NICASSIO FRANCESCO

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NICASSIO FRANCESCO

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Fondatore a Bari del gruppo “Interventi Culturali”, un gruppo di poeti e narratore; pubblicò diversi libri di poesie; facendo appello alla propria esperienza: Aggiornamento professionale per funzionari e amministratori (2 ediz.), nel 1973 fu presidente del Comitato Feste Patronali di Adelfia e, dopo aver allacciati contatti con altri Comitati Feste Patronali, giunse a indire diversi convegni dei Comitati regionali; Fu eletto presidente e cercò in questa veste collegamenti con i Comitati nazionali. Sostenne battaglie difficili nel primo quinquennio da sindaco, venendo poi confermato con maggioranza strepitosa di consensi. Come si diceva nel paese “Non perdeva mai le sue radici: all’alba in campagna, sul trattore, in mattinata al Comune, per fare il Sindaco, la sera tra i libri di poesia”.

Un ricordo di Francesco Nicassio

Nel 1974 conobbi Francesco Nicassio. Io avevo ventisette anni, lui quaranta, per essere natio nel 1934.  Avevamo fondato a Bari il gruppo Interventi Culturali, un gruppo di poeti e narratori e lui si avvicinò per condividere con noi un libro di versi pubblicato appena un anno prima, Pellicano bruno.

Il libro era dedicato ai pellicani sterminati in Luisiana dal DDT ed i versi apparivano sentenziosi ed espressionisti, descrivevano giovani che partivano e donne che spiavano dalle finestre di paesi in abbandono, descrivevano piccolo- borghesi che abitavano in maniera grigia cittadine di provincia e contadini che non avevano ferie, non sapevano le vacanze. Era un libro disperato per l’esistenza che è fatta di contraddizioni, di infelicità sociali ed esistenziali, un gioco inutile e crudele.

Ma Nicassio aveva già pubblicato tre libri di versi che in pochi conoscevano, Vilucchio rampicante, con Gastaldi, nel 1958, Facce di bronzo, con Rebellato nel 1970 e Sofisticazione e liberazione, Bari, 1971.

Francesco mi appariva allora un uomo già maturo, tuttavia ancora capace e desideroso di dividere con noi più giovani gli ultimi fuochi del ’68. Eravamo fiduciosi nella capacità di democratizzazione della poesia e della creatività, credevamo che bastasse stimolare la creatività per rendere tutti più liberi e Francesco, con le remore di un uomo che si divideva tra il realismo contadino e la fantasiosità del poeta ci diceva che forse perdevamo tempo, che occorrevano azioni più forti e concrete. Per questo si sottraeva agli incontri con gli studenti e con gli operai che con Daniele Giancane, Francesco Bellino, Alessandro Zaffarano e altri andavamo organizzando a Bari e in provincia. Praticava la poesia come metodo di auto liberazione ma credeva poco nella sua forza rivoluzionaria. Perché la gente non legge, diceva e coloro che dovrebbero, come i contadini, non sanno leggere poesia o letteratura, o non hanno tempo. Sono troppo vessati dalle leggi e dalla rapina dello Stato per pensare a qualcosa di sovrastrutturale come la letteratura. Condivideva insomma le interpretazioni di Leone De Castris e praticava una politica cristiana che aveva molte venature socialiste. C’era nelle sue interpretazioni un guazzabuglio culturale che lo faceva contemporaneamente anarcoide, ribelle e confessionale, marxista e reazionario.

Il gruppo, intanto, si allargava e se non avessero avuto aderito, ne avrebbero condiviso le iniziative da Adelfia Tommaso Di Ciaula, da Valenzano Lino Angiuli e Leonardo Mancino.

Tuttavia, me lo ricordo Francesco, mentre eravamo nel pieno della contestazione dei premi letterari, nella sala convegni dell’Hotel “La Baia” di Palese, tutto preso a distribuire volantini nei quali mettevamo in discussione il valore delle competizioni letterarie, che a nostro dire confondevano la qualità della scrittura con la quantità propria della commercializzazione e del potere editoriale e che confondevano economia politica ed estetica. Io ero sorpreso da quell’uomo affabile e al tempo stesso deciso, che rifiutava di accomodarsi fuori all’invito dei body guard dell’albergo, che invitava Mario Sansone, presidente della giuria, a prendere la parola e a discutere intorno alla validità della manifestazione e all’assenza in Puglia di una società letteraria esterna alla consorteria accademica. Devo dire che Sansone elogiò quell’intervento, spiegò le ragioni del premio ma invitò i giovani del gruppo a organizzare un convegno sul tema della cultura militante. Cosa che poi facemmo sul Gargano, col supporto di un altro grande poeta, Cristanziano Serricchio, scomparso il 1° settembre 2012.

Francesco continuò a vivere da allora in maniera defilata rispetto al gruppo, aveva troppo da fare in campagna, i tendoni chiedevano il suo intervento quotidiano. E di tanto in tanto tornava a scrivere versi. In quella contraddizione che ho detto, tra spinta emotiva e freno della ragione.

Tre anni dopo,1976, venne infatti la raccolta La crescita del paese. Nicassio intuiva in quei versi i mutamenti, il passaggio epocale da una vita a scartamento ridotto al tempo della velocità, rifletteva sul rapporto tra il cittadino e le istituzioni, dava voce a un suo presunto antenato, quello Spurio Cassio che nel primo secolo a.C. combatte le scelte del Senato e si allea con Marco Giunio Bruto contro Giulio Cesare per riconsegnare la libertà a Roma. Un preannuncio di quella che venticinque anni più tardi diventerà una scelta politica e più tardi ancora un libro di pensieri e di racconti.

Quando Francesco decise di sposarsi fummo tutti sorpresi. Per la repentinità e la silenziosità con cui faceva tutto. Del privato di quest’uomo non sapevamo nulla. Viveva in provincia e dalla provincia ogni tanto ci lanciava messaggi di cose che andava costruendo, nel silenzio a cui era abituato, che era il silenzio delle campagne e del lavoro, la vita in famiglia e gli incontri di piazza. Era un gran lavoratore Francesco, abituato al sacrificio, alle ore notturne, al buio della vigna, alla lotta contro la fillossera e contro i disastri sociali. Mi parlò una volta persino di un metodo di lotta alle nubi e ai temporali, condotta con bombe che venivano sparate contro gli ammassi nebulosi.

Ci sorprese quando per sistemare i conti del gruppo che intanto era diventato casa editrice andammo a trovarlo ad Adelfia, nella sua casa di periferia. Viveva allora quasi isolato dal paese, l’ufficio dava sulla campagna e le stanze attigue davano odore di zolfo e di verderame. Era uno strano ufficio, popolato da contadini, pensionati, vecchie signore chiuse negli scialli. Sembrava di vivere una pagina di Cristo si è fermato a Eboli.

I contadini entravano, depositavano un fascicolo di carte e di ricevute e se ne andavano. Erano documentazioni per la denuncia dei redditi e Francesco Nicassio detto Cellino, originario di Montrone, dipendente comunale e coltivatore diretto, figlio di una famiglia di coltivatori, aiutava quei compagni a farsi strada in un labirinto di regole burocratiche, di ruberie autorizzate e di ingordi uffici statali e altrettanto ingordi studi commerciali. Francesco non prendeva un centesimo da quei contadini, quando si trattava di affari complicati arrivava al più a prendere due tremila lire, un caffè, dicevano quei clienti improvvisati. Era sorprendente.  La sua rivoluzione era questa. Non la poesia ma l’azione. L’intervento diretto.

Quest’uomo pieno di contraddittorietà perché anarcoide e tuttavia convinto della necessità dell’organizzazione statuale democratica, irruente e creativo ha fatto sempre il viticoltore, con una licenza liceale alle spalle e un inizio di università nelle mani. Per necessità concrete si è gettato a un punto della sua vita nelle Scienze Tributarie, ha scritto un manuale sul settore per venire in aiuto dei dipendenti e dei segretari comunali, facendo appello alla propria esperienza: Aggiornamento professionale per funzionari e amministratori, edito nel 1982 e reso molto più corposo in una successiva edizione : Aggiornamento professionale per funzionari e amministratori comunali, elementi di diritto costituzionale, elettorale, amministrativo, civile, penale, fiscale e tributario: testo per pubblici concorsi negli enti locali, ( Levante, 1989).

Continuò a sorprendermi quando seppi che era stato nominato nel 1973 presidente del Comitato Feste Patronali di Adelfia. Un po’ lo canzonammo. I Comitati ci sono sempre parsi aggregazioni di pensionati e perditempo. Lui questuava in nome del Comitato per San Trifone e organizzava i più imponenti fuochi d’artificio cui la Puglia abbia mai assistito. Lui amava i fuochi, come amava le luminarie. Era un bambino cresciuto in fretta o un adulto rimasto bambino nel cuore.

Ma guardava lontano, più di quanto lo facessimo noi. Aveva tappezzato il suo ufficio di manifesti della festa, di targhe e riconoscimenti che giravano attorno a una foto che lo ritraeva a fianco a Aldo Moro. Il suo ispiratore politico. All’ingresso aveva sistemato delle foto di gioventù, quando era fuggito a Parigi, per vivere dei giorni esaltanti di quella bohéme cui tutti i giovani aspirano.

Ma a Francesco non bastava il paese. Cominciò ad allacciare contatti con altri Comitati Feste Patronali e giunse a indire un primo e poi un secondo e un terzo convegno dei Comitati regionali. Fu eletto presidente e cercò in questa veste collegamenti con i Comitati nazionali.

Bisognava lottare contro gli abusi della Siae e contro la mentalità che le feste popolari fossero degli sperperi e una difesa dell’arcaicità. Le feste popolari erano il legame tra passato e presente, una difesa della cultura tradizionale. Scrisse per la circostanza un libro secondo il quale nella sola Puglia le feste sviluppano oltre 4.000 giornate lavorative, tra luminanti, fuochisti, ambulanti, bandisti. Mentre un altro libro, Fuochi pirotecnici. L’arte e i segreti-Norme di PS, (Levante, 1999) raccontava la storia dell’arte pirica, le vicende di Trifone Bruno di Adelfia e della sua famiglia, falcidiata da sciagure e da morti dovute a esplosioni nei depositi di calcasse e di zolfo e tuttavia aggrappata all’arte del fuoco come i Malavoglia al loro destino. Ma alla festa popolare Nicassio intendeva dare anche una patina di cultura borghese e si inventò il premio di Poesia e saggistica Città di Adelfia. Premiammo grandi figure, come Bigongiari, Accrocca e Pedullà, lo presiedette Michele Dell’Aquila per qualche tempo. Poi, come accade nella miseria della vita di provincia il premio diventò una faccenda di gestione politica spiccia e andò alla deriva.

Così ci sorprese quando decise di candidarsi. Andava in cattedra politica con una compagine che non avrei mai sospettato potesse essere quella, nella sua riflessione culturale così piena di ribellioni e di spinte anarcoidi e di adesioni al conservatorismo.

Sostenne battaglie difficili nel primo quinquennio da sindaco, aprendo aree mercatali per il commercio, bretelle stradali, ridisegnando l’assetto urbano, sognando l’interramento dei binari che separano Canneto e Montrone, intervenendo nella spinosa questione del centro sociale di Coppola Rossa e poi in difesa dei contadini e dell’uva di Adelfia a cui bisognava cercare mercati internazionali. Si potevano condividere o avversare le sue idee, ma un fatto è certo, erano venate da spirito di miglioramento delle condizioni e della vita di una città.

Andavo a trovarlo frequentemente. Non condividevo la sua posizione politica e tuttavia ammiravo il suo entusiasmo, l’impegno e soprattutto l’onestà. Una onestà che risalta ancora di più in questi anni e in questi mesi in cui la politica ci ha fatto capire che i partiti, gli enti locali, sono dei bauli, dei serbatoi nei quali affondare le mani e rubare senza timori di punizioni.

Una sera mi disse che cominciava a stancarsi, che doveva lottare non solo contro gli avversari politici ma anche contro i suoi stessi compagni, che il suo gabinetto di sindaco era un luogo dove ogni giorno bisognava fare i conti con la miseria del paese, fare elemosine continue e difendersi da aggressioni non solo verbali.

Una fatica, mi disse, una fatica.

Nel ballottaggio delle successive amministrative Francesco vinse di nuovo, con una maggioranza strepitosa di consensi. Me lo ricordo come fosse oggi. Ci eravamo asserragliati nel suo ufficio e parlavamo di letteratura. Lui non scriveva più, o scriveva poco, ma io non avevo perso il vizio e discutevamo di narrativa, del valore sociale della scrittura. Poi il telefono diventò incandescente. Gli exit poll lo davano di nuovo vincente. Il paese fece festa, con corteo e bassa banda. In un moto spontaneo di felicitazione per il vincitore. Lui fu contento per le attestazioni di stima ma sentiva che andava incontro a un vero sacrificio. Ripeto, era l’uomo dei controsensi. Perennemente combattuto tra cuore e ragione, tra la necessità dell’impegno e la voglia di defilarsi. Non era un politico di professione. Restava un contadino e un poeta.

La stessa condizione che ho trovato in Rocco Scotellaro, sindaco e poeta a Tricarico, in Giovanni Pellegrino, narratore salentino che ha ricoperto la carica di Presidente della Provincia, in Rino Vendola, poeta del realismo che fu sindaco di Gravina di Puglia e in Niki Vendola, poeta ermetico e presidente della Regione, che battendo un efficiente economista della politica come Raffaele Fitto, prometteva di voler governare nel nome della poesia. Certo, la poesia fatica a far quadrare i conti, come sa fare meglio la ragioneria, ma il bello della poesia è che sa far sognare.

Sarei portato a dire che occorrerebbe un’alternanza metodica, ma preferirei un matrimonio, tra algebra e poesia, tra ragioneria e creatività. E queste due vie io le trovavo in Francesco Nicassio.

Nel gennaio del 2006, Francesco pubblicò un libro di aforismi, di racconti e di riflessioni sulla politica, sull’esistenza e sull’utopia, Io, Cassio. In un capitolo autobiografico dove riporta le riflessioni sulla propria esperienza di sindaco ribadiva, mutuando dal console romano Collatino, che al centro della sua vita politica c’era un’utopia o un proposito “Governeremo sentito il popolo”. E poi, da poeta, aggiungeva: “Sono partito da un sogno. Uccidere tutte le malattie. Abolire gli ospedali, fabbriche di morte. Tutti i luoghi di soffrimento. Moderare i venti in zefiri. Scopare le nubi dal cielo per offrirlo al mio popolo radioso di luce”.

Ma aveva anche aggiunto, con l’ulteriore utopia di mettere insieme custodi e prigionieri, che voleva uno Stato minimo, senza guardiani e che in una foresta di Nottingham, tra agguati e imboscate, procedeva come Robin Hood, perché lo Stato è una minoranza organizzata che governa una maggioranza disorganizzata.

Nicassio accettava dunque il governo dell’Istituzione pubblica con determinazione ma con preoccupazione, con dubbio sulla capacità della propria azione a rendere più liberi gli uomini che amministrava, con insofferenza verso un sistema politico ridondante, uno Stato che ci chiude in una prigione di oltre 350.000 leggi. Perché sapeva che il potere rende arrogante chi lo gestisce e anche nelle maggiori democrazie il popolo dev’essere sempre vigile e l’amministratore deve sempre prestargli ascolto.

Francesco Nicassio si spense nella sua casa di Montrone il 10 ottobre 2012 stroncato da un tumore.

Raffaele Nigro

FRANCESCO (CELLINO) NICASSIO, il poeta di Adelfia: da contadino a sindaco.

DI DANIELE GIANCANE IL 3 GENNAIO 2022 IN POESIA, POESIA REGIONALE

Francesco Nicassio, scomparso pochi anni fa, è stato uno straordinario personaggio, uno di quelli da ricordare (e a cui le ricognizioni critiche sulla poesia pugliese non danno il giusto spazio).

 

Anzitutto, una persona vera, immediata, sincera. Nacque in una famiglia contadina e fece sino a vent’anni e più il contadino. Poi – siccome amava la lettura – gli venne un’irresistibile voglia di studiare: si prese prima la licenza media, poi il diploma di ragioniere. Intanto aveva cominciato a leggere poesia.

 

Si alzava all’alba per andare in campagna (curava molto l’uva), poi la sera si sprofondava fra i libri di poesia, da Lorca a Masters.

 

Cominciò a scrivere poesie, sino a pubblicare Facce di bronzo (1970). Seguirono Pellicano bruno (1973) e La crescita del paese (1976). Per questo terzo libro – mi disse – Mondadori gli aveva promesso la pubblicazione, ma passa un anno passano due, al terzo anno si stufò e stampò con la Forum di Forlì.

Io, Raffaele Nigro ed altri prendemmo a frequentarlo: ci parlava di falde acquifere e di Baudelaire, ci mostrò le tante recensioni che ebbero i suoi libri, per esempio su ‘Rinascita’ e su ‘Vie Nuove’.

Insieme iniziammo a contestare i premi: al premio nazionale di poesia ‘Palese’ – che aveva un certo peso – si alzò in piedi e disse che i premi sono una truffa, una presa in giro. Fummo lì lì per essere arrestati (Anni dopo ideò lui stesso un premio di poesia, ad Adelfia, ma con l’idea di farne qualcosa di grandemente diverso).

 

Si impiegò al comune di Adelfia. Poi decise: siccome la poesia – affermava – era una via propedeutica all’impegno civile, divenne Presidente delle Pro Loco e poi, addirittura, sindaco di Adelfia. Ma non perdeva mai le sue radici: all’alba in campagna, sul trattore, in mattinata al Comune, per fare il Sindaco, la sera tra i libri di poesia.

 

Un personaggio meraviglioso ed un poeta raffinato, tra i migliori che abbia prodotto la Puglia in questi ultimi cinquant’anni (naturalmente ad Adelfia non c’è nulla che lo ricordi, né una strada a lui intitolata, anzi è ricordato come un sindaco ‘scomodo’).

 

NELLA CASA ALL’AMERICANA

Mio fratello
ha eretto i grattacieli di Manhattan.
Mio fratello
si è picchiato i pollici paralleli
che poggiano sul piano di cemento.

 

A Manhattan ti calpestano
fratello che nella casa all’americana
coi gessetti e la fontana
non abbiamo più visto.

 

Nelle antiche pianure
gremite di morti stagni
sono mummie le mamme
accendono ceri
per i figli
che non vedranno.

 

NOTTE DEI MAGHI

 

Notte dei maghi indaffarati
fischiano galli e banderuole
gli alberi spettinati
carte e cicche
rifugiano nei fossati.

 

Il vento ha vendemmiato le vigne
per la tua prossima morte.
Tutta la notte sull’aia
i tuoi polmoni come due cani
Tutta la notte ossido e cancro.

 

Sul tuo letto di lampi
il prete ti segna
con l’acqua santa.

Bruciano i falò
ai rosari della sera.
Fanno finta di dormire.
Sono rose canine
disposte a scacchiera
le ragazze sospese sul vignale
mutano posto.
A due passi sbuffano i cavalli
le configurazioni nel buio.
Il giorno è finito
fuori la porta
si è fermato
il vento
stupito.

Daniele Giancane

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