FENICIA FAMIGLIA

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FENICIA FAMIGLIA

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Le notizie più antiche relative alla famiglia Fenicia risalgono al 1299, come riferisce lo storico amalfitano Matteo Camera. Quelle più recenti fanno riferimento all’ultimogenito di Antonio ossia Mario agronomo (1922-2002),infervorato “raccoglitore” delle memorie di famiglia “senza il cui costante e pertinace impegno non sarebbe stato possibile ricostruire le vicende riportate in queste pagine”.

Come riferisce lo storico amalfitano Matteo Camera, le notizie più antiche relative alla famiglia Fenicia risalgono al 1299, quando i nomi di Giovanni Fenicia e di suo figlio Nicola compaiono in una pergamena della città di Ravello. All’epoca, secondo altra fonte in verità meno attendibile, i Fenicia apparirebbero saldamente inseriti nella società di una Ravello economicamente ancora attiva, dove avrebbero costruito la propria fortuna dedicandosi a remunerative attività mercantili e creditizie. La stessa cittadina ospita un Manetto Fenicia nel 1364 e, a fine XIV secolo, i figli di Bardo Fenicia, Cubone e Giovanni. Quest’ultimo, votatosi al sacerdozio, sarà primicerio della cattedrale ravellese nel 1415.
Ma è dall’inizio del XV secolo che le notizie sulla famiglia assumono maggiore continuità. Due i rami famigliari individuati dal Camera ai primi del ‘400, con capostipiti i fratelli Vincenzo e Giacomo; la discendenza di un terzo fratello, Marino, sposato con l’amalfitana Pentella de Vivo, si sarebbe invece fermata alla prima generazione.
Il matrimonio di Vincenzo con Gilembra de Griffo fu confortato dalla nascita di sei figli maschi. Uno di questi, Simeone, sarà arcidiacono e vicario generale della diocesi di Ravello e fondatore, nel duomo cittadino, della cappella gentilizia dedicata a S. Maria delle Grazie. Abbraccerà la carriera religiosa anche un secondo figlio, il presbitero Mazzeo, mentre Adamello, Alfonso, Luise e Giovannello daranno origine ad altrettanti prolifici rami, instaurando legami parentali con molte notabili famiglie ravellesi e, più in generale, della costiera amalfitana: Frezza, Afflitto, Cortese, de Signorellis, de Massimo, Campanile, de Lieto, de Monte, Coppola, Sabbatino, Gattola, Pitti, Russo, Del Giudice, Staibone, ecc. A inizio ‘500, un discendente di Adamello, Pietro Giacomo, fu capitano nell’esercito napoletano di Carlo V. Il fratello Gio: Pietro, “dottore in ambo le leggi” (civile ed ecclesiastica), si trasferì a Napoli dove contrasse matrimonio prima con Laura Severino e poi con Giustina de Avitabile che gli diede sei figli. Tra questi Paolo, dottore in legge, che avrebbe sposato Eleonora Sylos, di Bitonto, dando origine a un ramo famigliare – oggi estinto e di cui restano memorie confuse e disordinate – nella cittadina pugliese; e Carlo, che nel 1589 fu chiamato a ricoprire l’ufficio di magistrato del Sacro Regio Consiglio, una delle maggiori cariche istituzionali napoletane. La reputazione di cui godettero Gio: Pietro e i suoi figli nella capitale partenopea gli valsero, il 4 luglio 1582, l’aggregazione al sedile di nobiltà ravellese. A ulteriore conferma del generale apprezzamento di cui godeva la famiglia, nel 1560 un cugino di Carlo, Gio: Antonio, notaio, aveva assunto la carica di sindaco di Ravello.
Giacomo Fenicia aveva invece sposato Giovanna de Sergio di Sanseverino e generato tre figli: Fabiano, che sarà primicerio del Capitolo di Ravello, Adesso e Agostino. Quest’ultimo abbandonò presto la professione di notaio per quella delle armi, servendo sotto Alfonso I d’Aragona e da questi, per meriti acquisiti, nel 1453 venne investito del titolo di signore delle terre di Montano e Massicelle in Principato Citra. Agostino Fenicia fu tumulato a Napoli, nella chiesa dei frati minori in S. Maria la Nova, dove una lapide ne tramanda memoria. Un figlio di Agostino, Pantaleo, ricoprì la carica di giudice a Ravello. Nella estesa discendenza di Adesso si segnala invece Luise Antonio che, dopo aver accumulato un discreto patrimonio a seguito di investimenti urbani e rurali, nel 1586 prese dimora a Napoli insieme alla moglie Giuditta Sannino, originaria di Torre del Greco, e ai loro otto figli. Tra questi Agostino, che si avvierà alla carriera notarile, Giuseppe, che sarà sacerdote e canonico nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli, e Giulio Cesare. Quest’ultimo, nato a Ravello nel 1573, nonostante una rovinosa passione per il gioco delle carte, fu un rinomato “dottore in ambo le leggi” del foro napoletano, e le sue qualità gli valsero l’affidamento di numerosi e delicati incarichi governativi di varia natura che lo portarono a percorrere una parte consistente del Mezzogiorno continentale. Così, tra 1597 e 1627 fu inviato ad assumere informazioni su disordini avvenuti nei territori di Sacco, S. Pietro in Galatina, Putignano, Sternatia, Gravina, Carpignano, Minervino, Acerenza; a risolvere questioni e contenziosi locali a Castellaneta, Gesualdo, Terlizzi, Laterza, Rocca Imperiale e Cassano; a perseguire malfattori a Taranto, Craco e Martina. Nel frattempo, ricoprì le funzioni di governatore a Castellaneta (1601), Genzano (1607), S. Arcangelo (1618), Polistena (1620), S. Giorgio (1620), Corato (1623), Ceglie (1624), Ruvo di Puglia (1625), Ariano (1627 e 1629); di consultore delle terre di Oppido e Pietragalla (1607); di assessore a Francavilla (1617); di uditore generale delle cause civili, criminali e miste dipendenti da materia di guerra (1617); di uditore a Ruvo di Puglia (1623).
Fu in occasione del suo soggiorno a Ruvo che Giulio Cesare ebbe modo di conoscere Giulia Ciani – figlia di Luca e di Ippolita Pepe, e già vedova di Paolo Buonanni – che sposò il 31 gennaio 1627 e morta dopo soli quattro anni di matrimonio. Fu quindi a Ruvo che Giulio Cesare stabilì la propria residenza, e fu qui che passò a miglior vita, settuagenario, l’11 settembre 1644, lasciando un unico figlio, Carlo. Fu sepolto in S. Michele Arcangelo, accanto alla moglie, nella cappella allora intitolata a S. Maria di Costantinopoli. A detta del Camera, il ramo ruvese sarebbe l’unico sopravvissuto alle vicissitudini del tempo, che avrebbero estinto i rami trapiantati a Salerno, Cerreto, Gragnano e Napoli. Tra quelle, la devastante peste del 1656 che spense anche l’esistenza di Stefano Fenicia e dei suoi quattro figli, all’epoca rimasti gli unici esponenti della famiglia nella originaria Ravello.
Carlo Fenicia nacque a Ruvo di Puglia il 27 agosto 1629 e, seguendo le tradizioni di famiglia, si laureò in “ambo le leggi” nel 1645, a soli 16 anni. Aprì il suo studio a Napoli, presso lo zio Alessandro che, nel 1647, lo lasciò erede di tutti i propri beni. Fu invece diseredato dallo zio Agostino che, persi moglie e figlio nella peste del 1656, e indispettito delle scelte di vita del fratello Giulio Cesare che aveva giurato fedeltà alla corona spagnola, preferì lasciare i suoi beni – si dice all’epoca valutati in oltre 100.000 ducati – alla chiesa della Pietà dei Turchini di Napoli, dove fu sepolto. Nel 1652 Carlo sposò la ruvese Anna Bonadies, che gli portò in dote la casa di strada Scarperia e da cui ebbe cinque figli. Ricoprì incarichi amministrativi a Cerignola (1654) e Lavello (1655), e nel 1668 fu accolto nel ceto nobiliare ruvese. Morì l’11 marzo del 1681. La discendenza famigliare fu quindi affidata ad Antonio Alessandro, nato nel 1660, che a 13 anni fu inviato a Napoli per proseguire gli studi, poi completati con la laurea in legge. Fu autore di un quaderno di memorie famigliari, intitolato Lucerne della famiglia Fenicia. Il 29 giugno del 1707 sposò Isabella Sellitti, di Palo del Colle, figlia di Giuseppe e di Emilia Incuria, da cui ebbe sette figli. Prossimo alla morte, nel 1727 volle assicurare la conservazione del patrimonio famigliare con l’istituzione di un maggiorascato.
Tra i figli di Antonio Alessandro, ricordiamo Carlo, al quale il matrimonio (1734) con Silvia Tupputi di Bisceglie non concesse alcuna prole. Ebbe fama di persona ambiziosa ed eccessivamente parsimoniosa, e sembra che la morte lo abbia colto mentre era in trattative per l’acquisto della contea di Conversano. Il fratello Francesco Saverio fu primicerio e vicario capitolare della Cattedrale di Ruvo; Giulio Cesare fu canonico della stessa cattedrale; Domenico, monaco dei Padri Conventuali, ebbe una vita avventurosa in Oriente, dove predicò e convertì per molti anni. Tra l’altro, negli anni ’40 i fratelli Fenicia contribuirono finanziariamente alla riedificazione della chiesa di S. Michele Arcangelo, ottenendo in concessione la cappella dedicata alla Immacolata Concezione, e nel 1751 l’allora vescovo di Ruvo, monsignor Giulio De Turris, accordò loro la prerogativa di dotarsi di un oratorio privato. Ancora una volta, la continuità del casato era affidata a un unico discendente, Salvatore, nato il 20 gennaio 1726, che poté beneficiare del maggiorascato istituito dal padre.
Di Salvatore si conservano poche notizie. Poco incline agli studi, nel 1761[?] sposò Teodora Codignac, di Corato, figlia di Michele e Giuditta Candida, e ne ebbe tre figli: Isabella, Angela e Michele, nato il 1° aprile 1764[?]. Quest’ultimo godrà direttamente degli effetti economici di un secondo maggiorascato, istituito dallo zio Giulio Cesare nel 1777, e sarà destinatario dei beni di un altro zio, Carlo, e di sua moglie Silvia Tupputi. Di umore allegro e socievole, amante della musica e del gioco degli scacchi, Michele risultava molto benvoluto nella comunità ruvese. Ma, con l’avanzare degli anni cadde in un profondo abbattimento che lo portò a confinarsi per interi mesi nella sua stanza. Trascorse la maggior parte della vita in una proprietà di Bisceglie, dove trovava sollievo alle proprie inquietudini, insieme alla moglie Anna Maria Siciliani, di Giovinazzo, figlia di Giovanni Maria e di Teresa Regna, sposata il 26 giugno 1791. Il matrimonio fu allietato dalla nascita di sette figli. Tra di loro ricordiamo l’irrequieto Antonio (1803-1889): educato nel Seminario di Bisceglie, negli anni successivi fu a Napoli, dove condusse vita allegra e galante, facendo sfoggio di carrozze e cavalli, per poi ritirarsi a Ruvo e avviare la costruzione di un palazzo con affaccio sull’odierno corso Carafa, la cui realizzazione affidò all’architetto Corrado De Judicibus. Il suo matrimonio con Luisetta Jatta, di Giulio e Giulia Viesti, finì ancor prima di nascere poiché la sera precedente Antonio accusò un malessere e chiese il rinvio della celebrazione suscitando l’indignazione dei genitori di Luisetta che annullarono ogni impegno. Un secondo matrimonio, con Rosa Pascazio di Mola, si concluse dopo appena un mese. Alla morte di Antonio, nel 1889, i suoi beni furono suddivisi tra gli aventi diritto dei tre superstiti rami famigliari dei fratelli Salvatore (al figlio Michele andò il palazzo di via Carafa), Giovanni e Teodora (che aveva sposato Vito Domenico Capano di Corato). Il fratello Giovanni, trasferitosi a Giovinazzo dopo il matrimonio con Teresa d’Agostino (1816), morirà per le conseguenze di una caduta da un palmento in costruzione. Ma è a Salvatore che va dedicata maggiore attenzione.
Salvatore Fenicia nacque a Ruvo il 28 giugno 1793. Fu educato in tenera età da un padre cappuccino di Ruvo per poi completare gli studi nel Seminario di Lucera. Nel 1816 si recò a Napoli per rivendicare alcuni crediti famigliari, accompagnato dall’amico Giuseppe Saverio Poli che nell’occasione lo presentò a Ferdinando I di Borbone e al figlio, il futuro Francesco I, di cui l’eclettico studioso molfettese era stato istitutore. Ritiratosi a Ruvo, il 20 aprile 1820 Salvatore sposò la ventiduenne Saveria Azzariti, di Corato, figlia di Gaetano e Angela Codignac. Ma, trattandosi di una sia pur lontana parente, fu prima necessario ottenere il rilascio della relativa dispensa papale. Tra i beni dotali di Saveria, l’estesa proprietà della masseria Lagacchione, in agro coratino; Salvatore, privato del maggiorascato dalla legge napoleonica del 15 marzo 1807 che aboliva l’istituto del fedecommesso, ottenne dal padre un anticipo di 20.000 ducati sui beni della successione e, nel 1826, la donazione della nuda proprietà del palazzo di famiglia in strada Scarperia, il cui usufrutto restava ai genitori. Michele e Anna Maria Siciliani morirono qualche anno dopo, nel 1830, a pochi mesi di distanza l’una dall’altro, lasciando un patrimonio all’epoca valutato in circa 60.000 ducati.
Fin dalla giovane età, Salvatore ricoprì incarichi amministrativi: sindaco di Ruvo (1818), carica a cui rinunciò nel periodo dei moti insurrezionali del 1820 ma che tornò a ricoprire al loro termine, fino al completamento del triennio del mandato; regio procuratore presso la Commissione diocesana di Ruvo (1832); presidente della Commissione di pubblica igiene (1835); consigliere provinciale di Bari (1837); consigliere e poi presidente, dal 1840 al 1870, della Commissione dei regi scavi di Ruvo; corrispondente della Società economica di Bari (1848) di Capitanata (1859), di Abruzzo Ultra (1864) e di Terra di Lavoro (1865). Fu socio di accademie (Zelanti, Peloritana, Quiriti, Universale di Parigi, Scuola Italica, Aspiranti Naturalisti, Euteleti, Intrepidi, Virgiliana) e di istituzioni italiane (Arcadia, Pellegrini affaticati, Istituto archeologico germanico) ed estere (Istituto storico di Londra, Filotecnico Internazionale di Parigi, Società libera di emulazione di Provenza), insignito di onorificenze cavalleresche (croci di cavaliere degli ordini Costantiniano, di Malta, del S. Sepolcro, Mauriziano, della Redenzione, di Alessandro e del Merito) e di altri riconoscimenti (Patriziato della Repubblica di San Marino, Commendatore dell’Ordine del Merito del Lion di Molstein-Limbourg, Gran Commendatore dell’Ordine della Redenzione, Commendatore dell’ordine di Iftikhar di Tunisi, socio onorario dell’Istituto Bandiera per la promozione della vaccinazione, vice presidente onorario della Società degli istitutori di Marsiglia). In segno di considerazione, e ricambiando il dono di un vaso di scavo oggi conservato nel Museo archeologico di Napoli, nel 1859 Francesco II di Borbone gli fece recapitare una tabacchiera d’oro, con quattro diamanti ai lati e la lettera F al centro.
È anche bene spendere qualche parola sulla vasta ed eterogenea produzione letteraria di Salvatore Fenicia, i cui interessi spaziavano dall’economia ai componimenti lirici e alle opere teatrali, ma sempre con uno sguardo puntato su contenuti morali e civili. Ad essi si affiancavano studi di archeologia e di varia scienza. Di essi diamo conto più avanti, in modo peraltro non esaustivo e senza esprimere giudizi sulla qualità delle opere, ma dovendo doverosamente ricordare che queste furono a suo tempo oggetto dell’aspra critica del bibliografo ed erudito fiorentino Giuseppe Fumagalli. Ad essa fa da contraltare l’articolo Il gran filantropo, marcatamente agiografico ed estratto da una raccolta di non meglio individuati “Giornali del 1867”, in cui si sostiene che Salvatore, definito “il più grande filosofo dei nostri tempi”, avrebbe rifiutato diversi incarichi pubblici, tra cui quello di Ministro dell’istruzione, e che le sue opere sarebbero state tradotte in diverse lingue, tra cui l’edizione di New York appare “la più completa e magnifica”. Vero è, in ogni caso, che egli aveva l’abitudine di divulgare i suoi scritti inviandone copia ai personaggi più in vista; tra i destinatari anche Giuseppe Garibaldi, nella cui biblioteca si conservano tutt’oggi alcune sue opere con dedica a margine.

SCRITTI (Leggi anche)

Scritti di economia politica
– Considerazioni sul secolo decimonono, Napoli, Tipografia Trombetta, 1841.
– Discorso sull’economia politico-agraria, che più convenga allo stato presente de’ popoli, Bari, Tipografia Fratelli Cannone, 1847.
– Poche parole del Presidente Fenicia alle auguste camere del Regno delle Due Sicilie, Bari, Tipografia Fratelli Cannone, 1848.
– Della politica, 12 voll., Bari, 1860-1869.
Componimenti lirici
– Ode anacreontica sulla Ruvo appula, Bari, Fratelli Cannone, 1836.
– Canto sopra Venezia, Bari, Tipografia Fratelli Cannone, 1847.
– Componimenti scritti per chiarire taluni punti oscuri della fisica arcana, Napoli, Stamperia di Salvatore Piscopo, 1856.
– Cantica con comenti sul principio e scopi dell’inclito Ordine Gerosolimitano di S. Giovanni, nonché di tutti gli altri ordini cavallereschi del grande orbe cattolico, Napoli, Tipografia Perrotti, 1859.
– L’oracolo d’Esculapio d’Epidauro sulla lebbra d’Italia, Napoli, Stamperia Piscopo, 1861.
– Il sogno, Napoli, Stamperia Piscopo, 1862.
– Cantica sulle grandezze d’Italia, Napoli, Tipografia Agrelli, 1864.
– L’avviso di Dio il quale romba e romberà sulla coscienza di tutt’i popoli del mondo, Napoli, Stabilimento tipografico del cav. G. Nobile, 1865.
– Inno alla serenissima repubblica di San Marino, Napoli, Tipografia Agrelli, 1865.
– La voce della natura parafrasata nel linguaggio filosofico-sentenzioso-ameno della musa Italia, Napoli, Tipografia Agrelli, 1865.
– Canto intitolato a tutte le donne virtuose dell’Universo, Napoli, Tipografia Agrelli, 1866.
– La Morte è premio ai buoni castigo ai tristi, Napoli, Tipografia Agrelli, 1866.
– Canto scientifico morale sul congegnato dell’atmosfera della terra, Bari, Tipografia Cannone, 1867.
Opere teatrali
– La morte del Duca d’Enghien, tragedia in 5 atti, s.l., s.d.
– La tutela di Amavan, tragedia in 5 atti, Bari, Sante Cannone e figli, 1840.
– Il seppellimento d’Ettore, tragedia in 5 atti, Bari, Tipografia Sante Cannone, 1842.
Scritti di archeologia
– Memoria archeologica sopra li dodeci primi vasi scelti della collezione delle anticaglie de’ signori Jatta, Napoli, Stamperia di Salvatore Piscopo, 1854.
– Il ratto di Proserpina. Dissertazione archeologica, Napoli, Stamperia Piscopo, 1854.
– Diana la gatta. Memoria archeologica, Bari, Tipografia de’ fratelli Giovanni e Domenico Cannone, 1857[?].
Studi (pseudo) scientifici
– Dissertazione sul cholera morbus, Bari Fratelli Cannone, 1837 (secondo alcuni, avrebbe anticipato gli studi di Louis-Daniel Beauperthuy sulla trasmissione del colera e di altre malattie infettive).
– Memoria scientifica sulla massima cagion fisica onde ne avvenga che le piante indigene della zona torrida non attecchiscano e propaghinsi sotto le zone fredde, e viceversa le polari; che le marine non si riproducano ne’ letti de’ fiumi e de’ laghi; e che le vegetanti ne’ pantani non allignino fuori dell’acqua, comecché venisser introdotte in luoghi acquidosi, Bari, Tipografia Fratelli Cannone, 1846.
– Risponso al quesito del sig. Giulio Petroni, segretario perpetuo della Real Società Economica di Bari, sulle malattie delle viti e degli olivi, Napoli, Salvatore Piscopo, 1854.
– Dissertazione sul tifo colerico, Napoli, Stamperia di Salvatore Piscopo, 1855.
– Cenni sul vortice di Cariddi, Napoli, Stamperia di Salvatore Piscopo, 1857.
Studi storici
– Monografia di Ruvo di Magna Grecia, Napoli, Stamperia di Salvatore Piscopo, 1857.
– Sulle metamorfosi di Taranto e sulle cause delle sue singolari produzioni di terra e di mare. Congetturazioni, Napoli, Stabilimento Tipografico Perrotti, 1858.
Varia
– Collezione, 10 voll. manoscritti (edito il solo vol. 3, nel 1839, per i tipi dei Fratelli Cannone di Bari). Miscellanea contenente opere di prosa e di poesia e copia di lettere a persone e istituzioni.
– Il giorno 30 maggio 1838. Meditazioni filosofico-morali, manoscritto.
– La Sacra milizia del Santissimo Salvatore o di S. Brigida di Svezia, Napoli, Tipografia Agrelli, 1862.

Salvatore morì il 14 aprile 1870, lasciando sei figlie e un unico successore maschio, Michele, nel 1851 già destinatario dell’eredità materna.
Michele Fenicia, nato a Ruvo il 26 aprile 1832, si troverà a gestire – con successo – una considerevole fortuna, costituita da terreni e fabbricati sparsi tra la sua cittadina natale, Corato e Terlizzi. L’educazione di Michele seguì le orme paterne: un istitutore privato nell’infanzia, il sacerdote Fedele Mastrorilli, e poi le Scuole Pie dei Padri Scolopi in S. Domenico di Ruvo; nel 1845 continuò gli studi nel Seminario di Bari, prima di retorica, poi di lettere, latino e poesia, e infine di filosofia. Rientrato a Ruvo nel 1848, tornò a studiare diritto naturale e fisica nelle locali Scuole Pie, e poi diritto romano a Trani. Trasferitosi a Napoli nel 1852, per sua stessa ammissione condusse vita oziosa per quattro anni, ma dedicò i due successivi allo studio di filosofia, estetica, francese, inglese, diritto civile e storia del diritto. Tornato a Ruvo, nel 1859 contrasse matrimonio con Anna Cappelluti, di Antonio e Angiolina Jatta di Molfetta, da cui avrà Saveria, Salvatore (1864), Angelina e Antonio (1868). L’anno successivo gli fu comunicata la nomina a sindaco di Ruvo, ruolo che ricoprì provvisoriamente per quattro mesi, in attesa che venisse recepita la sua decisione di rinunziare all’incarico. Morirà, quasi cieco, il 17 giugno 1913, seguito tre anni dopo dalla consorte Anna. Di lui e della moglie si ricordano le riservate opere di beneficenza testimoniate dalla Congregazione di Carità di Ruvo. A Michele, e al figlio Salvatore, si deve la stesura del Giornale della famiglia Fenicia, da cui sono tratte gran parte delle informazioni qui riportate.
I consistenti beni di Michele furono divisi in parti eguali tra i due figli maschi: a Salvatore spettò il palazzo di corso Carafa e la masseria Lagacchione, e ad Antonio l’antico “casino” di Gigliano, posto sulla via di Bisceglie, che Michele aveva ristrutturato e ampliato tra 1867 e 1880, dotandolo di una cappella pubblica e facendone la dimora estiva della famiglia. A Salvatore andò anche la piccola ma preziosa raccolta di oggetti di scavo messa insieme dall’omonimo nonno, così come questi aveva disposto in testamento. La collezione fu poi ceduta ai Lagioia e da questi al museo archeologico di Milano. E se in queste poche pagine non abbiamo mai fatto cenno alle donne della famiglia Fenicia, ma solo perché destinate a mutare cognome per matrimonio o perché indirizzate alla vita religiosa, è qui il caso di richiamare la figura di Angelina, all’anagrafe Angela Maria Andrea (1870-1948), che nel 1929 utilizzò l’eredità paterna per fondare, a Ruvo, l’Istituto salesiano Sacro Cuore Figlie di Maria Ausiliatrice, dove trascorse il resto della vita occupando una minuscola stanzetta al piano terra. Informato allo spirito educativo di Don Bosco, l’Istituto, oggi scuola primaria, avviò immediatamente una scuola professionale femminile di taglio e cucito, ricamo, maglieria; un doposcuola e scuola per le analfabete; un oratorio festivo e corsi di catechismo.
Dei due figli maschi di Michele, Salvatore sposò Lucia Sylos Labini e nel 1921 acquistò casa a Roma, dove si trasferì insieme alla moglie e ai loro dieci figli, otto femmine e due maschi; la sua discendenza può dirsi oggi estinta, non essendo sopravvissuta una progenie maschile. Antonio contrasse invece matrimonio con Giulia Nitti Valentini, da cui ebbe sette figli. Anch’egli ricoprì incarichi nella pubblica amministrazione ruvese, come consigliere, assessore e prosindaco, contribuendo alla concretizzazione di importanti iniziative pubbliche, tra cui opere idriche, stradali e la costruzione del nuovo cimitero; nell’occasione commissionò la realizzazione della propria cappella gentilizia, edificata in stile gotico su progetto dell’architetto Ettore Bernich. Dal 1909 al 1924 fu consigliere provinciale e componente delle commissioni di bilancio, di statistica e di beneficenza. In riconoscimento dell’opera svolta a favore degli orfani di guerra, nel 1925 gli fu attribuito il titolo onorifico di Commendatore della Corona d’Italia. Intanto, preoccupato per le sollevazioni popolari che agitavano l’Italia postbellica, all’inizio degli anni ’20 Antonio aveva ceduto parte delle proprietà terriere per trasferirsi a Bari, al primo piano del palazzo di via Calefati 7, dove morì nel 1934. La sua fortuna venne divisa tra i cinque figli maschi: Michele, Mattia, Salvatore, Nicola e Mario; ad Anna e Angela, come da tradizione, la dote matrimoniale.
Tra i figli di Antonio, è doveroso ricordare l’ultimogenito, Mario (1922-2002), agronomo, infervorato “raccoglitore” delle memorie di famiglia, senza il cui costante e pertinace impegno non sarebbe stato possibile ricostruire le vicende riportate in queste pagine; tra l’altro, la moglie Maria Catalano, restauratrice di opere d’arte, di origini ruvesi, fu insignita del titolo di cavaliere in riconoscimento della volontaria e disinteressata opera di recupero dei beni danneggiati dal terremoto irpino del 1980. Il maggiore dei figli maschi, Michele (1903-1952), dopo la laurea in medicina nell’Università di Bologna, si era perfezionato in malattie polmonari nel sanatorio svizzero di Davos per poi conseguire la libera docenza e divenire assistente, a Napoli, del virologo Giuseppe Zagari e poi di Luigi Condorelli quando questi, nel 1935, si trasferì all’Università di Bari come docente di Patologia medica. Al termine del secondo conflitto mondiale, vissuto come capitano medico dell’Ospedale militare di Bari, si dedicò prevalentemente all’esercizio della professione, vissuta con riconosciuta competenza e abnegazione, come testimoniò anche il prof. Virgilio Chini nell’elogio funebre pubblicato nel 1952 dalla Società medico-chirurgica di Bari: Michele era morto all’età di 48 anni, lasciando la moglie Giuseppina Angelastri e tre figli. Tra i suoi beni figurava quel “casino” di Gigliano, già a fine ‘800 divenuto una bellissima villa, il cui splendore è oggi esaltato dalla rifinita opera di restauro compiuta dal figlio Antonio, che l’ha poi destinata a elegante sala ricevimenti.
Oltre ad Antonio, la linea famigliare maschile, suddivisa tra Bari, Napoli e Roma, si compone, oggi, dei cugini Vito, Antonio (di Mario) e Giulio. Ma la conservazione del casato è affidata all’ultima generazione, a cui appartengono Adriano, Salvatore, Fabrizio con il figlio Gustavo, Giuseppe con Antonio e Nicola con Eduardo.

Guido Fenicia

Stemma moderno

Salvatore Fenicia (1793 – 1864 )

Michele Fenicia (1832-1913)

Palazzo Fenicia in corso Carafa

Villa Gigliano

Villa Gigliano – Sala a piano terra

Aggiornamento della scheda “Famiglia FENICIA” di “Puglia d’Oro” di Renato Angiolillo  Vol.  I 1°ed.  1936, Laterza & Polo pag. 36 e della ristampa dei tre volumi curata dalla Fondazione Carlo Valente onlus, edizione Giuseppe Laterza, Prima edizione Marzo 2008, Prima Ristampa Novembre 2018, pag. 52. (Vedi prima edizione)

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