PADRE PIO - SAN PIO

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PADRE PIO - SAN PIO

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Pietrelcina 25 maggio 1887 – San Giovanni Rotondo 23 settembre 1968

Al secolo Francesco Forgione, sacerdote proclamato “Beato” in Piazza San Pietro il 2 maggio 1999 da Papa Giovanni Paolo II ed il 16 giugno 2002 “santo” da Papa Giovanni Paolo II

Di biografie su Padre Pio, al secondo Francesco Forgione, sono state scritte tante da persone che lo hanno conosciuto in vita e tutte lo definiscono: “Padre Pio riproduce nel suo fenomeno e nel suo mistero Cristo Amore immolato per la vita degli altri” (Cardinale Pietro Parente); “Padre Pio, difficile a dirsi, è il rappresentante stampato delle stimmate del Cristo” ( Papa Paolo VI); “In lui si è rinnovato, in quanto era possibile a chi non era Figlio di Dio, la passione di Gesù Cristo. Questo è tutto, padre Pio da Pietrelcina sta in questa affermazione” (Cardinale Giuseppe Siri).

Questi richiami sono contenuti nella prefazione “La grandezza di Padre Pio” di Padre Bernardino Romagnoli da Siena, Postulatore Generale O.F.M. Cap.  al libro “Padre  Pio”  di Dante Alimenti, editrice Velar del 1984, che inizia con la “Cronologia della vita di Padre Pio” per fine con “Verso la meta” l’ultimo capitolo che si chiude ricordando che “Alle 2.30 di lunedì 23 settembre (1968) piega dolcemente la testa. Serenamente e dolcemente torna alla casa del Padre Celeste. E’ la fine della straordinaria avventura terrena di un giusto che ha avuto la forza e il coraggio di imitare Cristo e Francesco d’Assisi restando, come il Poverello, fedele alla Chiesta ed operando per rinnovarla e purificarla”.

In questo libro sono stato attratto dal capitolo “L’infanzia” che descrive il piccolo paesino Pietrelcina dove è nato Francesco dove la vita “scorre lentamente, ritmata dalle stagioni e principalmente dai lavori agricoli.”

Il padre Grazio  Forgione “va a Napoli, prende contatti con l’impresario che recluta contadini e braccianti per il “nuovo mondo” e torna al borgo natio più  che mai di convinto di partire. Francesco viene affidato alle cure di Cosimo Scocca, un giovane che aveva ottenuto un traguardo molto prestigioso per l’epoca: la licenza elementare. Con Cosimo il ragazzo comincia  a distinguere le lettere dell’alfabeto e così può leggere i libri di preghiera che trova nella parrocchiale e nella piccola  chiesa di Sant’Anna.”

Con la partenza del padre verso “un mondo nuovo” Francesco, all’inizio del nuovo secolo, ormai alla soglia dei quindici anni, si tuffa con rinnovato vigore nello studio.”Il ragazzo avanza una richiesta ben precisa: vuole andare al convento di Morcone dove vive quel simpatico questuante che va in giro per rimediare un po’ di farina per la comunità. La barba di fra Camillo lo ha affascinato e lui vuole essere operaio del Signore a fianco di quell’allegro seguace di Francesco d’Assisi.

“Don Salvatore si informa presso i cappuccini per sapere se può mandare a Morcone il suo migliore chierichetto. La risposta é negativa e al ragazzo si prospetta l’opportunità di andare in qualche altro posto, magari in quel santuario di Montevergine che Francesco aveva visitato durante il viaggio verso Pompei. Zio Pellegrino insiste, ma il ragazzo, nonostante goda fama di persona mite e remissiva, è irremovibile. O i cappuccini o nulla.

Ma Don Salvatore ammicca e Francesco si rassicura.

“Basta saper attendere” gli spiega, con un filo di voce, il parroco. Ed infatti l’attesa é premiata. A fine settembre c’é il sospirato invito a presentare i documenti di “rito”.

Il certificato di battesimo, quello della cresima, le dichiarazioni dei maestri sugli studi compiuti, l’attestato del parroco, la composizione della famiglia.

Se ne occupano i più stretti collaboratori di Don Salvatore che però, ai primi di ottobre, blocca tutta l’operazione. Sotto la porta della canonica ha trovato un messaggio anonimo che mette in dubbio l’onestà di Francesco Forgione. Con qualche incertezza grammaticale e molti errori sintattici un non meglio identificato “amico della Chiesa” informa la maggiore autorità ecclesiastica di Pietrelcina che l’aspirante frate francescano ha “rapporti intimi” con Caterina, la figlia del capostazione del borgo, un uomo dalle idee anarchiche che pensa più alla rivoluzione che all’unico traballante convoglio che una volta ogni due giorni transita per il paese.

Caterina é da tutti considerata una ragazza diabolica. Ha un volto molto bello ed un corpo armonioso. A prima vista può sembrare la figlia di un nobile o la dama di compagnia di una regina. I ragazzi della zona sono tutti innamorati, ma, ad ascoltare i soliti bene informati, Caterina guarda lontano e non si imbarca in avventure dai contorni indefiniti con i poveri contadini del borgo. Francesco che ha in mente di evadere da Pietrelcina – potrebbe aver fatto breccia nel cuore della giovane e don Salvatore é molto preoccupato anche perché l’aspirante cappuccino è più taciturno del solito, quasi volesse nascondere qualche progetto inconfessabile.

Il parroco, come prima misura, prega Francesco di non indossare più la cotta e di non presentarsi ai piedi dell’altare per servire la messa. Il ragazzo é  esterefatto. Non riesce a parlare e a chiedere spiegazioni.

Sono momenti di intensa sofferenza sia per chi ha ricevuto la pena, sia per chi l’ha inflitta.

Tutti si guardano intorno con tono interrogativo. L’unico ad ostentare grande sicurezza é un certo Luigi, figlio di un pastore, che allegramente prende il posto dell’amico messo in disparte.

Mamma Peppa dice al figlio che se non si decide a chiedere spiegazioni sarà costretta a muoversi in prima persona. Ma tutto cade nel vuoto. Il parroco, col passare del tempo, é sempre più convinto di aver preso un provvedimento saggio. Non solo ha allontanato il ragazzo dal servizio durante la messa, ma ha bloccato la pratica per il suo ingresso al convento di Morcone.

Il giovane Forgione non esce nemmeno di casa. In chiesa ci mette piede soltanto all’alba quando uno dei sacerdoti che aiutano il parroco celebra la prima messa per i contadini che lasciano Pietrelcina di buon’ora per andare ad arare i campi.

La natura si avvia verso il letargo e lo scenario diventa sempre più triste. (pag 42)

Don Salvatore scopre che a scrivere l’infamante lettera è stato un altro chierichetto, geloso delle attenzioni del parroco verso il suo amico. Luigi confessa di aver costruito l’inesistente storia d’amore per mettere in cattiva luce Francesco che finalmente riesce a capire i motivi per i quali gli è stato impedito di raggiungere Morcone e di servire la messa. Il giovane ha un gesto di ribellione. Vorrebbe vendicarsi, ma poi ricorda le beatitudini. “Beati i perseguitati perchè di essi è il regno dei cieli”. ”Beati gli umili” “Beati i poveri” “Beati gli afflitti”

Va a pregare sulla tomba dei suoi fratelli e chiede al Signore la forza del perdono.

 Mentre la società si divide e gli uomini, anche quelli che vivono porta a porta, combattono per una stupida supremazia, Francesco Forgione non esita ad archiviare l’episodio di cui è stato vittima. Luigi viene perdonato. Il parroco vorrebbe allontanarlo perché lo considera pericoloso, ma la vittima della stupida provocazione chiede clemenza ed è esaudito.

Don Salvatore si convince che Francesco è degno di essere ospitato tra i cappuccini di Morcone e accelera i tempi della partenza.”

Mi sono dilungato nel descrivere questo incresciosa cattiveria del giovane Luigi verso il suo amico Francesco mosso dall’invidia proprio perché se Don Salvatore non si fosse convinto che Francesco era degno di essere ospitato tra i cappuccini al Convento di Morcone non staremmo ora a descrivere la vita religiosa di San Pio, al secolo Padre Pio, al secolo Francesco Forgione.

Nota di aurelio valente

Come commento personale non posso che credere in uno straordinario capovolgimento di un fatto negativo che viene appena in tempo neutralizzato in modo che sia bloccata la svolta negativa dei fatti, a danno della forte aspirazione di Francesco, provocata da una leggerezza del giovane Luigi di screditare nei confronti del parroco, con la lettera anonima, il più bravo chierichetto nella parrocchia.

IN BREVE SE NON SI FOSSE AVVERATO IL RIPENSAMENTO DEL GIOVANE LUIGI E LA SUA CONFESSIONE AL PARROCO DON SALVATORE, CHE SI CONVINSE CHE “FRANCESCO ERA DEGNO DI ESSERE OSPITATO TRA I CAPPUCCINI DI MORCONE” ED ACCELERO’ “I TEMPI DELLA PARTENZA”,  SICURAMENTE FRANCESCO NON AVREBBE INIZIATO IL NOVIZIATO E NON SAREBBE STATO PADRE PIO E POI SAN PIO.

E’ proprio in questo passaggio, da me considerato come momento di svolta per tutto il seguito della grande storia religiosa di Padre Pio ora San Pio, che si è avverato l’aspetto più sconvolgente di tutta la testimonianza unica di Padre Pio, bersaglio prima ancora del noviziato dell’avversa diabolica congiura miracolosamente bloccata.

Nel libro segnalato “Padre Pio” il racconto continua “Anche le ultime foglie sono cadute dagli alberi e i ragazzi del paese vanno già per le campagne in cerca del muschio per i presepi. Siamo alla vigilia di un altro Natale e Francesco Forgione è felicissimo. Sa che tra poco il suo sogno sarà coronato.”

 In effetti “Nel noviziato ci sono 28 ragazzi. E a Francesco, ultimo arrivato, viene assegnata la cella numero 28. È una stanzetta molto piccola con una finestrella di circa un metro per due che si affaccia sull’orto della comunità dove ci sono un paio di capre, le galline, il cane, il maiale. Si intravedono anche alcuni alberi che dovrebbero essere da frutta, ma é difficile identificarli perché sono completamente spogli. Dalla parte opposta c’è un chiostro con il pozzo per l’acqua e  al centro. Oltre un muraglione tufaceo si trova il cimitero dei frati. (…) (pag.50)

Per Francesco é un giorno storico; comincia per lui un’altra  vita, con un nome diverso da quello di battesimo. D’ora in avanti il giovane novizio si chiama Pio, per decisione dei superiori. L’aspirante frate si dedica con grande passione alla vita religiosa; trascorre lunghissime ore in preghiera, parla pochissimo, si impone digiuni e giunge persino a flagellarsi per mortificare la carne. Va sempre in giro a piedi nudi, con l’unica tonaca che il convento gli ha messo a disposizione. Nella sua cella c’é un letto di tavole, un inginocchiatoio, un crocifisso, un tavolo, una sedia e un armadio a muro per conservare i pochi indu­menti portati da casa ed i libri delle preghiere.

Fra Pio trascorre ore ed ore meditando sulla passione di Cristo e sul mistero della sofferenza.

Gesù é salito in croce per l’uomo, ha trovato nel martellamento dell’agonia sul Golgota la sua pace ed ha avuto la forza di pregare per i carnefici memore del comandamento nuovo che aveva proclamato e cioè quello dell’amore reciproco.

”Amate quelli che vi odiano”.

Fra Pio ripete spesso questo insegnamento di Gesù e gli sembra, purtroppo, di non metterlo in pratica fino in fondo. (pag. 50)

Da questo momento in poi c’è la lunga vita religiosa di Padre Pio (al secolo Francesco Forgioni), dedicata alla preghiera che termina alle 2,30 del mattino del 23 settembre 1968, quando Padre Pio muore pronunciando ripetutamente i nomi di Gesù e Maria. Durante il controllo ispettivo sul corpo del Cappuccino, appena spirato, si scopre che le stimmate sono scomparse senza lasciare traccia.

Il 20 marzo 1983, nel Santuario “Santa Maria delle Grazie” in San Giovanni Rotondo si è aperto ufficialmente il processo cognizionale sulla vita e le virtù di Padre Pio, al secolo Francesco Forgione, che si è concluso il 21 gennaio 1990 nello stesso Santuario.

Il 12 febbraio 1990, presso la sala “San Lorenzo da Brindisi” della Curia Generale dei Frati Minori Cappuccini in Roma, è stato aperto il processo di beatificazione e canonizzazione ad opera di mons. Antonio Casieri, cancelliere della Congregazione delle Cause dei Santi.

Il 18 dicembre 1997, nella sala del Concistoro, in Vaticano, alla presenza del Papa Giovanni Paolo II, è stato letto il decreto sull’eroicità delle virtù di Padre Pio, che acquista il titolo di «venerabile».

Il 2 maggio 1999, in Piazza San Pietro, Giovanni Paolo II ha proclamato «beato» il venerabile Padre Pio da Pietrelcina.

Il 16 giugno 2002, in Piazza San Pietro, Papa Giovanni Paolo II ha proclamato «santo» il beato Padre Pio da Pietrelcina.

IL PAPA A SAN GIOVANNI ROTONDO E IN CAPITANATA

A cura di Gherardo Leone, Edizione CASA SOLLIEVO DELLA SOFFERENZA-San Giovanni Rotondo – 1987

IL PAPA TRA NOI

Nell’aprile 1947, dopo Pasqua, un giovane sacerdote polacco studente dei Teologia al’Angelicum di Roma, don Carlo Wojtyla, insieme con un collega studente, giungeva alla stazione di Foggia e, dopo alcune ore di viaggio, raggiungeva San Giovanni Rotondo.

Nei primi di novembre del 1974 quel sacerdote, diventato Cardinale Arcivescovo di Cracovia, tornava nel Santuario di Santa Maria delle Grazie e celebrare la Santa Messa nell’anniversario della sua ordinazione sacerdotale e a pregare sulla tomba di Padre Pio.

Scrissi qualche anno fa che era giusto che quel giovane sacerdote, venuto prima da semplice prete e poi da Cardinale, fosse tornato da Papa. Qualcuno mi disse che questo sogno poteva rimanrtr un pio desiderio. Il 23 maggio 1987 quel segno è divenuto realtà. Una folla immensa e festante ha accolto il Papa polacco tornato per la terza volta pellegrino a San Giovanni Rotondo.”

In questa introduzione del libro, che riporta l’ampia documentazione della visita del Papa a San Giovanni Rotondo e in Capitanata, Monsignor Riccardo Ruotolo, Presidente dell’Opera di Padre Pio, auspica in conclusione che “In questo programma di vita ci sia di esempio Padre Pio secondo le parole del Papa:”Voglio ringraziare con voi il Signore per averci donato il caro Padre, per averlo donato, in questo secolo così tormentato, a questa generazione. Nel suo amore a Dio e ai fratelli, egli è un segno di grande speranza e tutti invita, soprattutto noi Sacerdoti, a non lasciarlo solo in questa missione di carità

KAROL WOJTYLA E PADRE PIO STORIA DI UNA LUNGA AMICIZIA (pag. 14)

 

Papa Wojtyla ha conosciuto Padre Pio fin da quando era un giovanissimo sacerdote da poco ordinato. È un caso forse unico nella Chiesa che un Papa abbia avuto una così lunga conoscenza con un religioso destinato a salire agli onori degli altari.

Era il 1947. Karol Wojtyla si trovava a Roma, frequentava l’Università gregoriana. Lo interessarono molto le conferenze che era venuto a tenervi il reverendo Cardijn, promotore in Belgio della JOC, gioventù operaia cristiana, sul tema del suo concetto di “pastorale contemporanea tra i diversi strati sociali”. Lo apprendiamo dal libro “Il mio vecchio amico Karol” di Mieczystaw Malinski.

Erano circa due anni che il neo sacerdote Wojtyla studiava i metodi pastorali dei vari Paesi. Era stato in Francia e in Belgio, prendendo contatto con le organizzazioni di apostolato, e studiando dal vivo i problemi di azione pastorale tra i vari strati delle popolazioni: bambini, giovani, adulti, studenti, lavoratori.

Un’esperienza formidabile, che spiega tutto il Karol Wojtyla posteriore. Tutto il suo ministero. Da semplice sacerdote dapprima, e poi, via via, fino a vicario della diocesi di Cracovia, a Vescovo, a Cardinale. I suoi studi, le sue pubblicazioni. La sua dottrina. Che scava nelle cose e negli animi. Affonda il bisturi nei problemi d’ogni ordine, vagliandoli e dandone le soluzioni.

I problemi del lavoro, della società umana. E anche, fondamentalmente, quelli della famiglia, dell’individuo. Del rapporto fondamentale tra uomo-donna, nella concezione cristiana dell’amore, dell’amicizia, della solidarietà. La dottrina, o meglio le dottrine, che Papa Wojtyla ha sviluppato, e costantemente continua a sviluppare, con la sua pastorale inesausta e con i viaggi in tutti i Paesi del mondo.

Quegli anni, quella sua attività iniziale di sacerdote so­no fondamentali nella vita del futuro Papa. E proprio in quegli anni il destino, per non dire la Provvidenza, mise in contatto Karol Wojtyla con Padre Pio. Circostanze fortunate lo portarono a San Giovanni Rotondo.

La data precisa non la conosciamo. Ma fu, con molta probabilità, l’autunno del 1947. La San Giovanni di allora non era quella che si presenta oggi. Non c ‘erano prati­camente alberghi, tranne uno, Villa Pia, nella zona del Convento, più varie pensioncine molto alla buona.

Non siamo in grado di dire dove Wojtyla alloggiò, se alloggiò, e quanto tempo si trattenne. Sappiamo soltanto, da lui stesso, che poté avvicinare Padre Pio, confes­sarsi con lui, e assistere alla sua Messa. Altro non sappiamo.

Può darsi che quel giovane sacerdote straniero, alto, di bell’aspetto, simpatico, aperto, sia stato notato dai fedeli che affluivano in gran numero in quel dopoguerra disastrato al conventino di San Giovanni Rotondo.

Le file che attendevano di confessarsi da Padre Pio erano sempre molte. Patiti d’ogni genere, nel corpo e nello spirito, lo avvicinavano chiedendogli di pregare, supplicandolo per se stessi e per i propri familiari. Un’umanità piena di sofferenze bussava ogni giorno alla porta del cuore di un semplice cappuccino, che si prodigava per loro nella preghiera.

Ancora il grande sogno di Padre Pio, l’ospedale, non era sorto. Si muovevano in quei giorni i primi passi concreti per realizzarlo. Le prime fondamenta erano state tracciate. La montagna veniva sbancata ogni giorno a colpi di mina. E certo Wojtyla vide tutto questo e ne rimase colpito. Lui che la sofferenza già conosceva sulla propria persona, e in quella dei propri familiari e amici, in Polonia, la sua patria.

Certo è che la sofferenza, la preghiera e, diciamolo pure, tutto ciò che era congeniale nel modo di essere di Padre Pio, lo ritroviamo in Karol Wojtyla. Sempre. Primo fra tutto l’amore alla Madonna. Tanto che nel suo stemma c’è esplicitamente scritto “Totus tuus”: Tutto tuo.

Per molti anni egli dovette portare nel cuore tutto questo, insieme con il ricordo di Padre Pio, della sua Messa, della confessione avuta con lui. E nel 1962, quindici anni dopo quella sua venuta a San Giovanni Rotondo, Karol Wojtyla, arcivescovo, vicario capitolare a Cracovia, trovandosi a Roma per il Concilio indetto da Giovanni XXIII, prende la penna e scrive di suo pugno una lettera a Padre Pio.

L’occasione gli fu data dalla grave malattia che aveva colpito una sua concittadina, la dottoressa Wanda Poltawska, oltretutto vecchia amica di famiglia e sua collaboratrice nell’azione pastorale. La lettera la riportiamo qui accanto assieme alla relativa traduzione.

Di farla recapitare a Padre Pio si incaricò il suo connazionale monsignor Andrea Deskur che in Vaticano ricopriva la carica di sottosegretario della Pontificia Commissione per le Comunicazioni Sociali e Vicedelegato della Filmoteca vaticana.

Era stato suo compagno a Cracovia, in seminario. Anche lui una vocazione adulta. Aveva collaborato con Wojtyla e altri al “Bratniak”, cioè “Fraternale”, l’associazione universitaria nella quale erano rappresentate tutte le facoltà, compresa quella di Teologia. Quegli studenti, di cui molti malridotti, affamati, senza alloggio, reduci, sopravvissuti alla prigionia, ai campi di concentramento, erano dominati dalla volontà ferrea di riprendersi, andare avanti. Un pò’ come nel nostro dopoguerra in Italia. Monsignor Deskur sapeva che il commendator Angelo Battisti, funzionario della Segreteria di Stato, era procuratore di Padre Pio per il governo della Casa Sollievo del­la Sofferenza, l’ospedale sorto per opera di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. Sapeva anche che ogni settimana il commendator Battisti si recava a San Giovanni Rotondo per esplicare i suoi compiti, e che avvicinava assiduamente Padre Pio. Gli diede cosi la lettera di Wojtyla pregandolo di consegnarla a Padre Pio. Incarico che Angelo Battisti adempì scrupolosamente.

Ed ecco come si svolse quell’incontro, secondo il racconto fatto dallo stesso Battisti al giornalista Pino Aprile di “Oggi”.

Padre Pio mi disse di leggergli la lettera. Ascoltò in silenzio il breve messaggio in latino, poi disse: “A questo non si può dire no”. E in aggiunse:  “Angelino, conserva  questa lettera perché un giorno diventerà importante”.

Passarono soltanto dieci giorni, ed ecco che monsignor Deskur consegnò a Battisti un’altra lettera del suo concittadino Wojtyla. Anche questa in latino, scritta a mano,  datata 28 novembre 1962. Diceva testualmente, nella sua traduzione italiana:

«Venerabile Padre,

La donna di Cracovia in Polonia, madre di quattro figlie, il giorno ventuno novembre, prima dell’operazione chirurgica, istantaneamente ha riacquistato la salute. Deo gratias. Anche a te, Padre, rendo devotamente e massimamente grazie a nome suo, di suo marito e di tutta la famiglia».

L’indomani Battisti, a San Giovanni Rotondo, si recò, la sera, come di consueto da Padre Pio. Gli consegnò la nuova lettera di Wojtyla .

Tutto finì qui. Ma per Wojtyla la storia dei suoi rapporti con Padre Pio continua. Con Padre Pio morto, questa volta. In data tre maggio 1972, da Czestochowa, la Conferenza Episcopale Polacca indirizzò una petizione al Santo Padre, chiedendo che venisse introdotta la causa di beatificazione e canonizzazione di Padre Pio. Quarantacinque i vescovi firmatari. Al primo posto, il cardinale Wyszynski, primate di Polonia. Al secondo il cardinale Carol Wojtyla, metropolita di Cracovia.

Infine, nel 1974, Karol Wojtyla tornò sul Gargano. Questa volta l’occasione gli fu data dal Sinodo dei Vescovi, che si teneva a Roma sul tema “L’Evangelizzazione nel mondo contemporaneo”. Era il quarto Sinodo da quando era stato istituito. La Polonia era rappresentata da tre Vescovi, nominati dalla Conferenza dell’Episcopato polacco, il cardinale Wyszynski, il cardinale Wojtyla e il vescovo monsignor Ablewicz. Ne faceva parte per nomina papale anche monsignor Andrzej Deskur.

Fu monsignor Deskur che ancora una volta fece da tramite tra Wojtyla e Padre Pio. Nel senso che organizzò il ritorno di Karol Wojtyla sul Gargano dopo 27 anni dalla sua prima visita. Allora Padre Pio era vivo, e in piena efficienza per lanciare la sua Opera. Ora era morto e la sua tomba era un polo di attrazione per migliaia di fedeli.

Certo era stato Wojtyla a pregare il suo vecchio connazionale di occuparsi di questo nuovo viaggio. Monsignor Deskur prese contatto con un assiduo di San Giovanni Rotondo, l’ingegner Pietro Gasparri, nipote del celebre cardinale, funzionario del Vaticano da lunghi anni. L’ingegner Gasparri si occupava anche della Casa Sollievo della Sofferenza in qualità di segretario generale, da quando era passato per testamento di Padre Pio alla Santa Sede.

In breve il viaggio fu organizzato. E la sera del primo novembre in Casa Sollievo si attese l’arrivo del cardinale Wojtyla. I più informati sapevano che egli aveva tenuto in quei giorni un’importante relazione al Sinodo sui problemi teologici dell’Evangelizzazione. Il tema gli era stato affidato direttamente dal Papa, Paolo VI.

Importante la relazione, e di grande interesse la discussione che ne era seguita. Ben 76 vescovi avevano preso la parola, altri 33 presentarono le loro opinioni per iscritto. Il tema investiva un pò tutti i continenti: dall’America latina che aveva introdotto nella Chiesa il problema della liberazione dell’uomo. All’Africa, col dilemma delle culture e delle Chiese locali. All’Europa, infine, e all’America del nord con “il problema della riproposizione del cristianesimo in un mondo che si sta secolarizzando”. Anche queste notizie le ricaviamo dal libro di Malinski, già citato.

Era quindi un Wojtyla agguerrito da una esperienza formidabile fatta in tutti i Paesi del mondo, che veniva questa volta a San Giovanni Rotondo. Il sacerdote appe­na ordinato che si era confessato da Padre Pio nel lonta­no 1947, aveva percorso una lunga fruttuosa strada, sempre in ascesa, di ministero e di dottrina. Il quadro dell’evangelizzazione del mondo sulla base dei tantissimi problemi contemporanei gli era ben presente nella mente. Era una necessità impellente, balzata fuori con maggiore decisione, organicamente ormai, da quella riunione dei vescovi.

Forse anche per questo Wojtyla veniva sulla tomba di Padre Pio. Nessuno di noi lo sa. Ma certo egli voleva pregare in quel santuario da cui era partito per la sua missione nel mondo. Questa volta consapevole che doveva ad ogni costo andare avanti, promuovere le sue idee completamente.

Quella sera del primo novembre 1974, soltanto due o tre persone di coloro che attendevano Wojtyla sapevano l’importanza che egli aveva avuto qualche giorno prima al Sinodo. Per il resto colpiva l’immaginazione dei pre­senti la nazionalità del cardinale che stava per arrivare. Quella Polonia che era sotto il giogo comunista. Ma che tuttavia dava prova di una fede incrollabile.

Wojtyla arrivò. Non solo. Ma con altri sette sacerdoti polacchi, tra cui anche monsignor Deskur e monsignor Edoardo Lubowiechki, visitatore apostolico dei polacchi in Germania. A riceverli, c’era il sindaco di San Giovanni Rotondo con un assessore, il maresciallo dei Carabinieri, il superiore del convento padre Pietro e un paio di dirigenti della Casa. L’incontro ebbe luogo in una saletta al piano rialzato dell’ospedale. Fu affabile e familiare. Uno scambio di saluti, senza nessuna pretesa di ufficialità.

Wojtyla e il suo seguito andarono a pernottare in un vicino albergo. L’indomani mattina, 2 novembre, concelebrarono nella cripta di Padre Pio. Al Vangelo il cardinale Wojtyla tenne un breve discorso. Eccolo:

Ci troviamo all’altare di Dio per celebrare il mistero della morte e della resurrezione. Lo celebriamo ogni giorno e ogni ora, ma ha uno speciale significato quello di oggi, quando facciamo la commemorazione di ogni defunto.

Ieri abbiamo fatto la commemorazione di ogni santo, e oggi di ogni defunto, perché i defunti devono essere, devono diventare santi, partecipando alla morte e alla resurrezione di Gesù Cristo, nostro Signore.

È specialmente impressionante, è specialmente profondo, il fatto che celebriamo questa Eucarestia vicino alla tomba di Padre Pio, che predicava la passione e la morte e la resurrezione di Gesù Cristo, nostro Signore, per mezzo di tutta la sua vita.

Speriamo che durante il santo sacrificio, durante la nostra comune preghiera, anche lui pregherà con noi. Amen”.

In esso ancora non svelava la sua venuta a San Giovanni Rotondo tanti anni prima. Fu monsignor Deskur a rivelarlo poco dopo, nella seconda Messa, concelebrata questa volta nella chiesa grande del convento. Ma prima Wojtyla, rivestito ancora dei paramenti sacri, si era inginocchiato sulla tomba di Padre Pio. Ed ecco cosa disse monsignor Deskur:

”Ci sono delle ricorrenze religiose, nella Chiesa cattolica, che hanno un carattere universale, e sono proprio quelle del primo e del due novembre: la festa dedicata ai santi e la festa dedicata a tutti i defunti, perché proprio a loro tutti gli uomini di ogni nazione che c’è in cielo si sentono veramente vicini nel loro destino. Ma non soltanto in questo triste destino di uomini soggetti alla malattia e alla morte, ma in quello gioioso, pieno di letizia e di speranza: destino di essere chiamati tutti ad essere fratelli di Cristo e figli del nostro Padre che è in cielo; chiamati alla santità, al paradiso, alla glorificazione, proprio in seguito a tutte le difficoltà che incontriamo in questa vita mortale.

E questa verità, cioè la grande comunità di tutti gli uomini, di tutti i cristiani del mondo, ha trovato pochi giorni fa una speciale espressione esterna (e voi ne avete sentito parlare): era il Sinodo dei vescovi. Tutti i vescovi delle più grandi diocesi del mondo si sono riuniti. È arrivato a questo Sinodo, chiamato appositamente dal Santo Padre per affidargli un incarico speciale, anche il cardinale di Cracovia, dalla lontana Polonia, così vicina all’Italia per cultura, per affetto, per la storia.

E così siamo riuniti tutti: non c’è più distinzione di lingua o di frontiera intorno all’altare, a questo altare di San Giovanni Rotondo che ha un significato speciale. Sua Eminenza il cardinale di Cracovia è venuto qui a commemorare la sua ordinazione – lontana – di sacerdozio. Da giovane sacerdote venne qui a vedere Padre Pio; e oggi è ritornato. Perché Padre Pio ha voluto nella sua vita, come san Francesco, rinnovare con le sue stimmate i misteri della salvezza del mondo.

Preghiamo insieme il Padre celeste per quelli che sono già passati, e per noi.

Padre Pio ce lo ricorda con la sua vita piena di offerta, di sacrificio, d’immolazione di se stesso, di carità di cui questa bella fondazione, questo ospedale, la Casa Sollievo della Sofferenza, è la testimonianza, il monumento.

Pensate al vostro prossimo, e sarete vicini a Cristo. State vicino all’altare non dimenticando con che corpo e con che sangue ( di Dio!) siete redenti; e il Padre vostro che è in cielo vi terrà sempre vicini al suo cuore.

Adesso siamo qui, affidati alla preghiera di Sua Eminenza il cardinale, dei sacerdoti che stanno insieme a lui intorno all’altare, di tutti voi, in una sola preghiera comune al Padre celeste, per la salvezza di tutti, perché nessuno si perda, ma tutti ci ritroviamo nella gloria del Padre. Amen”.

Dopo le due Messe, il cardinale e il suo seguito visitarono i luoghi del convento in cui Padre Pio era vissuto. A sera si recarono a Monte Sant’Angelo e concelebrarono la terza Messa del giorno dei defunti nella grotta di San Michele.

Ed eccoci al tre novembre mattina. Questa volta la Messa fu celebrata nella chiesetta antica del convento. Al Vangelo il cardinale tenne l’omelia e si svelò in pieno, con parole circostanziate, sulla visita che aveva compiuto 27 anni prima a Padre Pio. Ecco ciò che disse:

 “Noi sacerdoti polacchi e vescovi, tutti della diocesi di Cracovia, abbiamo ottenuto la facoltà di concelebrare la Messa di domenica in questa vecchia chiesa. Questa vecchia chiesa è rimasta per me il luogo di incontro con il servo di Dio Padre Pio. E dopo quasi ventisette anni ho ancora nei miei occhi la sua persona, la sua presenza, le sue parole, la santa Messa celebrata da lui all’altare laterale, e poi questo confessionale, dove andava a confessare le donne; la sacrestia, l’altare centrale dove adesso stiamo noi, e dove, dopo la sua Messa, lui ha distribuito la santa comunione. E tutto questo ci fa riflettere, e anche meglio comprendere la frase che è quasi pensiero centrale della liturgia odierna: gloria di Dio è l’uomo vivente.

Dopo quasi ventisette anni, io vedo come questa verità – gloria di Dio è l’uomo vivente – si è ‘incarnata in un uomo.

Penso poi, dopo aver passato un mese ai lavori del Sinodo dei vescovi (tema del Sinodo era l’evangelizzazione del mondo d’oggi), penso che questa verità è anche una verità fondamentale della evangelizzazione del mondo di ieri e d’oggi. E per che cosa dobbiamo pregare durante il santo sacrificio che concelebriamo, e al quale voi partecipate, carissimi fratelli e sorelle, in questa vecchia chiesa ancora piena della presenza di Padre Pio? Dobbiamo pregare perché l’evangelizzazione si faccia per noi tutti, per ognuno di noi. E, perché si faccia, è necessario che ciascuno di noi sia quell’uomo vivente che è la gloria di Dio. Amen”. 

Da San Giovanni Rotondo la piccola comitiva di polacchi ripartì quella stessa mattina. Ma prima c’era stato un piccolo incidente che aveva infortunato Wojtyla in persona. Nell’uscire dall’albergo egli aveva messo inavvertitamente il piede nel vuoto di un canaletto costeggiante la strada. Vi era caduto dentro facendosi male a una caviglia. Una cosa fortunatamente leggera. Ma che richiese un intervento di pronto soccorso, con relative lastre fotografiche e cure immediate.  Qualche giorno dopo, il 16 novembre, il Sinodo che aveva dato l’occasione a Kàrol Wojtyla di ritornare a San Giovanni Rotondo si chiuse. Ma non terminò lì, in quanto fu costituito un consiglio permanente del segretariato dello stesso Sinodo, e Karol Wojtyla ne faceva parte. Impegno fortissimo per la realizzazione di quanto dal Sinodo era emerso.

Per più anni non si seppe nulla di Karol Wojtyla. Poi il 16 ottobre 1978, la sera dell’elezione del Pontefice, scoppiò quel nome; Wojtyla, Karol Wojtyla. Un nome che ai più non diceva nulla. Ma a quelli che l’avevano conosciuto a San Giovanni Rotondo a poco a poco si delineò in tutta la sua figura. L’entusiasmo fu grande. Si sapeva ormai che era un Papa tutto di Padre Pio.

Il seguito è consacrato nelle parole pronunziate ripetutamente da Papa Wojtyla nei numerosi incontri con i devoti di Padre Pio in udienze private e pubbliche. Lo vedremo in un capitolo a parte. È una storia, questa del rapporto tra Padre Pio e Wojtyla, di una lunga amicizia, tenuta nel segreto del cuore da parte di Karol Wojtyla. E chissà che egli, proprio a San Giovanni Rotondo, giusto quaranta anni fa, non abbia avuto come un presentimento di tutto quello che sarebbe stata la sua vita posteriore, di sacerdote e di uomo. E, chissà anche, che Padre Pio, trovandosi davanti al confessionale, e poi vicino alla Messa, quel giovane sacerdote, provato dalla guerra ma pieno di ardore di apostolato, non abbia intuito ciò che era in lui: ciò che Dio gli destinava. Mi commuove pensare a questa strada della Provvidenza che Karol Wojtyla ha percorso dalla sua prima venuta in Italia a oggi. A questo filo, per lunghi anni impercettibile, che lo ha unito all’umile, semplice frate cappuccino”.

Gherardo Leone

SULLA TOMBA DI PADRE PIO UN MOMENTO SUGGESTIVO LUNGAMENTE ATTESO (pag- 68)

“Il Papa sulla tomba di Padre Pio. Un momento di grande commozione. Il Vicario di Cristo sulla tomba di un semplice religioso che per tutta la sua vita ha avuto un unico ideale: modellarsi totalmente su Cristo, prodigandosi per il bene dei fratelli fino all’ultimo respiro. È un fatto unico nella storia che un Papa abbia reso omaggio alla tomba di un uomo non ancora santificato, di cui è in corso il processo di beatificazione. Un attestato clamoroso di ammirazione per le virtù umane e sacerdotali di un figlio fedele della Chiesa. Sempre obbediente. Anche quando gli è costato sacrificio.

 

[1] Nota di Aurelio Valente

Ho evidenziato la chiusura di questa “storia del rapporto tra Padre Pio e Wojtyla, di una lunga amicizia, tenuta nel segreto del cuore di Karola Wojtyla”, perché mi ha molto commosso come ha detto l’autore Gherardo Leone a proposito di “questo filo, per lunghi anni impercettibile, che ha unito Karol Wojtyla all’umile, semplice frate cappuccino”.

È questo l’insegnamento che Padre Pio ha inculcato in tutti i suoi figli. Inginocchiato dinanzi alla sua tomba, il Papa ha certo ricordato l’unico incontro avuto con lui. Il suo viso pensoso tradiva l’interna commozione.

L’umanità e la santità di un frate (pag. 37)

 

Storia di un’anima e di un corpo squarciati dalla sofferenza

A leggerla attentamente la biografia di Padre Pio è un susseguirsi di affanni e malattie, che colpivano ora il corpo ora lo spirito, ma che spesso andavano di pari passo. Come se le sofferenze materiali fossero la manifestazione tangibile del travaglio di un animo inquieto. Sembra quasi premonitrice la frase che scrisse egli stesso sull’immaginetta ricordo, il 10 agosto 1910, quando fu ordinato sacerdote: “Gesù, mio sospiro e mia vita, oggi che trepidante ti elevo in un mistero di amore, con te io sia per il mondo via, verità, vita e per te sacerdote santo, vittima perfetta”.

Andando a ritroso nel tempo, la sua vita si apre all’insegna delle difficoltà, dal momento che il suo paese natale, Pietrelcina, era senza acqua, luce, strade, medico e scuola. Per quanto piccoli possidenti, i genitori non poterono offrirgli che una vita umile; ma la loro viva religiosità e paziente sopportazione, costituirono, nei momenti più terribili e nelle prove più laceranti, una fonte di fede e di luce.

Sin da piccolo mostrò i segni precoci della sua vocazione, se si pensa che a 5 anni ebbe le prime apparizioni e cresceva in lui l’amore per la Madonna della Libera, patrona del Sannio. Quando nel 1896 il padre lo portò al santuario di San Pellegrino ad Altavilla Irpina, fu colpito dall’umanità dolorante che riempiva il tempio e da quel momento la sua vita cambiò. Al tumulto religioso si affiancò una terribile bronchite, con febbri altissime, che probabilmente aveva contratto nel luogo umido in cui si recava per pregare.

Quando, nel 1903, entrò nel convento di Morcone, piccolo e austero, luogo dell’anima sola, della forza sublime, della terribilità del mistero, l’incessante battaglia era cominciata. Francesco, da allora, novizio col nome di Padre Pio, sognava le lance e gli scudi, una grande croce, sputi, frustate e insulti. I digiuni, le mortificazioni, le flagellazioni, però, minarono la sua fibra. Avvertiva, spesso, dolori atroci al petto ed era colto da febbri violente. Pallido ed esile, aveva gli occhi ardenti di quel “fuoco che lo logorava notte e giorno”.  Fu trasferito a Sant’Elia a Pianisi.

I dolori non cessavano, anzi si aggiungevano ad essi paurose e demoniache visioni, che assediavano la sua giovane mente.

Tra il 1906 e il 1907 fu prima trasferito a San Marco la Carola, poi a Serracapriola, a Vico del Gargano e a Montefusco. In quei luoghi condusse i suoi studi di filosofia e teologia, ma le sue condizioni di salute peggiorarono tanto che frequenti furono i ritorni a Pietrelcina.

Nel 1908, in concomitanza con gli ordini ricevuti, sembrò essergli tornata anche la salute e il buonumore, ma col ritorno a Montefusco la situazione precipitò tra febbri, dolori al torace e svenimenti. Tornò ammalato a Pietrelcina, dove rimase dal 1909 al 1916. Cresceva in lui il disagio di non potersi liberare da un male ostinato. Era troppo malato, stanco, povero, per potersi procurare le medicine care e introvabili. Il padre provinciale gliele procurava come poteva.

In prossimità dell’ordinazione, tanto attesa, il suo pensiero era rivolto alla morte, l’unica che potesse liberarlo dai lacci del corpo.

Il 10 agosto fu ordinato sacerdote, ma ai fortissimi dolori del capo si aggiunsero insoliti dolori alle mani e ai piedi. I suoi mali avevano sempre meno una spiegazione scientifica. Di notte si facevano frequenti le apparizioni diaboliche, fino al settembre 1911, quando comparvero strani rossori sulle mani e sotto i piedi. I dolori non gli permettevano nemmeno di celebrare la messa.

Un anno dopo ancora scriveva: “Il cuore, le mani e i piedi sembrano trapassati da una spada, tanto è il dolore che sento”. Lo stesso Padre Pio non capiva cosa significasse tutto questo, questa sua malattia irreale che lo sospendeva e lo teneva prigioniero.

Il 1913 fu un anno di intensi colloqui con Dio, durante i quali l’anima si raccoglieva in una pace e tranquillità difficili da esprimere e i sensi restavano sospesi.

Il 6 novembre 1915 fu incorporato nella X Compagnia di Sanità militare di stanza a Napoli. Anche qui, ammalatosi gravemente ai polmoni, restò poco, passando da un ospedale militare all’altro, tra ambasce e privazioni grandissime.

Il 21 luglio 1916 giunse nel convento di San Giovanni Rotondo. Il paese poverissimo, così come il convento, piacquero a Padre Pio. Qui, sentendosi meglio, si tuffò in una frenetica vita spirituale, contravvenendo ai consigli dei medici e così il suo corpo e la sua anima, fiaccati da un nuovo malanno, sembravano ormai cedere. Vinse anche questa battaglia e, il 20 settembre 1918, Dio impresse il suo sigillo con le stimmate. Lui parlava ai suoi confessori del suo tormento, del suo amore e della sua morte.

Negli anni che seguirono crescevano attorno a lui curiosità, antipatia e maldicenze, che mai erano mancati nei momenti cruciali della sua vita. Ma i suoi occhi rimasero stupiti ed assorti a scoprire e spiare dentro di sé i mille aspetti incomprensibili e multiformi di Dio. Anche quando nel 1923 furono decretati

una serie di divieti a suo carico e furono prese misure severe e umilianti contro di lui, restò, ubbidiente, meravigliato. Di lui scrisse Antonio Baldini, in un articolo per il <<Corriere della sera>>: “[ … ] La figura del povero Padre Pio mi parve in una luce che non era più quella del miracolo, ma già un pò quella del martirio”. Nel 1931 fu riabilitato e il 16 luglio 1933, visibilmente commosso, celebrò la messa, dopo dieci anni. Crebbe la sua fama, ma lui non smise di combattere, non contro la società, ma contro i peccati di ogni uomo gli si avvicinasse.

Alla fine degli anni cinquanta, tra successi ed ombre, fu colto da nuovi malesseri. Nel maggio del 1967 passò l’ottantesimo compleanno nell’intimità di pochi amici, sempre più malato. Il 23 settembre 1968 morì, dopo attacchi di asma terribili, sereno, con la corona del rosario in mano.

Le piaghe, anacronistica e ultima manifestazione del suo calvario, rimarginarono. “Non cerchiamo di capire, perché il destino di certi santi da vivi, è tra i misteri più oscuri della Chiesa (Ignazio Silone, “Avventura di un povero cristiano”).

Un Santo, un Uomo (pag. 40)

Mentre scrivo, si rafforza in me una strana sensazione, che deriva dalla consapevolezza di parlare di un santo nostro contemporaneo. Voglio dire che, forse, sarebbe più facile parlare di un grande uomo di fede del passato, perché sicuramente intorno a lui si muoverebbero le fila di una impeccabile ed anche rassicurante agiografia, pronta ad edulcorare e smussare quelle asprezze ed incongruenze insite nel personaggio. Parlare, invece, di chi, in qualche modo, si è avuta la fortuna di conoscere è più complesso, perché da un lato scocca la scintilla dell’orgoglio che deriva dall’appartenere alla generazione di chi può dire “io l’ho conosciuto, l’ho sentito parlare, l’ho visto pregare”, dall’altro s’insinua il dolore di aver assistito ad un turbinio di calunnie, di scoop giornalistici e di accuse che non solo hanno poco a che fare col sacro, ma tendono a depauperare l’immagine di un grande uomo di fede. Certo è che i risultati più fulgidi sono passati per sentieri accidentati e che le difficoltà misurano il polso della santità, oltre al fatto che, nell’immaginario dei proseliti, le persecuzioni rendono ancora più amabile la vittima. Ma sarebbe indubbiamente più confortante sapere che nel destino di un uomo votato alla preghiera ci fossero solo meditazione e ascesi.

Anche San Francesco, un uomo mite che amava la natura tutta, trovò proprio tra gli uomini della Chiesa i suoi massimi detrattori. Ma a quei tempi la Chiesa era rigorosa e così poco incline all’indulgenza, perché doveva ancora rinsaldare il suo potere e definire il suo destino. Forse anche per queste somiglianze biografiche, oltre che per un certo modo di vivere la comunione con Dio, quella di Padre Pio è stata considerata da alcuni una santità arcaica. Ma per molti è anzitutto un dono che Dio ha fatto alla Chiesa e all’umanità, un dono nel quale è fusa l’antica essenza della cristianità e la nuova traduzione del messaggio di Cristo. La santità dalle forti tinte soprannaturali diventa una risposta ai bisogni del nostro tempo chiuso ad ogni trascendenza. Con la sua preghiera e il disprezzo per tutte le cose del mondo, “fino a preferire la povertà alle ricchezze, l’umiliazione alla gloria, il dolore al piacere” Padre Pio è entrato di diritto a far parte di quella categoria di mistici dell’espiazione che hanno preso silenziosamente su di sé il peccato e le sofferenze del mondo. “Per l’anima infiammata di divina carità, il sovvenire alle necessità del prossimo è una febbre che la va lentamente consumando”, amava dire.

Voleva essere solo “un frate che prega e consumò la sua vita nel donare pax et bonum. È per questo che il mondo lo ha sempre osannato, perché ha intuito che non sarà né la tecnica con le sue risorse, né la scienza con le sue promesse, a salvarci, ma solo l’amore e la santità. La santità di un uomo come Padre Pio appunto, severo nelle cose di fede e di morale, carismatico, ma soprattutto uomo semplice, che parlava alla gente di cose semplici, come l’amore per Dio e la preghiera: “Nell’orazione ti metterai alla presenza di Dio per due principali ragioni: per rendergli l’onore e l’ossequio che gli dobbiamo; per parlargli e sentire la sua voce per mezzo delle sue ispirazioni e illuminazioni interne”

Cosi si è congedato da noi L’ULTIMA MESSA (pag. 56)

Padre Pio si presentò sull’altare portato in carrozzella. Aveva avuto l’autorizzazione anche a celebrare seduto . Ogni parola, ogni gesto, ogni intonazione dei cantigli costavano enormi sforzi. Alla fine della messa gli applausie le grida”viva Padre Pio” avevano rotto il silenzio ed erano suonato come un commiato. Il sacerdote si alzò per lasciare l’altare, ma vacillò,stava addirittura per cadere, se non l’avessero prontamente soccorso e portato verso la sacrestia sulla sedia  a rotelle. Mentre usciva dalla Chiesa rivolse un ultimo sguardo, con gli occhi pieni di pianto, ai suoi figli, sbigottiti e sconvolti. Per tutti, quella è stata una esperienza irripetibile e indimenticabile, a prescindere dal fatto singolare che Padre Pio, in quella messa, non avesse più le stimmate.

La notizia qualche anno dopo, in seguito ad uno scoop giornalistico, è diventata di dominio pubblico e, alcuni anni fa, si è venuti a conoscenza anche del fatto che, quel famoso giorno, sul palmo della mano sinistra fosse visibile ancora l’ultima piaga, che si sarebbe rimarginata al momento della morte. Non v’è dubbio che questi fatti e i documenti che li accertano provano la santità di Padre Pio e testimoniano come la sua missione terrena si chiudesse sull’altare quella domenica mattina del settembre del 1968, ma è un peccato che quel 23 settembre sia balzato agli onori della cronaca e debba essere ricordato più per il suo valore documentaristico che per essere stato l’atto finale di una vita irta di difficoltà, vissuta in pienezza.

Il Frate taumaturgo (pag. 57)

Aveva 81 anni quando è morto e ai suoi funerali c’erano persone giunte da ogni parte d’Italia, non solo cattolici, ma anche laici e persino agnostici. Dalla sua scomparsa sono passati più di trent’anni, anni densi di avvenimenti politici, sociali, che hanno sconvolto il nostro Paese, l’Europa, il mondo intero, eppure la tomba di Padre Pio e i luoghi dove egli è vissuto sono meta quotidiana di folle di pellegrini, che aumentano sempre più. Cosa susciti tanto interesse resta un mistero, che via via è interpretato ora come bisogno di una figura carismatica in tempi di confusione, ora come rinata spiritualità che beffa il cinismo dilagante. Certo è che la vicenda umana, ma ancora di più l’aspetto mistico e taumaturgico, hanno fatto di lui una testimonianza unica nella storia religiosa del nostro secolo.

L’esistenza terrena di Padre Pio è stata un continuo susseguirsi di avvenimenti drammatici, ma anche di situazioni contorte, che hanno sedotto i biografi, perché offrivano loro una straordinaria possibilità di raccontare vicende di dolori, persecuzioni, condanne. Ma dare ampio spazio soprattutto o solo alle vicende rocambolesche che hanno travagliato l’esistenza terrena del religioso stigmatizzato sarebbe riduttivo. Egli era un uomo che viveva a contatto con dimensioni a noi sconosciute e, come certi santi del Medio Evo, operò svariati miracoli, grazie ai “carismi” e ai “doni straordinari” che gli erano stati regalati dal cielo.

E noi, con occhio profano e curioso, cerchiamo di accostare il mistero e gettare uno sguardo “nell’incredibile”, che sfugge al controllo razionale. Quell’incredibile segno e sostegno della fede è un dono di Dio, ma anche una forza motrice che impegna l’intelligenza e sollecita la volontà.

La verità rivelata, la prova esteriore della Rivelazione, il miracolo, cioè, è “segno certissimo della divina Rivelazione e motivo di credibilità”, spiega la Chiesa. I miracoli sono, quindi, indispensabili alla fede, perché, per loro tramite, l’uomo riesce a credere e a rivolgere l’attenzione verso l’Assoluto, ma sono fondamentali anche per capire la grossa portata spirituale di Padre Pio. Il fatto che Dio avesse posto il suo sguardo su di lui, lo avesse scelto per portare agli uomini i propri messaggi, significa che Gli era gradito, che era speciale, eletto. Più grandi e frequenti sono stati i prodigi che Dio ha compiuto attraverso di lui, maggiore appare la sua santità, perché grande è stata la “confidenza” con Dio.

Più che di miracoli, in senso stretto, parlerei, a proposito di Padre Pio, di segni del soprannaturale, documentazione di una presenza continua del divino e delle entità che popolano il mondo invisibile.

Certo, il dato più tangibile, il primo miracolo, è rappresentato dalle stigmate, ritenute dalla tradizione cristiana e dalla pietà popolare, prima ancora che dalla Chiesa, segni indiscutibili dell’intervento divino.

Molti prima di lui i casi e molte le riserve del mondo ecclesiastico, che guarda a questo argomento con circospezione, ma anche forti i dubbi del mondo scientifico, secondo il quale le piaghe possono essere frutto di isterismo o di autosuggestione, in una parola “ideoplasi”.

Eppure le testimonianze dei confratelli, ma ancor di più del padre superiore provinciale, ruppero, in quei giorni di eclatanti manifestazioni il rigoroso riserbo ed il prudente silenzio che la Chiesa adotta nei confronti di fatti così scomodi. Il padre superiore generale poi affermò “Non sono macchie o impronte, ma vere piaghe perforanti le mani ed i piedi. Quella del costato è un vero squarcio, che dà continuamente sangue o sanguigno umore”.

Polemiche, conversioni, primi miracoli attribuiti al frate, profonda ammirazione nei suoi confronti, carosello di perizie mediche: fu quello che seguì. E così “miracolo” fu anche la capacità che Padre Pio ebbe di superare i cicloni che lo investirono; accuse dettate da una esasperata cultura positivi­stica, esperimenti, contraddizioni, dichiarazioni sui limiti della scienza e suoi misteri, osannazione di quelle “luci della fede” capaci di confutare qualsiasi dotta teoria, ma soprattutto, valutazioni e giudizi negativi e sulla natura delle stigmate e sulla figura stessa del frate. Per cinquant’anni, quelle piaghe che destarono tanto interesse e provocarono tanti dolori al cappuccino, restarono vive, sanguinanti, inalterate; non guarirono, non cicatrizzarono, non degenerarono mai. Mistero indecifrabile, in contrasto con tutte le leggi della natura, sparirono, senza lasciare alcuna traccia, alcuna cicatrice, alla sua morte.

Con l’impressione delle stigmate, Padre Pio era un uomo segnato da Dio. Una creatura di questo mondo sulla quale era stato impresso un marchio divino, con un significato ben preciso: indicare che quella persona era stata scelta per partecipare al mistero della Redenzione di Cristo attraverso la sofferenza.

Se questi fenomeni si verificarono solo al culmine di una rara esperienza mistica, quando ormai Padre Pio aveva un altissimo grado di consuetudine con il “divino”, attraverso la preghiera e la contemplazione, un altro segnale dei suoi frequenti contatti con l’aldilà, quasi a testimoniare che il Paradiso era lì, vicino a lui, era il profumo soavissimo che emanava la sua persona. Tale fenomeno, senza giustificazione plausibile, cominciava al momento della consacrazione, quando il Padre toglieva i mezzi guanti per prendere tra le mani l’ostia e tramutarla nel corpo di Cristo e terminava quando si rimetteva i mezzi guanti. Quanti “sentivano” quell’odore soave e penetrante dicevano che ad emetterlo erano proprio le piaghe, quelle piaghe piene di sangue raggrumato.

Il profumo, spesso spiegato come fenomeno di suggestione, ottenne, invece, una difesa quanto mai appassionata da parte del dottor Romanelli, uno dei primi medici incaricati di studiare le stigmate di Padre Pio il quale affermava:”[ … ] Nel giugno del 1919 quando per la prima volta mi recai a San Giovanni Rotondo, appena fui presentato al Padre notai che dal suo corpo proveniva un certo odore[ … ] Per altri due giorni non notai più alcun odore, pur stando nella cella e sempre in compagnia di Padre Pio. Prima di ripartire, d’un tratto sentii lo stesso odore del primo giorno. Non era suggestione la mia. Prima perché nessuno mi aveva parlato di tale fenomeno e poi perché, se fossi stato suggestionato, avrei dovuto sentire quell’odore sempre e non con un intervallo tanto lungo [ … ] Ho voluto fare questa dichiarazione perché è diffusa l’abitudine di attribuire a suggestione quei fenomeni che non si spiegano o non si sanno spiegare” . Questo fenomeno nella sua semplicità e nell’alta eloquenza con cui si offriva allo studio di esimi professionisti, era contrario ad ogni legge naturale e scientifica, sorpassava ogni logica discussione e non permetteva altro che constatarne la realtà. Col profumo Padre Pio faceva sentire la sua presenza anche quando era molto lontano dai suoi fedeli nei pericoli e nelle difficoltà, ma anche nelle invocazioni di aiuto o nelle conversazioni nelle quali si parlava di lui e della sua santità. Il profumo serviva per richiamare l’attenzione della gente, per farla riflettere sull’esistenza di possibili realtà misteriose.  (pag. 60)

Miracoli ufficiosi (pag. 66)

Alcune volte quello che colpisce la fantasia non è nemmeno l’eccezionalità dei fatti narrati, quanto le suggestioni che alcuni di questi evocano. Così, anch’io, mentre leggevo di quest’uomo colto dalla grazia di Dio, sono stato attratto da un trafiletto che chiosava una foto molto intensa degli anni ’60. Non so dire se mi abbia colpito più l’immagine, una di quelle in bianco e nero, con un bambino dai grandi occhi scuri in primo piano tra le braccia della mamma, semplice, con scomposte ciocche ricce che fuoriuscivano dal fazzoletto legato stretto in testa e dal viso teso in una smorfia di commozione, o quanto diceva la didascalia. Certo è che quelle parole mi sono rimaste impresse: “Un gruppo di persone crede di vedere l’immagine di Padre Pio, ormai morto, riflessa sui vetri della finestra della sua cella. Sono poche parole che mi tornano alla mente. Un gruppo di persone “crede” di vedere, perché vuole vederlo a tutti i costi, perché ha fede in lui, perché non accetta che sia morto e perché sa che, anche se è un’illusione ottica, Padre Pio non abbandona il suo popolo.

Tra le migliaia di miracoli documentati e giunti a noi, però, quelli che mi fanno più tenerezza sono riferiti a bambini. È difficile accettare in sé la malattia o la morte, tanto più se queste condannano un bambino ad una crudele e drammatica sorte. È, quindi, ancora più bello poter credere che ci possa essere un lieto fine e in nome di questo si diventa più disponibili nei confronti delle circostanze misteriose entro le quali i destini sono mutati. Non si può che gioire e commuoversi quando si legge di un ragazzo, guarito da un male terribile all’occhio destro, per esempio, mentre era in preghiera a San Giovanni Rotondo. Improvvisamente, dopo un forte profumo di fiori e dopo essere svenuto, al risveglio vedeva bene. Così come inspiegabilmente lieta è stata la sorte di una bimba di quattro anni, ormai condannata alla morte dal verdetto dei medici. Una notte, in ospedale, le apparve in sogno Padre Pio e la mattina dopo ogni segno del male era scomparso. I medici non riuscirono a dare una spiegazione scientifica, come in molti altri casi, alla guarigione della piccola, ma pochi giorni dopo la bimba era nel cortile di casa sua a correre con altri bambini. E ancora, un bambino fu guarito da un male incurabile, dopo aver ricevuto per telegramma la benedizione di Padre Pio. “Io non sapevo chi fosse”, raccontò poi il piccolo, “ma pensai subito che doveva essere un uomo molto buono”.

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