffano, che l’avvia al giornalismo, inizia a divorare giornali e periodici…letture che tenevano svegli in me gli avvenimenti quotidiani con la viva necessità di approfondirli, di stabilire paralleli… per anni e anni sono vissuto nutrendomi quasi interamente di Machiavelli, Guicciardini e dell’enorme letteratura critica ivi connessa. Si può dire che non mi sia sfuggito volume dei due grandi scrittori fiorentini. Amavo le belle edizioni del Cinquecento, del Seicento e del Settecento che permettevano di scrivere largamente ai margini. E per anni, fino al 1925, leggeva i lucidi commenti e analisi politiche di Luigi Albertini sul Corriere della Sera… per capire e navigare nei meandri della politica.
Poi, comincia a leggere i libri di Benedetto Croce ed… è stata questa la passione più viva e più costante che io abbia avuto… il Maestro era uno di quegli uomini che Iddio fornisce ai popoli ogni due, tre generazioni e il cui pensiero contiene possibilità immense di sviluppi…era un punto fermo, una direttiva, un cammino sicuro.
De Secly frequenterà Benedetto Croce fino alla morte del filosofo il 20 novembre 1952. Con Croce, la sua visione del mondo, della vita, si amplia… Oh, la gioia di acquistare un libro, possederlo. Quante mai volte il buon Giovanni Laterza mi ha annunziato: domani esce un nuovo volume di Croce. E a me è accaduto di non dormire durante la notte, e il giorno dopo, a prima ora mi sono recato alla libreria.
Sono le opere del Maestro che lo avviano alla filosofia… una disciplina che rappresenta la base di tutte le altre, in essa si può trovare vastità di orizzonti, possibilità di intendere la vita e con essa la storia.
Erano giorni di intima gioia quando poteva incontrare Croce che veniva a Bari per curare le pubblicazioni dei suoi libri. Croce lo riceveva nello studio di Giovanni Laterza e, quando la libreria chiudeva, de Secly lo accompagnava al tram per raggiungere la villa dei Laterza, a metà strada fra Bari e Carbonara, dove il Maestro veniva ospitato. A volte capitava di essere invitato a colazione con la famiglia Laterza e il loro illustre ospite: de Secly non stava nella pelle. Scendeva di corsa le due rampe di scale che dalla redazione conducevano all’ingresso del giornale, inforcava la bicicletta e via di corsa a villa Laterza… ore di tranquillità assoluta di fronte ai grandiosi alberi della villa. Ore deliziose… il Maestro ha una memoria straordinaria, il suo pensiero è lucidissimo. Io, com’è mio costume, stimolo la conversazione. Parliamo di molte cose; molto di studi, poco di politica.
Altre volte Croce lo invitava a Napoli per un paio di giorni. Il solo pensiero di essere ospite in casa del Maestro e poter nutrire gli occhi e la mente dei suoi libri… perfettamente stipati e conservati in grandi ambienti su mensole alte fino al soffitto… gli procurava una felicità incontenibile.
Il mattino successivo il Maestro lo conduceva in giro per l’antica capitale del regno borbonico deliziandolo della sua erudizione, gli parlava dei luoghi storici, dei personaggi che ha conosciuto e dei locali frequentati da Edoardo Scarfoglio, Matilde Serao, degli Scarpetta, di Salvatore Di Giacomo e Ferdinando Russo, il poeta dagli occhi di brace, e del filosofo tranese Giovanni Bovio che per molti anni visse e morì a Napoli in miseria.
De Secly soffre molto la scomparsa di Benedetto Croce. Era come se avesse perso un pezzo di se, un lutto personale: si era spento il ‘padre’ della sua esistenza culturale e spirituale e qualcosa cominciava ad esaurirsi anche in lui tanto che riduce il suo impegno professionale, salvo tornare ad accendersi durante le varie campagne elettorali, o ad esaltarsi nel vedere il progredire della città che l’ha adottato come figlio proprio.
Così, quando i cronisti gli dicono che finalmente il Commissario straordinario al Comune di Bari, prof. Carlo Del Prete, è riuscito ad ottenere dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici l’approvazione per lo sfoltimento e il risanamento igienico-urbanistico della città vecchia, de Secly si entusiasma… questa città che appena ieri usciva dal suo piccolo guscio, oggi già cammina imperterrita e sicura si va rinnovando ingrandendo e potenziando. Il centro si va arricchendo di palazzi spettacolari che farebbero onore a qualsiasi metropoli, interi rioni con centinaia e centinaia di palazzi sono sorti come d’incanto, sta per essere fondato un quartiere residenziale e meraviglia delle meraviglie essa sta per ricostruire un’autentica cittadina medievale tra il Castello, la Cattedrale e la Basilica sulle quali gli uomini potranno riandare al loro passato, riviverlo con essa, sicché di Bari si potrà dire sì che è città moderna, ma non potrà più essere dimenticata la sua parte antica e con essa la sua turbinosa e coraggiosa storia millenaria.
Poi, torna ad immergersi nelle sue letture. Da tempo, sempre più spesso, ha cominciato a delegare organizzazione e relazioni, interne ed esterne al giornale al giovane Oronzo Valentini, ‘lu Ninu’, come lo chiamava lui.
Aveva così cambiato vita, interessi e abitudini. Restava più tempo nella sua stanza, leggendo molto e scrivendo poco e, a tarda sera, quasi tutte le sere, andava al cinema, allo spettacolo delle 23. Ma non gradiva andarci da solo. Sovente si accompagnava ad Italo Del Vecchio, il capocronista, che a quell’ora aveva già chiuso le due pagine di cronaca. Non mancava mai un film con Rita Hayworth: era affascinato dalle mani affusolate della splendida attrice americana.
Luigi de Secly si spegne il 23 febbraio 1970 nella grande casa del borgo antico a Lecce, quasi totalmente sommersa da una enorme quantità di libri, molti di più di quei diecimila volumi calcolati in un articolo del 1945. Negli ultimi anni si era dedicato alla lettura della poesia antica e moderna… dove fra luci ed ombre si avvicendano fantasmi dei tempi passati e che pure si presentavano nella nostra vita di uomini, specialmente quando ci si ripiega su se stessi e si vogliono raccogliere le vele.

Nicola Mascellaro

Tratto da “Bari Dal Borgo alla Città–I protagonisti”, Di Marsico Libri, luglio 2018 p.225-254

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