VIRGINTINO PIERO

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VIRGINTINO PIERO

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Bari, 12 ottobre 1921 – 2 aprile 1996

Il critico che raccontava il cinema” di casa dal 1953 al 1972 al Festival cinematografico di Venezia come inviato speciale della “Gazzetta del Mezzogiorno”, manager al vertice del “suo” giornale.

Fu lui, nel secondo dopoguerra, a portare il cinema agli onori della Terza pagina della Gazzetta del Mezzogiorno, quando quello americano, di riflusso” dopo l’embargo hollywoodiano, invadeva le nostre sale e quello italiano metteva timidamente i primi passi verso il suo glorioso futuro.
Il debutto giornalistico di Piero Virgintino sul noto quotidiano barese, ci viene raccontato da Mascellaro con dovizia di particolari nei primi capitoli del suo lavoro.
Grande appassionato di cinema, don Pierino – come sarà poi chiamato affettuosamente e con rispetto Virgintino dai suoi colleghi –, aveva iniziato a scrivere sulla rivista CineSport fondata nel ‘26 da Ferdinando Pinto. Vi si scriveva più di sport che di cinema, ma era in quegli anni l’unica che ne parlava, e con molto seguito.
Tutto iniziò con un primo articolo che l’allora direttore della Gazzetta, Luigi de Secly, anch’egli appassionato di cinema, pubblicò il 17 aprile 1947: Questo nostro cinema, e che apparve con la firma del Nostro in maiuscolo, cosa del tutto insolita per un collaboratore esterno, ma che divenne subito il suo copyright. Virgintino vi raccontava il momento critico che attraversava “la nostra” industria cinematografica e auspicava una legge protezionistica contro “l’invadenza straniera”.
Seguì un secondo articolo l’11 dicembre dello stesso anno, e nel 1948, quando nelle sale cinematografiche di Bari uscirono ben cinque pellicole di Frank Capra, la Gazzetta del Mezzogiorno inaugurerà la prima rubrica sul cinema con un suo splendido profilo biografico dedicato al regista statunitense, definito “poeta dello schermo”.
Il libro di Mascellaro, corredato da decine di foto d’epoca, attraversa gli oltre quarant’anni di lavoro di Virgintino, proponendo la selezione delle sue pagine più belle dedicate alla “settima arte”, come definirà il cinema il gioiese Ricciotto Canudo. Scrive di attori e registi, da Rita Hayworth a Pasolini, da Charlie Chaplin a Totò, e di film che hanno segnato l’epoca d’oro del cinema dai capolavori d’oltreoceano, alla nostra solare commedia e l’italianissimo neorealismo, film che “sembravano documenti ed erano, talvolta, poesia”.
Le pagine di Mascellaro non sono semplice schede accuratamente selezionate dall’immensa produzione di don Pierino. In ogni articolo “commentato – appunto – con amore e acribia”, l’Autore ci svela i retroscena, gli incontri, gli aneddoti che ci hanno fatto amare il cinema. Pagine che rivelano non solo il genio dell’appassionato critico, pioniere e padre della critica cinematografica, ma anche uno scorcio inedito della storia del cinema vista dal Sud.

Di Nicola Mascellaro, DIMARSICO LIBRI, 2021
Tutti amano il cinema, il cinema è la massima espressione d’arte popolare fin dall’inizio del secolo scorso: è considerata la ‘settima arte’. Il primo a definirla Arte, negli anni Venti del Novecento, fu il gioiese Ricciotto Canudo, un poeta, scrittore e artista che nel 1902 si trasferì a Parigi e divenne figlio adottivo della capitale francese.
Parlare e scrivere di Arte con la A maiuscola, è molto impegnativo per i non addetti ai lavori, ma parlare e scrivere dell’arte cinematografica senza conoscerne tutti i meccanismi che la contraddistinguono, per ‘raccontarla’, è difficile per la complessità che richiede: si tratta di arte visiva dove in pochi fotogrammi, in un attimo, bisogna saper cogliere la gioia, il dolore, l’amore nelle espressioni…quei lampi che portano al cuore, che fanno brillare gli occhi e spandono di luce ogni tratto del viso.
Questa era l’arte di Piero Virgintino. In sintesi raccontava il film, se era utile alla comprensione arricchiva le sue note con cenni di storia, cultura, costume e società. In quest’ottica si colloca l’opera professionale e critica di Don Pierino.
Egli raccontava emozioni, stati d’animo, parlava del regista e della sua capacità di rendere le sue opere comprensibili e visibili, della maggiore o minore sensibilità degli attori; raccontava degli autori, degli sceneggiatori, della fotografia, dei costumi, degli ambienti e perfino dei caratteristi, assolutamente essenziali in un’opera corale.
Erano queste le ‘prime del cinema’ di Piero Virgintino: erano uniche, ricche, godibili come alcune raccolte in questo volume. Ma è anche la storia di un uomo semplice, di un professionista serio: il cinema era la sua passione, il suo lavoro e lo faceva bene.
Era Don Pierino.Prefazione
di Oscar Iarussi«È accaduto cosi, che quando da noi è stato proiettato Ladri di biciclette, poche, poche persone sono andate a vederlo, e ciò che più sconforta, è il dover constatare che, oltre al grosso pubblico, proprio gli spettatori più preparati per cultura e grado sociale hanno a priori scartato l’idea di vedere il film». È una annotazione di Piero Virgintino, nel corpo della recensione del capolavoro di Vittorio De Sica, all’indomani della prima arese al cinema Galleria, il 26 febbraio 1949. Lo sconforto di Virgintino, pioniere e decano della critica cinematografica nel Sud, in effetti coincide con la sua lungimiranza, ovvero con la capacità di cogliere gli snodi essenziali della storia del cinema nel momento stesso in cui si manifestano.
Leggendo questo regesto di testi commentati con amore e acribia da Nicola Mascellaro, sono da subito evidenti lo sguardo largo, acuto, e i “pensieri lunghi” del giovane Virgintino, giornalista tout court nella redazione della vivacissima “Gazzetta del Mezzogiorno” post-bellica, prima di diventare titolare delle recensioni della Settima arte, come l’aveva denominata agli inizi del Novecento il barisien-parisien Ricciotto Canudo.
Del resto, la “Gazzetta” era l’unico quotidiano che non aveva mai davvero sospeso le pubblicazioni nel passaggio traumatico dal fascismo al Regno del Sud e nel dopoguerra allineava firme come il direttore Luigi de Secly, coltissimo antifascista salentino, e il futuro direttore Oronzo Valentini, cronista del Congresso di Bari dei Comitati di Liberazione nazionale, primo incontro dell’Italia libera, tenutosi nel teatro Piccinni il 28 e 29 gennaio del 1944.
Entrambi discepoli di Benedetto Croce e non solo per i legami baresi del filosofo grazie all’editore Laterza, bensì anche per quel fervido idealismo connesso a un robusto senso del sentimento storico (semplificando al massimo, diciamo “lo storicismo assoluto” postulato da Croce) come antidoto alla crisi europea, in contesa col marxismo. Un approccio non estraneo alle categorie culturali di Virgintino che costantemente guarda al cinema in relazione con le trasformazioni sociali, cogliendone le metafore poetiche e le qualità formali stilistiche estetiche, senza tuttavia sublimarle in una presunta “autonomia del film” o in quel fanatismo della critica che tanti equivoci avrebbe prodotto.
Questo nesso è lampante per esempio nelle recensioni di pellicole come Il generale Della Rovere di Rossellini e La grande guerra di Monicelli, premiati ex aequo alla Mostra di Venezia nel 1959, dove Virgintino è di casa dal 1953 al 1972, inviato speciale della “Gazzetta”.
Ma già un anno prima, assistendo al cinema Santalucia (una delle sale baresi preferite dal Nostro insieme al Margherita) a I soliti ignoti di Monicelli, scocca nel cronista visionario l’intuizione di un nuovo “genere” ancora di là dall’essere definito “commedia all’italiana”. Scrive Virgintino: «I soliti ignoti segue un’altra strada della comicità, quella più genuina, più meditata che parte da spunti di vivace e intelligente osservazione umana e supera il bozzettismo caricaturale e deteriore del genere provinciale, quella strada, per intenderci che si rifà alla felice e ben intuita vena di Guardie e ladri, Toto e Carolina e Ladra lui ladra lei».
Immediata è la folgorazione del critico barese per il cinema di Fellini, come, ancor prima, per i capolavori di Welles e del Chaplin finalmente di nuovo sugli schermi italiani dopo i rigori della censura fascista. Persino l’opera felliniana più ardua e mosaicata, La dolce vita, viene “riconosciuta” e amata senza condizioni da Piero Virgintino nei primi giorni del febbraio 1960, gli stessi in cui a Milano v’è chi giunge a sputare contro il regista: «Fellini si è esibito in un capolavoro di regia. Un film eccezionale questa Dolce vita che dà una considerevole spinta al nostro cinema migliore. Si potrebbe definirlo con due parole e nello stesso tempo ce ne vorrebbero tante per tentare di narrarlo: poema sinfonico o affresco cinematografico sono le immagini più a portata di mano. Nel film ci sono, in corale sintesi, molti degli aspetti della nostra vita».
Potremmo continuare, parlando per esempio di Totò, ma il libro è da leggere, non da sunteggiare in premessa, e parla con chiarezza su questo e altro. A Virgintino si deve la collocazione non occasionale del Cinema in Terza pagina (allora riservata ai letterati e agli elzeviristi) e talora persino in “prima”. Virgintino si batte fin dalle stagioni postbelliche per il varo di sovvenzioni pubbliche rivolte allo spettacolo dal vivo di qualità, tutt’oggi ritenute illegittime da quanti – e non mancano nelle redazioni – ritengono che La Scala valga meno di un ciliegeto rovinato dalla grandine.
Virgintino adocchia con la medesima arguzia e intensità sia il western sia il neorealismo e dedica al genio di Orson Welles un sapido ritratto sentimentale in poche righe, un piccolo capolavoro del giornalismo di costume non corrivo, all’epoca del legame di Welles con Rita Hayworth, che il critico conoscerà di persona in occasione di una visita della diva americana al Petruzzelli.
Già documentarista in talune esperienze da cine-giornalista con l’amico Lorenzo Fiore e legato a Filippo Del Giudice, importante produttore pugliese a Londra, Virgintino avrà un piccolo ruolo in Polvere di stelle di Alberto Sordi, girato a Bari nel 1973. Intanto era diventato un manager ai vertici del “suo” giornale, per cui continuava di tanto in tanto a scrivere, ma dedicandosi soprattutto alla organizzazione aziendale.
A fine anni Settanta approdai come collaboratore alla “Gazzetta”, in via Scipione l’Africano, una strada che era il titolo di un celebre film con lo stesso Sordi esordiente come comparsa e film non privo di qualche… refuso, vedi il proverbiale orologio al polso di un centurione. Ambendo a occuparmi di cinema, «Don Pierino» – come tutti chiamavano Virgintino – fu tra i primi giornalisti che ebbi modo di conoscere insieme ai colleghi della Cultura e degli Spettacoli. Incontrandolo allora, e poi per anni da redattore, quando ci salutavamo dopo la chiusura delle pagine a tarda sera (già notte in verità), non mancava mai di incoraggiarmi con un affettuoso e ironico: «Scrivi, scrivi!».
Voleva dire che aveva letto la mia recensione del giorno prima, o del giorno dopo appena impaginata, e ne approvava il giudizio o condivideva l’impegno (ma su La voce della luna di Fellini tornò a firmare un pezzo di cinema dopo anni). O forse, questo l’avrei inteso molto tempo dopo, voleva dire: «Scrivi adesso e finché puoi». Già, perché il giornalismo – come pochi sanno fuori dal mestieraccio – non coincide affatto esclusivamente con la scrittura.
In uno dei suoi traslochi di stanza o non so più in quale altra occasione, mi donò una serie di libri sul cinema, alcuni con dedica dell’autore: Mario Gromo, Pietro Bianchi, Guido Aristarco… le grandi firme della critica dagli anni Cinquanta agli Ottanta, amici di Don Pierino, che festeggiò la mia prima edizione della Mostra da Venezia quale inviato della “Gazzetta”, suggerendo qualche “dritta” per orientarsi meglio nei meandri festivalieri. Anni in cui, complici le vacanze settembrine in laguna del direttore Bepi Gorjux, la “Gazzetta” non mancava a prima mattina nell’edicola dell’Hotel Excelsior e quindi nelle rassegne stampa della Biennale di Venezia, della RAI, dei produttori cinematografici. Poi, nella primavera del 2018, mi son ritrovato nel Palazzo del Cinema del Lido di Venezia con l’avvocato Manuel Virgintino, che a un tratto mi chiama in disparte per mostrarmi un elegantissimo Piero Virgintino in giacca bianca nella affollata platea della Mostra, forse negli anni Sessanta, in una gigantografia in bianco e nero esposta nell’androne del Palazzo. Ci sarò passato davanti chissà quante volte, ma solo l’occhio filiale poteva cogliere quel dettaglio, un episodio che per me suggella un debito d’affetto e di riconoscenza la cui testimonianza rinnovo qui.

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Nessuno oserebbe affermare che la cultura
cinematografica è un dominio riservato a
pochi appassionati o fanatici dilettanti!

Piero Virgintino
Ovvero, Don Pierino. Quel ‘Don’, quella ‘scheggia’, quel prefisso davanti al nome usato un tempo dalle nostre parti, era un segno di rispetto molto comune. Oggi non si usa quasi più, se non per persone veramente speciali. Ecco, all’epoca, oltre sessant’anni fa, Piero Virgintino apparteneva a quella categoria di persone. Così, quando i suoi interlocutori si rivolgevano a lui con quel ‘Don’, sentivi nel tono della loro voce che c’era qualcosa in più di un segno di stima, qualcosa che andava oltre la considerazione che si aveva per i tanti ‘Don’ declamati ogni giorno a tante altre persone. Lui, Don Pierino, era, come diceva il suo amato Totò, nn’ata cosa.
L’ho conosciuto nel 1966, ma la mia frequentazione quasi quotidiana con lui risale al 1972 quando la Gazzetta si trasferì nella nuova sede di via Scipione l’Africano. Nella vecchia sede, in piazza Roma, c’erano poche occasioni per frequentarsi, lui lavorava il mattino io la sera, ma quando accadde ebbi subito la sensazione di trovarmi di fronte ad una di quelle persone speciali: Don Pierino era semplice, genuino, solare. Mai un gesto di superbia o d’insofferenza, era affabile con chiunque fin dal primo approccio… arrivava prima il suo sorriso, poi lui, ricorda Lino Patruno.
Ed era vero. Aveva la rara capacità di mettere chiunque a proprio agio, dall’ultimo operaio al professionista più noto, prestava attenzione e considerava tutti col medesimo rispetto… di immediata comunicativa, tutto il rapporto con lui era irregolare perché irregolare era lui stesso.
Era un uomo vero, senza fronzoli, di estrema modestia. Dotato di un’enorme cultura umanistica e grande sensibilità, amava il cinema come pochi, aveva scelto di abbracciare quel mondo di celluloide che lo affascinava e scriveva, fin da giovanissimo come se l’avesse sempre fatto. Amava tutto quello che girava intorno allo spettacolo, amava la sua famiglia pur sacrificandola ai ritmi, agli assurdi orari di lavoro di un giornale quotidiano… alle sue esigenze, senza le quali, diceva, noi non avremmo esigenze.
Era una pila inesauribile, un moto perpetuo, una energia allo stato puro scrive ancora Patruno. Arrivava al giornale verso le 10 del mattino e vi rimaneva fino alle due e mezza tre del pomeriggio quando ‘inforcava’ la sua amatissima Cinquecento e andava a casa dove consumava pasti frugali. Al cinema, più o meno ogni pomeriggio, e di nuovo a casa per scrivere la recensione, per raccontare e illustrare ai suoi lettori lo spettacolo che aveva visto.
Verso le 19 tornava al giornale, lasciava la recensione al Proto, il responsabile della tipografia – figura e settore di stampa totalmente soppressi dal sistema digitale – e si tuffava nelle carte del suo ufficio, zeppo di cartelle amministrative, mentre tutta la sua stanza, con la porta sempre aperta, traboccava di giornali interi o ritagli, di riviste, oggi si chiamano magazine, e di ogni sorta di pubblicazioni settimanali e mensili sparsi un po’ ovunque: sull’unico divano, sui braccioli, sulle sedie, su una poltroncina, ovunque insomma tranne che sulla scrivania, dove aveva solo le carte che consultava quel giorno, e sulla sedia di fronte a lui riservata ad un eventuale ospite.
In quella stanza vi rimaneva fino alle due le tre del mattino. Qualche volta, a sera inoltrata, faceva un salto in redazione, ma solo per chiedere delucidazioni inerente a qualche pratica amministrativa. Non aveva tempo per ‘quattro chiacchiere’. Non parlava mai di cinema per non dare l’impressione di essere saccente. Solo se a tarda sera andavi nel suo ufficio e volevi scambiare un’opinione sull’ultimo film che avevi visto o su personaggi come John Ford, Charlie Chaplin, Roberto Rossellini, Totò e altri, i suoi occhi celesti si accendevano, e ti dedicava qualche minuto. Niente di più.
Non imponeva mai le sue opinioni. Tollerante, non si abbandonava mai all’ira. Tranne, qualche volta: di fronte all’ottusità, perdeva le staffe. Ma era proprio raro, molto raro. Lui pure, era umano.
Poi, a notte inoltrata, difficilmente prima delle tre, faceva il solito giro di tutto il fabbricato, controllava che televisori e luci fossero spenti – non lo erano mai – che sciacquoni e rubinetti non sprecassero acqua, odiava gli sprechi, ed infine giù al piano terra o nel secondo interrato della nuova sede, in rotativa, per ritirare la sua copia fresca di stampa che si guardava a casa mentre mangiava friselle, abbondanti piatti di verdura o insalate miste, e frutta.
Era sobrio in tutto. Fumava poco e senza l’ansia del fumatore. Negli anni Sessanta smise del tutto. Non beveva alcolici e vestiva sportivo: camicia e pullover girocollo d’inverno, polo d’estate. Quando arrivarono i jeans smise di indossare pantaloni fresco lana, i jeans divennero la norma d’inverno e d’estate. Qualche volta, d’inverno, al posto del pullover metteva un cardigan e, se proprio era costretto a vestire in modo formale, sulla camicia elegante metteva la giacca senza la cravatta, a cui aggiungeva un filo, una catenina sottile, che attraversava l’occhiello del risvolto della giacca e finiva nel taschino.
Quando l’ho conosciuto, nel mitico Palazzo del Giornale, in piazza Roma odierna piazza Moro, costruito dall’architetto di Rutigliano Saverio Dioguardi, Don Pierino aveva 46 anni. Quando si è spento, nel 1996, aveva ancora l’aspetto di un uomo di 46 anni: nei trent’anni di frequentazione era rimasto identico: stesso fisico asciutto, stessi capelli radi, magari con qualcuno bianco in più, ma era lo stesso di sempre: semplice, ironico, sagace, più colto ma senza sfoggio, con una piega di amarezza per quello che la sua Gazzetta poteva essere e non era più oramai. Troppi sprechi, diceva, si è perso il senso della misura.
Nel 1996 era già in atto la crisi dell’editoria causata dalla legge Mammì che aveva consentito alle TV private di trasmettere i loro programmi in diretta, a fronte dei TG, causando una paurosa migrazione della pubblicità dalla carta stampata alla televisione.

La passione per il cinema
Piero Virgintino era nato a Bari il 12 ottobre 1921. Il padre, Emanuele, era un impiegato statale spentosi prematuramente lasciando la moglie, Carmela, e due figli Piero e Giuseppe adolescenti. Dopo la scuola media Piero frequenta il Liceo Cirillo dimostrando una fertile immaginazione che traduceva in componimenti limpidi e chiari. In breve, amava scrivere e lo sapeva fare. Nel 1940 s’iscrive all’Università di Bari, Facoltà di scienze Politiche, ma a compimento del 21mo anno la Patria, ormai alle armi, chiama anche lui benché orfano di padre e, dopo un breve corso di addestramento, viene ‘spedito’ in Africa dove gli italiani se la passavano proprio male: quei dannati, ostinati inglesi non volevano saperne di lasciare il deserto al Duce.
Virgintino arriva in Africa nel 1943 e, ironia della sorte, nell’estate dello stesso anno gli Alleati sbarcano in Sicilia mettendo fine alla guerra in quasi tutto il Mezzogiorno d’Italia. La prima jeep inglese arriva a Bari nel settembre del 1943. Più o meno nello stesso periodo Don Pierino viene fatto prigioniero dagli inglesi e dopo una sosta in un campo di concentramento in Africa, viene prima condotto in India, poi in Inghilterra e infine, nel 1945, liberato.
Nel 1949 sarà lui stesso a raccontare la sua breve esperienza africana quando gli capita fra le mani il bel volume di Sergio Antonielli, ‘Il campo 29’, il racconto di un fatto storico, poco noto, di diecimila prigionieri italiani tenuti in campi di concentramento ai piedi dell’Himalaya. Ne rimane così colpito che decide di parlare della sua esperienza.
Tornato a casa, riprende gli studi universitari, riprende a collaborare con il settimanale Cine-Sport, occupandosi di cronaca cinematografica, e comincia a guardarsi intorno. Ma il secondo dopoguerra non offre molto. La fame, di quella ce n’era tanta. Qualcosa si trovava, per i cosiddetti ‘lavoratori del braccio’, per la manovalanza, ma per ragazzi un poco più acculturati, per giovani universitari senz’arte né parte, c’era proprio poco.
Virgintino, comunque, sapeva già cosa voleva fare: voleva scrivere, parlare e possibilmente fare cinema, nel senso di partecipare alla realizzazione dei film. Coltivava, fin da ragazzo, una passione per quel settore dello spettacolo che il gioiese Ricciotto Canudo, parigino d’adozione, definiva sulle pagine della Gazzetta la ‘settima arte’, il cinematografo inventato dai fratelli Lumiere.
E le passioni, si sa, affinano l’ingegno, sono nutrimento dell’anima, fonti di arricchimento culturale. Solo che bisognava fare i conti con l’ambiente, con le miserie del Meridione, e per i tanti ragazzi che volevano scrivere, oltre alle interminabili discussioni di tutte le sere, con gli amici per le strade della città, lo ‘struscio’, c’era solo Cine-Sport un giornale settimanale fondato nel 1926 da Ferdinando Pinto, giornalista e ‘cinematografaro’, gestore di diverse sale cinematografiche nonché noleggiatore e distributore di pellicole in quanto rappresentante di case produttrici di film, nazionali e americani, che ne inviavano a migliaia: di tutti i colori, di tutti i generi, di tutte le qualità!
Pinto aveva avuto l’intuizione di pubblicizzare la merce che noleggiava, fondando un giornale che si occupava di due fra i più diffusi e dibattuti argomenti dell’epoca, cioè cinema e sport, due materie sovrane e facilmente comprensibili considerato l’esteso analfabetismo.
Il cinema e lo sport erano temi alla portata di tutti. Il ciclismo in particolare, fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, era molto più diffuso del calcio che nel dopoguerra prenderà il sopravvento. Di cinema, invece, se ne parlava poco. C’erano grossi centri di provincia che fino alla fine del secondo conflitto non avevano mai avuto una sala cinematografica.
Bari, al contrario, era ricca di cinematografi. Ce n’erano ovunque, anche di fortuna, e il settimanale di Pinto, che presto divenne bi e tri settimanale, dava ai giovani l’occasione di scrivere e di misurarsi con i giornalisti della paludata Gazzetta la quale pubblicava un’ampia cronaca sportiva ma niente o poco cinema. Erano anni in cui la critica cinematografica, ritenuta troppo frivola, non aveva spazio nei quotidiani
Nella redazione di Cine-Sport dunque finivano i tanti ragazzi desiderosi di fare giornalismo in attesa di trovare una sistemazione. Ma, inutile negarlo, lo sguardo di tutti quei giovani aspiranti giornalisti era, naturalmente, rivolto verso quel mitico Palazzo del Giornale in stile Liberty in piazza Roma sulla cui sommità svettava un mappamondo luminoso. Era La Gazzetta del Mezzogiorno.
Solo che Pinto, per comporre e stampare il suo giornale, non aveva un proprio stabilimento tipografico. Si poggiava, ora da una parte ora dall’altra, a delle piccole realtà cittadine finché non trovò, tipografia e stampa, presso l’azienda di Alfredo Cressati, accanto al vecchio albergo Leon D’Oro in piazza Roma, odierna piazza Moro. Accadeva, allora, che ‘sguardi’ e aspettative non erano unidirezionali poiché dal ‘Palazzo’ pure, avevano gli occhi puntati su quei ragazzi, soprattutto sui tipografi.
In breve, Cine-Sport e la tipografia di Cressati divennero serbatoi professionali e tecnici della Gazzetta che, man mano che cresceva e, a partire dal 1947 cresceva parecchio, attingeva da loro giornalisti e tipografi già formati creando così problemi a Ferdinando Pinto, che non se ne curava molto avendo dietro al suo ufficio una coda di giovani aspiranti giornalisti. Diverso era, invece, per Alfredo Cressati. Maestro di arti grafiche, gran galantuomo, burbero e autoritario per mascherare la sua profonda sensibilità, ogni volta che perdeva un tipografo lamentava di aver perso un figlio.
Ma non c’era rimedio. La Gazzetta diventava sempre più autorevole e diffusa, di anno in anno aumentavano giornalisti, tecnici e personale amministrativo. E il serbatoio era lì, a portata d’occhio.

Da Cine-sport alla Gazzetta
In pochi anni, a partire dal 1947 cominciarono ad essere assunti dalla Gazzetta diversi redattori di Cine-Sport, alcuni come collaboratori, altri fra pubblicisti e qualcun altro già giornalista professionista: Vito Lopez, Italo Del Vecchio, Franco Chieco, Franco Marrone, Mario Gismondi, Venanzio Traversa, Pasquale Tempesta, Paolo Catalano, Michele Lomaglio, Giuseppe Gorjux e Piero Virgintino che sarà, per oltre un decennio segretario di redazione nel giornale diretto da Luigi de Secly.
Alcuni, pur essendo arrivati prima di altri, non vedranno tanto presto la loro firma sulla Gazzetta. Erano gli anni in cui si faceva molta gavetta. Si cominciava scrivendo piccole cose senza firma, notizie di cronaca cittadina, partite di calcio in provincia sui campi di serie C e D. Solo in seguito, a volte dopo anni, si cominciava a firmare con le iniziali puntate e rigorosamente minuscole e, dopo diverso tempo ancora, si otteneva la firma per esteso. Si faceva molta ‘cucina’, cioè si rielaborava il notiziario nazionale e internazionale che fornivano le agenzie di stampa, alle esigenze di spazio del giornale.
Insomma, la firma sul giornale, era un punto di arrivo non un punto di partenza come invece avviene oggi. Ma accade sempre nella vita che qualcuno sfugge ad ogni regola, ad ogni consuetudine, e Piero Virgintino era l’eccezione. Lui avrà la sua firma tutta intera e tutta in maiuscolo, fin dal suo primo articolo sulla Gazzetta.
Virgintino, infatti, era uno di quei giovani intellettuali che il direttore del giornale, Luigi de Secly, apprezzava. In Cine-Sport si occupava di cinema e di personaggi del mondo dello spettacolo senza abbandonarsi in pettegolezzi, che un uomo d’antico stampo come de Secly non amava. Inoltre aveva introdotto le recensioni dei film, rubrica che la Gazzetta non aveva, e che de Secly leggeva regolarmente: non era un cultore della cinematografia, era un appassionato, vi andava quasi tutte le sere all’ultimo spettacolo, ma non amava andarci da solo, più delle volte si faceva accompagnare da un cronista, i primi a ‘chiudere’ le pagine del giornale.
Il 4 gennaio 1947 un trafiletto nella rubrica delle Lauree la Gazzetta annuncia che… presso l’Università di Bari si è laureato in Scienze Politiche il collega Piero Virgintino di Cine-Sport. Relatore il chiarissimo Raffaele Resta,
Nel 1947 dunque, Virgintino, pur essendo ancora un pubblicista, diventa giornalista professionista nel 1951, era già considerato ‘collega’: l’appartenenza ad una classe sociale all’epoca era importante. Non si davano titoli se non li avevi guadagnati sul campo.
Quattro mesi dopo, il 17 aprile 1947, nella terza pagina della Gazzetta, ecco il suo primo articolo, Questo nostro cinema, firmato PIERO VIRGINTINO, proprio così, per esteso e tutto maiuscolo.
Il giovane Piero ancora non aveva ottenuto l’impegnativa lettera di assunzione, ma sicuramente aveva acquisito punti sufficienti per chiedere e ottenere la pubblicazione di quell’articolo. Era un ospite e venne trattato come tale. Ma quella firma, in quel modo, tutta in maiuscolo e per esteso, sarà per sempre. Sarà il suo copyright ogni volta che scriverà un servizio giornalistico in terza pagina, in quella che un tempo era la pagina ‘nobile’ di un quotidiano.
Nell’articolo Virgintino sostiene che… il momento è assai critico per la nostra industria cinematografica, la quale, se attentamente agevolata e protetta è suscettibile di dare un aiuto notevole all’opera di ricostruzione. C’è, in Parlamento, uno schema di legge a favore del film italiano… ma nessuno sa dove, e intanto l’invadenza straniera ha raggiunto il culmine. Tanto che crollato ogni sistema protettivo, si è verificato, nel volgere di tre o quattro anni una spaventosa invasione.
Arrivano, soprattutto dagli Stati Uniti, centinaia, migliaia di ‘pizze’ cinematografiche, le famose scatole rotonde in lucido alluminio che contenevano le pellicole di tutti gli anni – dal 1939 al 1945 – dell’embargo hollywoodiano imposto ai paesi Fascisti. Così, quando il mercato s’era riaperto, arrivava di tutto, in maggioranza pellicole di bassa qualità che gli stessi americani quando non le definivano Trash, spazzatura, le chiamavano ‘B movie’, film di serie B, erano scarti di magazzino anche per il mercato americano.
Infatti, Virgintino aggiunge che… se il problema rimanesse sul piano qualitativo, se le pellicole fossero di buona qualità forse non vi sarebbe ragione di tanta preoccupazione, si eviterebbe lo svilimento dello spettacolo. S’invocano da più parti drastiche misure contro l’invadenza straniera. Molti paesi europei hanno imposto divieti di ogni sorta: sono state prese misure doganali affinché sia vietato l’accesso all’affarismo cinematografico… sono stati adottati sistemi di pretto sapore monopolistico, soltanto l’Italia non ha ancora mosso dito e subisce in pieno l’invasione. Ma quando sarà varata la nuova legge?
Era nata l’Italietta! Quel Paese che s’era inventato una versione tutta italiana della politica attiva: non fare oggi quello che puoi rinviare a domani!
Con questo primo articolo Virgintino dava inizio alla sua ‘marcia di avvicinamento’ al Palazzo. Era solo un approccio che presumibilmente gli aveva dato la possibilità di fare qualche sostituzione, quella era la trafila, nell’ufficio dei revisori di bozze. Quella del correttore era la porta di servizio, lo spiraglio che conduceva all’ingresso principale.
L’11 dicembre 1947, torna a scrivere in terza pagina e racconta, con partecipazione, la vita grama delle ballerine del teatro di rivista in quegli anni… il teatro leggero – scrive – è come un microcosmo che delle stranezze del mondo conserva tutte le caratteristiche. Così, c’è chi vive bene e chi è costretto a fare salti mortali per sbarcare il lunario. La rivista è un pozzo prezioso soltanto per qualche decina di persone: gli amministratori, qualche divo, alcune soubrette. Tutti gli altri, particolarmente girls & boys si trovano nella più assoluta instabilità economica e in un continuo disagio.
Ci sono attori che guadagnano da dieci a trenta mila lire serali, ed altri che con un migliaio di lire al giorno non sanno come fare per risolvere l’indispensabile problema dei due pasti e di un letto. Spesso sono costretti a saltare un pasto o l’alloggio. Per le ballerine, è vero, ci sono delle soluzioni… particolari. Alle uscite di servizio dei teatri, tutte le sere, c’è sempre più di un generoso signore dal cuore nobile ad attenderle, pronto ad offrire la cena alla smarrita ragazza del balletto. Il guaio è che queste brave persone, con eccessivo zelo filantropico, generosamente, sono soliti offrire anche l’alloggio per la notte. In questo caso la soluzione ha tutto l’aspetto di una capitolazione: capitolazione per fame. E i boys? Trovano anch’essi alle uscite di servizio dei teatri, signori filantropici?
Era una vita grama, per molte, per tutte quelle ballerine delle riviste di terz’ordine. Era la vita vera, era cronaca di tutti i giorni. .(..)

I film di Frank Capra
Nel 1948 arrivano nelle sale cinematografiche di Bari cinque pellicole di Frank Capra: La vita è meravigliosa, prodotto nel 1946; Arriva John Doe, del 1941; È arrivata la felicità, un film del 1936, al Supercinema in seconda visione; L’eterna illusione del 1938, ancora una seconda visione all’Arena Pensile Astra, e Lo stato dell’Unione, un denuncia della corruzione politica negli Stati Uniti, realizzato e distribuito nel corso del 1948 e proiettato sullo schermo del cinema Margherita. .(..)

Rita Hayworth, la stella più lucente
Altro articolo sul cinema, il 28 marzo 1948, di nuovo in terza pagina. Questa volta Virgintino tratteggia un pregevole ritratto della stupenda Rita Hayworth, l’attrice più rappresentativa dello star system statunitense negli anni Quaranta. .(..)

Le ‘prime del cinema’ sulla Gazzetta
Questi articoli, pur incontrando il favore del direttore de Secly, appassionato di cinema, non avevano cittadinanza in un quotidiano troppo serioso, troppo politicizzato, impegnato a migliorare le condizioni sociali dei pugliesi, a ‘salvarli’ dai nostalgici, ce n’erano molti, e dal comunismo totalitario. Tuttavia, il lettore apprezzava quelle note di colore nel suo giornale già ‘rachitico’ per la carenza di carta, e immiserito dalle ristrettezze economiche del secondo dopoguerra. Quelle ‘note’, serie e soprattutto senza indulgere in pettegolezzi del mondo frivolo del cinema, erano novità che facevano sorridere alla vita. .(..)

Charlie Chaplin, Charlot
Naturalmente nelle sue incursioni in terza pagina non poteva mancare l’Artista per eccellenza, la figura e il cinema di un attore e regista che ha fatto la storia del cinema muto e sonoro: Charlie Chaplin, il mitico Charlot… la nuova generazione che ha visto sullo schermo Il grande dittatore e Monsieur Verdoux – scrive Don Pierino l’11 settembre 1949 – non ha visto Charlot ma Charlie Chaplin. Un personaggio, cioè, che ha cessato di essere mito e si è fatto realtà. In questo trapasso è tutta la sintesi del travaglio artistico di uno dei più grandi comici del Cinema. Il primo è contraddistinto dal personaggio Charlot, il secondo dall’attore Charlie Chaplin. .(..)

Monsieur Verdoux
Il grande dittatore è un film del 1940, che in Italia arriva nel 1946, l’anno dopo, in America, esce Monsieur Verdoux, a Bari arriva nel 1952, ma Virgintino deve averlo visto prima, da qualche parte perché ne parla nella nota accennata del 1949.
In Monsieur Verdoux Chaplin arriva ad immolarsi Il pubblico sorride, ma tanto cinismo lo disgusta… nel film, infatti, Chaplin interpreta il ruolo di un uomo di mezza età che per vivere con agiatezza gli ultimi anni della sua vita, irretisce donne sole e ricche, le sposa e poi le uccide.
Condannando Verdoux, Chaplin forse non sapeva di condannare sé stesso.
Invece, il 23 dicembre 1952 esce il suo capolavoro, Luci della ribalta scritto, sceneggiato, diretto, prodotto e interpretato da Charlie Chaplin. E Virgintino, si arrende di fronte alla grandezza di Chaplin: confesso che è compito molto più che arduo affilare la penna per accostarmi ad un artista, ad un poeta dello schermo. Vorrei avvicinarmi a Chaplin con reverente discrezione, sommessamente, al punto che scrivendo ‘è un film bellissimo’ temerei di offendere la soave, sobria e candida modestia che traspare da tutta l’opera. Il film è un continuo alternarsi di sensazioni che non distraggono un solo momento l’attenzione dello spettatore: brani drammatici, brani musicali, balletti, numeri comici sono sapientemente distribuiti e raggiungono il massimo effetto. Sono pagine stupende di cinema e non è facile dire donde provenga la forza drammatica e lirica del film che ci rivela un nuovissimo volto di Chaplin: quello di un grande attore drammatico.

La recensione di un film in prima pagina
Ci sono stati applausi in questa mostra, tanti applausi – commenta a caldo Virgintino inviato della Gazzetta a Venezia – ma dopo la proiezione dei film di Rossellini e Monicelli c’è stato qualcosa di diverso:. c’era, lasciatecelo dire, un senso di soddisfazione per il nostro cinema.
Colpito soprattutto dal film di Rossellini, Virgintino farà una recensione così appassionata che finisce per coinvolgere anche il direttore della Gazzetta, Luigi de Secly, il quale decide di pubblicarla in prima pagina, di spalla, su 4 colonne: non era mai accaduto che la recensione di un film avesse l’onore della prima pagina… affascinato dal contrastante personaggio del Generale, Rossellini ne ha seguito la parabola psicologica col suo straordinario istinto di creatore d’immagini, ha scrutato in profondità l’uomo nel suo ambiente a contatto con altri uomini, ne ha colta la lenta catarsi. Il personaggio, entrato in crisi con la sua coscienza è sollecitato a partecipare pienamente alla vita che lo circonda e Rossellini, ricollegandosi al clima della Resistenza nel suo indimenticabile Roma città aperta, ci ha messo sotto gli occhi, con brusca autorevolezza, un quadro di palpitante umanità. Con quella sua capacità di selezionare, di scarnificare, di portare la materia narrativa su un terreno apparentemente arido, ma che in realtà dimostra un’efficacia immediata, la ritroviamo nel film di oggi ancora perentoria, bruciante. .(..)

La dolce vita
Mentre questo avviene in Francia, in Italia esplode il cinema di Federico Fellini.
La prima del nuovo film del regista riminese La dolce vita è sullo schermo del cinema Fiamma a Roma il 3 febbraio. Il film è lungo tre ore e, alla fine, il pubblico gli concede soltanto trenta secondi di applausi e qualche fischio. Alla prima milanese, due giorni dopo, andrà peggio: delusione, fastidio, insulti… è uno spettacolo immorale, – diranno in molti – basta, vergogna!
Virgintino assiste alla proiezione del film la stessa sera, il 5 febbraio 1960, al cinema Santalucia e, sulla Gazzetta del 6 scrive, senza alcuna esitazione… Fellini si è esibito in un capolavoro di regia. Un film eccezionale questa Dolce vita che dà una considerevole spinta al nostro cinema migliore. Si potrebbe definirlo con due parole e nello stesso tempo ce ne vorrebbero tante per tentare di narrarlo: poema sinfonico o affresco cinematografico sono le immagini più a portata di mano. Nel film ci sono, in corale sintesi, molti degli aspetti della nostra vita. .(..)

La ciociara
Chiude questo irripetibile anno cinematografico italiano La ciociara, diretto da Vittorio De Sica, che il 30 dicembre 1960 propone il cinema Galleria. Era dal 1956 che De Sica non si accostava più alla macchina da presa in veste di regista… con La ciociara De Sica è tornato al suo primo amore. È un bel film – scrive Virgintino – che ci ridà il miglior De Sica, un film che ha qua e là certi alti e bassi ma che rimane in sostanza un’opera degna e forte, impregnata di struggente e disperata poesia, un quadro sapientemente disegnato in cui campeggia il ritratto mirabile di una donna, di questa ‘ciociara’ così vera e vibrante nei suoi accenti, nei suoi impeti, nei suoi moti dell’istinto e dell’animo in cui c’è tutto uno sfondo bellico magnificamente tratteggiato, lampeggiante di furori, di contrasti, di odii e di amori, come c’è la rievocazione ambientale, agreste e bucolica, del piccolo mondo periferico.(..)

 

Divorzio all’italiana
Ma la festa del cinema italiano continua e nel 1961 il regista Pietro Germi con Divorzio all’italiana, dal 29 dicembre al cinema Santalucia, inaugura quella straordinaria stagione di un genere, a lungo imitato e mai eguagliato, della Commedia all’italiana, anticipato da I soliti Ignoti di Mario Monicelli.
E Don Pierino continua ad elargire al suo pubblico non solo interessanti, colte e splendide recensioni, ma vere e proprie lezioni di storia civile, sociale e di costume del nostro Paese proprio come farà, affrontando il tema del Divorzio all’italiana, prima di entrare nel merito del film di Germi. .(..)

Pier Paolo Pasolini
Nel 1961 anche Pier Paolo Pasolini si avvicina al mondo del cinema. Personaggio quasi sconosciuto al grande pubblico, Pasolini è uno degli intellettuali più complessi nella storia culturale nazionale del secolo scorso. Genio e sregolatezza, scrittore lucido e violento, poeta e cantore dei ‘ragazzi’ di vita, delle miserie del sottoproletariato, diventa sceneggiatore per cercare di sopravvivere. Vicino all’ideologia di sinistra eppure espulso dal PCI per la sua dichiarata omosessualità, emarginato dalla società civile dell’epoca per lo stesso motivo, gioventù traumatica, rapporti spigolosi e conflittuali più o meno con tutti, lo rendono duro, ostico, difficile da trattare. .(..)

Si spegne Totò, il principe De Curtis
E poi muore Totò. Muore cioè un attore non attore, sicuramente un artista.
Alle 3 e mezzo del mattino di sabato 15 aprile 1967, il principe di Bisanzio Antonio de Curtis in arte Totò, si spegne nella sua casa romana. Aveva 69 anni. All’epoca non riuscimmo a spiegarci perché la scomparsa di un attore comico, bistrattato più o meno da tutti, beniamino del sottoproletariato e del proletariato, si diceva allora, fosse così rilevante da prendere 5 colonne della prima pagina della Gazzetta, con la cronaca delle sue ultime ore di vita, e ben tre articoli firmati da ‘specialisti’ dello spettacolo: Piero Virgintino, Giuseppe Giacovazzo e Mario Casalbore, nella pagina culturale l’allora pagina ‘nobile’ dei quotidiani.
Se n’è andato il caro vecchio Totò, insoddisfatto come lo sono gli artisti di razza, dopo una vita così intensa c’era stato posto anche per un Totò-autore di canzoni e un Totò-poeta. D’un tratto – scrive Virgintino – tutto è passato nel gran libro dei ricordi e dei rimpianti, il vivo rimpianto per un grande cuore che in un mondo sempre più incupito, sempre meno sereno, aveva saputo porgere, a modo suo, un attimo di spensieratezza, donando la fresca gioia di un semplice, impagabile, umanissima risata. .(..)

Alberto Sordi, Polvere di stelle
Ecco, in questo grave stato di confusione e disordine socio-economica, nello stesso mese di agosto arriva a Bari Alberto Sordi con la sua troupe per girare il film Polvere di stelle diretto, interpretato e sceneggiato da Sordi, Ruggero Maccari, autore del soggetto, e Bernardino Zapponi.
In città, ad attendere la compagnia, c’è Piero Virgintino. Certo si conoscevano, s’erano già visti nelle varie mostre cinematografie e qualche volta a Roma, niente di coinvolgente, ma a Bari, a casa di Don Pierino le cose cambiano, ed ecco che, quasi magicamente, quel legame emotivo e spontaneo che viene a crearsi fra due persone che hanno gli stessi interessi culturali e professionali, quel feeling è immediato tanto che Sordi lo vuole sempre accanto, per parlare di cinema, di teatro per farsi descrivere la città, per vedere luoghi e vicoli del borgo antico, soprattutto per farsi ‘raccontare’ le ‘glorie’ del Petruzzelli dove Sordi girerà parte del suo film, quel tempio della lirica… che da tempo ormai vi passano le compagnie di prosa e di rivista, si proiettano film, e qualche volta, in tempi di magra s’è affacciato il Varietà… scriverà Don Pierino in una nota pubblicata sulla Gazzetta il 12 agosto 1973 dove racconta una scena del film che si sta girando in teatro. .(..)

Antenna Sud e Pietro Virgintino

Nel 1980 la Società che l’anno prima aveva rilevato la gestione della testata della Gazzetta dal Banco di Napoli, si arricchisce di una emittente televisiva. Nasce così Antenna Sud. Virgintino è incaricato di curare il palinsesto, compito più che faticoso, fastidioso perché richiede impegno e contatti quotidiani con emittenti private nazionali che fornivano ad Antenna Sud programmi vari, compreso film cui bisognava preparare, ogni giorno, un richiamo pubblicitario sulla Gazzetta corredato di fotografie e sunto del film in programma.
Così, poco a poco, Virgintino riduce le recensioni sul giornale. Le prime visioni sono diventate tante, troppe. Non c’è paese, in Europa, in America e in Asia, che non produca film. Ne arrivano a migliaia ogni anno. E pur con l’ausilio di un ‘vice’, Vito Attolini, non è possibile recensirli tutti. Verso la metà degli anni Ottanta, oberato di lavoro da nuovi incarichi amministrativi, Virgintino lascia.

Circa il suo ruolo nella Gazzetta viene ricordato che “Piero Virgintino è vice direttore generale di un’azienda di oltre trecento dipendenti e, spesso è in ufficio per più di dieci ore al giorno per sette giorni la settimana. E i riposi settimanali, e le ferie? Non si sa, lui è sempre lì, alla sua scrivania! “
In conclusione è detto che “Non c’è molto altro da dire su Don Pierino. Forse aveva ottenuto tutto dalla vita: aveva potuto coltivare la passione per l’Arte cinematografica, aveva saputo consolidare la sua figura umana e professionale, era diventato un uomo d’azienda ed era per tutti un galantuomo, con tutto il significato antico che c’è in quella parola ormai desueta: galantuomini… non ce ne sono più!
Piero Virgintino si spegne il 1° aprile 1996, aveva 74 anni… era un uomo con un animo nobile e generoso – si legge nella prima pagina della Gazzetta del 2 aprile – era l’umanità senza limiti del vero gentiluomo, con la dolcezza di carattere dell’uomo veramente colto, schivo da ogni forma di esibizione, superiore ad ogni meschinità ed incapace di fare torto a chicchessia. Non sono frasi d’occasione concesse alla memoria del collega ed amico cui tutti volevamo bene. È appena il ricordo doveroso, è l’espressione di quei sentimenti profondi che le parole non possono riuscire, non riescono a rendere compiutamente.
Muore, perdonate il ricordo personale, l’avevo visto qualche giorno prima, con un magone nel cuore: il giornale, il suo giornale, quella Gazzetta in cui ha speso quasi mezzo secolo della sua vita, denunciava gravi difficoltà economiche. L’anno prima era stata ‘costretta’ a prepensionare e pensionare 18 suoi colleghi e, nel corso del 1996, toccherà a 80 poligrafici: tipografi, tecnici e amministrativi.
Nelle aziende che producevano carta stampata era passata la falciatrice delle innovazioni tecnologiche.

PIERO VIRGINTINO Critico cinematografico
A cura di FRANCESCO SAVERIO NISIO, SEDIT 2012

Testimonianze

Manuel e Nicoletta Virgintino
Ritratto biografico
Pietro Virgintino nasce a Bari il 12 ottobre 1921 da Emanuele, impiegato statale e Carmela D’Anna, musicista.
Orfano di padre sin dalla prima adolescenza, emerge negli studi — che affronta con molti sacrifici — al Liceo Cirillo di Bari, dimostrando in particolare una spiccata e innata predisposizione verso la scrittura: i suoi professori non avevano, a loro giudizio, nessuna votazione sufficiente per i suoi componimenti.
Terminato il liceo, si iscrive alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università
di Bari, ma nel 1943 viene chiamato in guerra e si ritrova in Africa, prigioniero degli inglesi. Durante la prigionia scrive e mette in scena diversi spettacoli con Sergio Sollima (il noto regista della serie TV Sandokan e di molti altri pregevoli film), ed uno di questi spettacoli viene dato alla presenza del generale Badoglio, che si trovava nello stesso campo.
Finita la guerra, distrutto nel fisico e nel morale, riprende gli studi universitari
e si laurea col massimo dei voti. Comincia così la sua rincorsa di un posto di lavoro: il primo, da precario ante litteram, lo trova presso il periodico CineSport, al quale collabora per alcuni anni in veste di critico cinematografico. Nel frattempo la sua passione per il cinema cresce, anche grazie alla nascita nel 1950 di Cine Club Bari, a cui contribuisce insieme ad un gruppo di amici, come lui cinefili appassionati e difensori del valore artistico dell’opera cinematografica.
Da qualche anno era finalmente approdato a La Gazzetta del Mezzogiorno: il suo primo articolo firmato è del 17 aprile 1947, dal titolo Questo nostro cinema, e la sua attività di critico cinematografico proseguirà fino alla metà degli anni Ottanta.
L’11 di giugno del 1959 sposa Carolina Di Bari con la quale avrà i due figli, Manuel e Nicoletta.
In Gazzetta ricoprirà vari incarichi, da correttore di bozze a critico cinematografico a vice direttore generale, e lavorerà fino agli ultimi istanti della sua vita. Ma il suo amore sarà sempre il cinema, per il quale diventerà, a partire dagli anni Cinquanta,
inviato speciale della Gazzetta in tutte le manifestazioni più importanti. Nello
stesso periodo lo troviamo collaboratore del Resto del Carlino di Bologna.
È presente a tutte le mostre del cinema di Venezia, e fa parte per vari anni della giuria per il premio cinematografico David di Donatello, dove siede al fianco dei critici delle maggiori testate italiane. Per due anni, fra il 1961 e il 1963 tiene un corso di Filmologia presso l’A.N.S.I. (Associazione Nazionale Scuola Italiana) di Bari.
Poliedrico è il suo coinvolgimento nel cinema, non solo quale critico: con la collaborazione del pugliese Lorenzo Fiore, verso la fine degli anni Sessanta, è co-regista e sceneggiatore di alcuni documentari, musicati dal fratello Giuseppe (Peppino). Già da alcuni anni aveva stretto una bella amicizia col tranese Filippo Del Giudice, produttore italo-inglese di film scespiriani diretti e interpretati da Laurence Olivier. Nei primi anni Settanta scrive un soggetto cinematografico, dal titolo Escalation 1861. Tutti i briganti del re. È del 1973 un testo biografico su Tommaso d’Aquino. E quando, nello stesso anno, Alberto Sordi gira a Bari il suo Polvere di stelle, i due diventano pressoché inseparabili, al punto che Sordi gli chiederà di
fare un cameo nel finale del film nel ruolo di direttore del Petruzzelli. Alla fine degli anni Settanta, già passato in Gazzetta ad impegni di natura amministrativa, curerà per la neonata Antenna Sud i primi palinsesti televisivi ed una rubrica dedicata al cinema.
Negli ultimi anni della sua vita si cimenta su un argomento per lui del tutto nuovo: insofferente per il caotico traffico cittadino, elabora un dossier — pubblicato dal suo giornale — che illustra un metodo rivoluzionario per arginare il fenomeno. Immagina una città a misura d’uomo, con l’obbligo di usare automobili di piccola cilindrata, e lo invia a….Gianni Agnelli.
Muore a Bari il 1° aprile del 1996, in una giornata di pioggia battente.


Piero Virgintino con il nipote Piero.

Francesco Saverio Nisio
P. Virg., cinemoralista (quasi) classico

a Michelangelo Antonioni, cent’anni dalla nascita

La tradizione autentica, quella che guarda avanti

Com’è finito Nisio tra Sordi e Virgintino?» Chi scrive si porta in cuore questa domanda da un po’ di tempo, e certamente da prima di veder l’immagine di copertina del volume. Eccone un’altra versione: come fare per non restar schiacciati dalla convergenza di due talenti, per vie differenti così rilevanti — se ne fosse consapevoli o meno all’epoca, in città — nella formazione culturale d’una generazione, alla chi scrive quale appartiene?
La linea di fuga, quanto a Sordi e alla sua «straordinaria capacità senso ria» nell’avventurarsi «nell’infida galleria di caratteri, seguìto dalla maggior parte degli italiani», viene offerta dallo stesso Virgintino nel magnifico articolo omonimo ripreso nel presente volume (e dal quale sono tratte le citazioni virgolettate che precedono e seguono), quando aggiunge che «c’è anche [fra gli italiani] chi ne è irritato, e non ci vuole molto a capirne il motivo». Bene, egli stava con tutta probabilità pensando a quanti, nello specchio del cinema, cercano non solo la satira «acre» declinata in forma di «commedia umana», bensì pure la poesia (Chaplin) e «impegni di polemica politica» coi mezzi della cinematografia.
Per esemplificare il pensiero corre, per ieri, a Jacques Tati il quale dedicò
al problema del traffico urbano un intero film nel 1971, contemporaneamente politico e poetico, dal titolo appunto Trafic (in italiano, Monsieur Hulot nel caos del traffico), opera che è stata anche fra le fonti d’ispirazione Per lo stesso critico barese quando proporrà, con le proprie armi, quelle della pennae di un Dossier Traffico edito su La Gazzetta del Mezzogiorno all’inizio degli anni Novanta (nel quale definirà, appunto, «impagabile» quel film), soluzioni direttamente rilevanti per la vita pubblica in materia di mobilità cittadina, le quali da meno di dieci anni — con modalità non troppo dissimili da quelle proposte nel dossier — si sono cominciate a sperimentare nella città di Bari, dunque un quindicennio dopo che Virgintino ne aveva pubblicamente teorizzato una formula possibile.
Per oggi, invece, il pensiero corre ancor più veloce a, mettiamo, Benigni, il quale riesce ad offrire un rinnovato e straordinario spaccato dell’«infida galleria di caratteri» nazionali e popolari, andandoli a cercare però direttamente nella poesia dantesca, coi suoi «paradisi» d’amor fedele ma, anche e forse soprattutto, con gli «inferni» di notti di baccanali e meretricio che hanno a lungo gettato discredito sul nostro paese, vedendone coinvolti rappresentanti del potere e della scena pubblica ai massimi livelli, nonché riempito le cronache di quotidiani italiani e stranieri in anni recentissimi.
Ma c’è bisogno d’una linea di fuga anche rispetto allo stesso Virgintino? C’è bisogno di costruire una giustificazione — quale essa sia: intellettuale, etica, professionale — con la quale render conto, a se medesimi prima di tutto, d’un confronto con un uomo dalla dirittura morale inequivocabile e dalle capacità intellettuali ricche e poliedriche, attestate solo in parte minima nel presente volume? Un intellettuale pugliese capace d’una scrittura tersa e percussiva, la quale dava espressione ad un pensiero personale, solitario, critico nonché alieno da «scuole», e in ciò capace di non subire il fascino di mode culturali le quali, negli anni Settanta ad esempio, portavano gruppi intellettuali dislocati in provincia a riconoscersi come école nonostante l’anticipante critica (anticipante anche su alcuni temi del Maggio francese) di sociologi del calibro di Pierre Bourdieu alla logica della violenza simbolica e della reproduction, fondata per l’appunto su «illusioni scolastiche» e oggetto di contestazione, come si accennava, fin nei cortili della Sorbonne.
Ebbene, va detto che sono stati due i «contatti» indiretti che chi scrive, ripercorrendo la propria formazione, ha potuto stabilire col critico cinematografico.
E di essi va reso conto, affrontandoli in una dimensione autobiografica che ben poco ha di soggettivo o personale (questa dimensione è certamente rilevante), bensì si apre ad una riflessione, minima, sulla traditio intellettuale, lo scambio culturale fra le generazioni.
Il primo «contatto» di cui si può dar conto risale alla metà degli anni Settanta: è a quell’epoca che il sottoscritto redasse, nei giorni in cui usciva nelle sale baresi il film di Milos Forman, Qualcuno volò sul nido del cuculo (recensito su La Gazzetta del Mezzogiorno a firma p. virg. l’11 di maggio del 1976) la sua prima (mini)eritica di cinema all’interno d’uno dei quaderni di certi Dialoghi di classe, dando inoltre in coda al testo appuntamento ai condiscepoli per la visione serale del film nella sala cittadina (per lui si in trattava, effetti, della seconda visione del film)!.

È possibile, certamente, che la lettura diretta della recensione del critico barese sul giornale, all’epoca circolante regolarmente nella casa di famiglia, fosse stata all’origine dell’impulso comunicativo di un allora sedicenne critico in erba, anche se va detto che il confronto fra i due testi, si parva licet componere magnis, non lo confermerebbe. Nondimeno, è certo che la eco della critica cinematografica cittadina era, in genere, ben presente in quella classe, non foss’altro perché in essa cresceva (e contribuiva ampiamente alla stesura di quei «mitici» Dialoghi) il figlio del ben noto critico cinematogra- fico cittadino.
Quella lunga frequentazione scolastica fu, e stavolta lo si può affermare con certezza, all’origine del secondo «contatto» di chi scrive con Piero Virgintino, «contatto» che si determinò qualche tempo dopo la sua morte, avvenuta nel 1996. Un certo giorno, il figlio di Virgintino invitò il trascorso compagno di classe a passare con l’automobile dalla casa di famiglia per prender possesso d’un lascito al quale il padre gli aveva domandato di provvedere: egli aveva voluto far arrivare in dono a Francesco Saverio la collezione pressoché completa della rivista Bianco e Nero, fondata alla fine degli anni Trenta da Luigi Chiarini e Umberto Barbaro, rivista legata al Centro Sperimentale di Cinematografia, la quale aveva contribuito in modo decisivo alla crescita della cultura cinematografica del paese (“La gloriosa e più qualificata rivista italiana di studi sul cinema e lo spettacolo”, sono parole dello stesso Virgintino.
(omissis)

Link per il pdf del libro “Piero Virgintino Critico cinematografico

https://www.academia.edu/35634105/2012_F_S_NISIO_a_cura_di_Piero_Virgintino_Critico_Cinematografico

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/home/428221/cinema-la-grande-lezione-di-piero-virgintino.html
Cinema, la grande lezione di Piero Virgintino
BARI – «Lo sceneggiatore è un visionario». Piero Virgintino, giornalista e critico cinematografico della «Gazzetta», rivive nelle pagine di un bellissimo libro fotografico presentato ieri nel foyer del Teatro Petruzzelli (nella foto). Un incontro voluto dai due figli di «Pierino», Nicoletta, e Manuel, proprio nel teatro dove trent’anni fa Alberto Sordi girò «Polvere di Stelle»
19 Gennaio 2013

BARI – «Lo sceneggiatore è un visionario». Piero Virgintino, giornalista e critico cinematografico della Gazzetta, con l’acume felliniano di chi è abituato a osservare la realtà al di là del suo divenire, descriveva così una delle sue grandi passioni, la sceneggiatura appunto. A restituirci la figura dell’uomo e dell’intellettuale è ora il libro Piero Virgintino. Critico cinematografico (Sedit ed., pp. 415, euro 20), a cura di Francesco Saverio Nisio.
Il volume è stato presentato ieri sera, nel foyer del Teatro Petruzzelli, affollato di amici e colleghi del giornalista, tra i quali il direttore della Gazzetta, Giuseppe De Tomaso.
Un incontro voluto dai due figli di Piero, «Pierino» per gli amici, Nicoletta e Manuel, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Bari, proprio lì, nel Petruzzelli, il teatro dove giusto trent’anni fa Alberto Sordi girò il suo Polvere di Stelle (film nel quale Virgintino ebbe un ruolo, come testimonia la bella immagine in prima di copertina).
A ricordare la figura di Virgintino – scomparso il 2 aprile del 1996 -, partendo dalle pagine del volume, insieme al curatore, sono stati i critici cinematografici Lino Patruno e Vito Attolini.
Un uomo d’altri tempi, Piero Virgintino, che per i suoi tempi era però già avanti, basti pensare che agli inizi degli anni Novanta, suggeriva l’uso delle city car per combattere il traffico cittadino.

Francesco Saverio Nisio vive a Bari ed è professore associato di Filosofia del diritto nell’Università di Foggia. Scrive di filosofia, diritto, sociologia & arte cinematografica su riviste italiane e straniere. Ha pubblicato vari volumi nei quali cinema e film sono ben presenti, come pure nella sua attività didattica: La massa del diritto (1994), Comunità dello sguardo. Halbwachs, Sgalambro, Cordero (2001), Jean Carbonnier. Regards sur le droit et le non-droit (2005, in italiano 2002), Manoel de Oliveira. Cinema, parola, politica (2010).
È stato il curatore del volume dedicato al primo critico cinematografico pugliese: Piero Virgintino critico cinematografico (2012). Negli anni, oltre ad aver contribuito alla nascita ed all’affermarsi di manifestazioni regionali di respiro internazionale quali Balafon, Mediterranea, Le voci dell’anima e FilmStage, ha diretto la giuria cortometraggi del Foggia Film Festival (2004-2006) ed ha coordinato stages con Angelopoulos, Gitai, Emmer, de Oliveira, Greenaway.

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