POMPILI BRUNO

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POMPILI BRUNO

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Nato nel 1938 in Romagna, vive a Bari.

Professore di letteratura francese all’Università di Bari, scrittore di libri di saggistica.

Ha insegnato Letteratura Francese all’Università di Bari dedicandosi alla ricerca soprattutto nell’ambito delle Avanguardie e della letteratura del Novecento.

Ha pubblicato libri di saggistica, e a partire dagli anni Novanta alcuni volumi di narrativa e teatro.

Principali pubblicazioni: Pierre Drieu La Rochelle. Progetto e delusione (Ravenna 1969); Breton – Aragon. Problemi del surrealismo (Bari 1972); ha tradotto testi poetici di Jean-Pierre Duprey, DicontrofiguraSoluzione H, seguiti dal saggio Il mito nascente, Duprey (Bari 1974); ha curato l’edizione di P. Borel, Opera polemica, preceduta da Il segno del Licantropo (Bari 1979), e di P. Borel, Critica degli spettacoliFeuilletons du “Commerce” (Pescara 1979). Articoli e saggi su “Studi urbinati”, “Il lettore di provincia”, “Si & No”, “Studi francesi”. Cofondatore e vicedirettore della rivista “Il lettore di provincia”.

Bruno Pompili

15-06-2021

GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO

Gli ultimi volumi di Bruno Pompili, di Raffaele Nigro

 

Bruno Pompili

In meno di due anni, più o meno la durata della pandemia, Bruno Pompili ha pubblicato con Piero Manni, il coraggioso e raffinato editore salentino che ci ha lasciato un anno fa, ben due romanzi.  Nel 2020 è uscito Fratelli lontani, nel 2021 Il sortilegio del sarago.

Prima di entrare nella struttura di questi due romanzi di forte orditura letteraria, mi preme raccontare che di tanto in tanto Bruno Pompili viene a farmi visita per consegnarmi un nuovo lavoro. Quel che so di lui è che si è sempre occupato di letteratura francese, che ha insegnato presso l’università di Bari, con interesse specifico per le avanguardie e per i poeti, Baudelaire, Rimbaud e Verlaine. Tra un saggio e l’altro, anche adesso che ha superato gli ottanta, per essere nato in Romagna nel 1938, Bruno scrive e stampa versi sperimentali e racconti. Li stampa prevalentemente senza inseguire né i lettori né i premi letterari, ma affrontando il corpo a corpo con la critica letteraria. Gli sono sufficienti le poche copie che stampava Ungaretti, il giusto necessario per omaggiare qualche amico. A lui basta scrivere seguendo un’atmosfera metafisica e metaforica.

Lo trovo un aristocratico della scrittura, uno lontano dalla fissa di chi deve piacere ai lettori, lontano dal cosiddetto romanzo medio di qualità individuato da Giancarlo Ferretti. Ovvero quei romanzi scritti con furberia di trama, libri di consumo che occhieggiano al lettore e al popolare. Lui no, è un osso duro, scrive come può piacere prima di tutto a se stesso e nel solco della grande letteratura francese. Scrive in maniera ellittica, appena accennando alle azioni, agli eventi, alla trama e producendo una scrittura che spesso non appare conclusa, ma fumosa e perseguendo la stessa sperimentazione che troviamo in poesia e più raramente in narrativa. Direi che se nel romanzo di consumo i riempitivi sono limitati, qui la fanno da padroni, costringendo l’azione negli angoli del racconto.

Joshua, il protagonista di Fratelli lontani, è un giovane profeta che agisce nell’anno zero in una Palestina invasa dai romani, gira predicando la sua visione della vita e dell’aldilà. Quel che dice lo pone in un pericolo costante.  Sua madre Miriam gli ha raccomandato di non esporsi. La sua donna Tanit è preoccupata. A difenderlo sono i suoi due fratelli. Che non comprendono l’importanza di ciò che Joshua va predicando nel deserto e nei piccoli villaggi. Romanzo nato dalle letture che Bruno Pompili va effettuando sui Vangeli apocrifi, con l’intento di creare un ennesimo apocrifo, come a testimoniare la necessità di essere liberi e scarni nel reinventare la vita di Cristo per inseguire una propria visione della vita. Ma soprattutto per dimostrare che c’è un’orditura del caso o di un’intelligenza superiore che decide per noi, al modo in cui Joshua attraversa l’esistenza muovendosi dietro l’impulso di un Padre che ha deciso per lui.

Stessa ragione narrativa, ovvero, il rapporto tra l’individuo e il caso è nel successivo romanzo, Il sentiero del sarago. Vi si narra la storia di un io narrante che giunge in un’isola non citata, ma forse collocata in Grecia, dove abbastanza velocemente si procurerà amicizie. Il racconto è certamente mutuato da Lo straniero di Camus, ma qui siamo in un’isola di marinai. Il forestiero ha una donna ora gelosa ora più distaccata, Theanò che lo raggiunge nella pensione della signora Dempardis, in questa strana isola dove l’uomo acquisisce un inatteso amico, un pescatore, Teodoro sulla cui barca esce in mare aperto, per pescare saraghi.  Proprio in un giorno in cui viene trovato il cadavere di uno sconosciuto sulla spiaggia e Teodoro pesca due botti pesanti in mare, i “saraghi di ferro”, come li chiama il pescatore. A questo punto entra in gioco Mavras, un armatore che si rivelerà il vero sarago del romanzo, nel senso che si tratta del manovratore di tutte le vicende, un soggetto che muove le pedine dei misfatti che si verificano sull’isola allo scopo di arricchirsi illecitamente. Accanto a lui c’è sua moglie Marina, una donna dal comportamento misterioso, al pari di quello di Theanò, Marina di cui l’io narrante sembra invaghito, ma che si allontanerà da lui come la precedente. Intanto si verifica un secondo ritrovamento di cadavere in un acquitrino che dà verso il mare. Lo straniero, come estraneo all’isola viene sottoposto a interrogatori preventivi. Se intende lasciare il borgo avverta la polizia. Troppe chiacchiere su di lui, ma nulla di vero. Gli interrogatori condotti dal tenente Ioannis non approderanno da nessuna parte.

L’io narrante si troverà comunque invischiato nei traffici loschi di Mavros, al modo in cui lo sarà padre Anthimos, un monaco dalla vita cristallina. Come nel romanzo di Camus, dunque, Pompili dimostra che a nostra insaputa possiamo trovarci invischiati nella ragnatela tessuta da altri e impossibilitati a liberarci. Il caso ci domina e la nostra esistenza è una lotta disperata per sganciarci dalle catene che ci vengono gettate addosso.

Una linea grosso modo kafkiana mi pare tengano anche i molti racconti editi con la sigla “Impropria edip20”, dati alla stampa in un numero eccessivamente limitato, appena 25 esemplari, per gli amici, su carta pregiata, come si fa con le tirature di bottega e i torchi a mano. È il numero dei lettori manzoniani. E il carattere esistenziale lo cogli benissimo nel nosocomio che fa a pugni con il nome beneaugurante del vino ne Il lebbrosario di Malvasia oppure nei racconti sartriani de Il frammento intermittente e L’insonnia di Cassandra.

Raffaele Nigro (2021)

maggio 31, 2021

IL SENTIERO DEL SARAGO DI BRUNO POMPILI. INTERVISTA ALL’ AUTORE

di Laura Bonelli

 

Un romanzo originale ambientato in una quieta isola del Mediterraneo, dove la natura verdeggia pacata facendo pensare a un territorio colmo di serenità e meditazione. È solo apparenza, perché nella realtà dei fatti quel luogo contemplativo pullula di strane morti e gli affari degli abitanti sono come valigie a doppio fondo.

Il sentiero del sarago di Bruno Pompili (Manni Editore) si dipana tra metafora e realtà, in un mondo dal quale non si può o non si vuole trovare una via d’uscita.

Bruno Pompili è nato nel 1938 in Romagna e vive a Bari.

Ha insegnato Letteratura Francese all’Università di Bari dedicandosi alla ricerca soprattutto nell’ambito delle Avanguardie e della letteratura del Novecento.

Ha pubblicato libri di saggistica, e a partire dagli anni Novanta alcuni volumi di narrativa e teatro.

Ha una piccola casa editrice che definisce un divertissement tipo-editoriale la Edizione Impropria, che produce plaquette in 25 esemplari, fuori commercio, stampate una per una in casa.

 

Come è nata l’idea di questa storia e la sua ambientazione?

 

In ogni storia c’è una molla banale, occasionale, e una parte più sedimentata che uno pensa sempre di poter raccontare, una volta o l’altra. In un’isola del Mediterraneo orientale, la molla: i signori Mavros (in italiano: Nero) esistevano, persone di una gentilezza assoluta, che non assomigliano in nulla ai miei personaggi: mi piaceva il gioco nascosto nel loro cognome, che può diventare “rosa di maggio”. L’ambientazione è reale, è l’isola dove passo qualche settimana ogni anno. Per il resto solo vaghe rassomiglianze, ma il pescatore che sta sotto il nome di Teodoro è stato un grande amico. Il resto sono fantasie così (come scriveva Dino Campana). Ma quelle persone e altri, pur di contorno, sono scomparsi quasi tutti.

 

C’è un contrasto tra il lento scorrere della vita su un’isola, la serie di morti che si succedono e il cercarsi senza mai trovarsi davvero del protagonista…

 

Un’isola è microcosmo, una metafora del pianeta, che ti fa vivere dimensioni spazio-temporali vincolanti. Ci sei e non ci sei; sogni un altrove e invece già ci sei; andarsene è evadere, e anche la prigionia è un legame ambiguo. Il protagonista (solo a fine stesura mi sono accorto che non aveva un nome) potrebbe essere definito un naufrago che per gratitudine, o precedenti cupi, non vuole o non può più andarsene. Ogni giorno ricomincia il calcolo della vita finita e da ricominciare. Il “pallino del gioco” gira vorticosamente e il protagonismo sembra un inganno complicato. I morti, le nere storie che si dipanano, sembrerebbero solo una tela di fondo per proiettarvi qualche delinquente: ingenuo, filosofico, truffatore internazionale, o pedine che sopravvivono. Poi gli altri: quelli più sopportabili. Pochi.

Che ruolo hanno le donne in questo romanzo?

In tutte le mie narrazioni le donne sono sempre “il meglio possibile”. Sempre perdonate, sempre perdonabili. Sempre bellissime e coinvolgenti, indipendentemente dalle grazie e dalle armonie o dalle disarmonie: sono la musica nella rappresentazione. Quando d’improvviso mi è saltata la mano e lo scrivere ha fatto morire Theanò senza preavviso, ci sono rimasto molto male. Non poteva allora sopravvivere neanche la sua rivale, che però si è esaurita lentamente uscendo di scena e dai desideri, ma non dalla memoria. Nella loro riservata o dinamica attività sono protagoniste, e gli uomini piuttosto le subiscono, e bestemmiano la fatalità delle perdite.

 

Il protagonista sembra quasi un novello Ulisse che approda all’Isola di Circe, senza riuscire a fuggire. Ci sono dei rimandi?

 

No. Altrove ho scritto di Ulisse, e ci fa sempre delle bruttissime figure; ho pubblicato una vita di Penelope, straordinaria regina di Itaca (Lo sguardo e il velo, Carabba Editore, 2011), di nuovo “il meglio possibile”. E un racconto dove Circe e Calipso si trovano a parlare piuttosto male di Lui; sì Ulisse mi è sempre sembrato sopravvalutato, ma la grande scrittura batte la piccola: i simboli però possono essere revisionati; sovente cerco di farlo. Del Sentiero del sarago tengo a ricordare, con qualche frammento soddisfacente (scusate l’autore), soprattutto l’ultima frase: «Il posto più piccolo del mondo è il mondo», e anche il titolo dell’ultimo capitoletto: «Il viaggio ripetuto è una immobilità».

 

Bruno Pompili

 

Il libro si apre con una citazione di Hercule Poirot: Le trame sono tutte uguali, la psicologia è diversa. Come mai l’ha scelta?

Mi è capitato di sentirgliela dire in un film e l’ho adottata, perché assomiglia tanto a una mia idea fissa: le trame proliferano e sono più che infinite, una vera invasione di varianti (ossessive e identiche, soprattutto in cinema e TV); inutile dunque competere con gli sceneggiatori del globo; ciò che conta è inventare scrittura; e temo che ciò sia di una rarità e di una fatica ancora da misurare; qualche esempio qua e là, sì: pallido.

E siccome le idee fisse non vanno mai da sole, ce n’è un’altra che l’accompagna strettamente: «Non si scrivono più romanzi ma piuttosto sceneggiature». Un bel problema a cui non so porre rimedio, né potrei.

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