DELL’ANDRO RENATO

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DELL’ANDRO RENATO

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Magistrato, Docente di Diritto Penale, Sottosegretario di Stato, Parlamentare per diverse Legislature, Parlamentare europeo, Giudice della Corte Costituzionale.

Renato Dell’Andro nacque a Bari il 31 luglio 1922, ultimo di tre figli di Vincenzo, perito industriale, e Bianca Della Spina, maestra elementare: l’insegnante seguì la sua istruzione, educandolo anche al rispetto dei valori cattolici e all’amore per la musica. Inizialmente intraprese gli studi magistrali, forse pensando di seguire le orme della madre, ma, subito dopo aver ottenuto l’abilitazione magistrale, decise di iscriversi ai corsi universitari di Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bari, riuscendo a conseguire in soli tre mesi, tra il luglio e il settembre del 1940, la maturità classica da privatista, per potervi accedere.

Negli anni giovanili per Dell’Andro fu importante anche la figura di riferimento, come docente, del filosofo bitontino Giovanni Modugno, che contribuì a formarlo sotto il profilo della filosofia di vita e dell’educazione sociale. Inoltre il giovane Dell’Andro frequentò assiduamente la sua parrocchia e gli ambienti cattolici, partecipando a numerose iniziative di impegno sociale e di approfondimento religioso. In quel periodo Dell’Andro entrò a far parte dell’Azione Cattolica, che durante il regime fascista, svolgeva prevalentemente attività di apostolato religioso.

A 18 anni, nel novembre 1940, conobbe per la prima volta Aldo Moro, allora giovane docente: per quella che lo stesso Dell’Andro definì “una coincidenza stranissima” la sua prima lezione da studente universitario coincise con la prima da professore di Moro. Fu forse l’allievo prediletto dello statista di Maglie, suo assistente e suo successore alla cattedra di Diritto Penale a Bari, dopo il trasferimento di Moro all’Università di Roma “La Sapienza”.

Negli anni all’Ateneo di Bari, su indicazione di Moro, Dell’Andro s’iscrisse alla Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, dove potè completare la propria formazione: infatti, in quel periodo – sotto l’influenza di personalità come l’avvocato Igino Righetti e monsignor Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI – l’organizzarione avviò un percorso che portò negli anni successivi a una maggiore presenza dei cattolici nella vita sociale e in quella politica del Paese.

Dell’Andro si laureò in Giurisprudenza nel 1944, a ventidue anni, dopo aver superato tutti gli esami con il massimo dei voti e la lode: la sua tesi in Storia del Diritto Romano gli fruttò il punteggio di 110 e lode con pubblicazione della stessa. Iniziò da subito a lavorare come assistente volontario, per poi essere incaricato dell’insegnamento di Storia del Diritto Romano negli anni accademici 1945/46 e 1946/47 e, in seguito, nominato assistente incaricato di Diritto Penale.

Aderì alla Democrazia Cristiana sin dal 1945: il suo primo incarico politico fu quello di far parte di un gruppo di lavoro per il rinnovamento della Dc nella provincia di Bari, dopo una serie di disfunzioni che portarono al commissariamento della sede locale. Nominato vicecommissario provinciale, evidenziò in una relazione tutti i problemi del partito, indicandone le cause e le possibili soluzioni.

Una legge speciale del Governo De Gasperi – con il ministro di Grazia e Giustizia Palmiro Togliatti come proponente – stabiliva che tutti i laureati in Giurisprudenza con 110 e lode, dopo aver fatto domanda, potessero essere chiamati a entrare in magistratura: così nel 1947 Renato Dell’Andro divenne magistrato e fu nominato pretore a Casamassima, ricoprendo il ruolo fino al 1955.

Proprio come il suo maestro Aldo Moro, Dell’Andro non iniziò la carriera universitaria dalle discipline penalistiche. Nel 1947 gli fu affidato l’insegnamento di Filosofia del Diritto, che ricoprì fino al 1951/52 e poi ancora dal 1958 fino al 1985. Inoltre, dal 1946 al 1985 fu direttore dell’Istituto Penale della Facoltà di Giurisprudenza di Bari, dove nel 1960 fu nominato professore ordinario alla cattedra di Diritto Penale. Infine fu eletto preside della stessa Facoltà per il triennio 1981/1984, restando in carica fino al luglio del 1985, quando si mise in aspettativa, in seguito alla designazione a giudice della Corte costituzionale. Tuttavia sono stati diversi gli incarichi ricoperti in altre università, fin da quando nel 1949 risultò primo al concorso nazionale per la cattedra di Diritto Penale, diventando professore straordinario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Siena. Infatti insegnò anche Filosofia del Diritto a Napoli, dove, nel 1962, fu chiamato per un anno a ricoprire quale titolare la cattedra di Istituzioni di Diritto Penale.

Come sottolinea la professoressa Angiola Filipponio nel ricordo pubblicato dalla Camera dei Deputati, Dell’Andro più che un docente fu un “maestro”, dato il suo «amore per il sapere, un amore che per sua natura è espansivo: si trasmette nell’altro e lo apre al medesimo atteggiamento, un atteggiamento che ha consentito la nascita della filosofia».

Il giurista Gaetano Contento invece ricorda come Dell’Andro «possedeva quel dono, che a pochissimi è dato, di riuscire a stabilire con immediatezza, anzi, con semplicità, un rapporto di diretta comunicazione personale con il suo uditorio, qualunque esso fosse: e questo spiega il grande carisma che, per più di trent’anni, ha illuminato la sua persona in quelle aule universitarie dove, puntualmente e assiduamente, teneva i corsi di lezione, circondato da una folla di studenti che riuscivano a coglierne, con quella freschezza di intuizione che è caratteristica propria della giovane età, al di là dell’insegnamento giuridico, il grande messaggio ideale che non si stancava mai di trasmettere».

Sin dai suoi primi scritti, nella produzione scientifica di Dell’Andro si può riscontrare un approccio metodologico da “filosofo”. Gran parte della sua produzione più nota appartiene al periodo degli anni ’50 con due lavori, dedicati uno all’analisi dell’insostenibilità del concetto tecnico-giuridico della cosiddetta “liceità penale” (Intorno alla nozione di liceità giuridico-penale, Bari 1950) e l’altro all’inedito studio della “recidiva” (La recidiva nella teoria della norma penale, Palermo 1951): entrambi furono accolti da numerosi apprezzamenti. Come ricorda Contento, «la recidiva, per Dell’Andro, non è una semplice “circostanza”, e neppure una mera qualificazione giuridica soggettiva. È il reato commesso dal recidivo, innanzi tutto, a essere diverso da quello commesso dal delinquente primario. Diverso perché il già reo impegna, nella sua realizzazione, un “tipo” di colpevolezza che è diversa, per la differente natura dell’energia “spirituale” che vi è espressa, da quella che contraddistingue il delinquente primario. Si tratta della colpevolezza di inclinazione, che merita dunque maggiore pena, perché inaridisce le fonti della possibile doverosa ripresa del cammino del soggetto verso la “costruzione” dell’esperienza giuridica, interrotto dalla “fermata” costituita dal primo illecito».

La pubblicazione scientifica forse più nota di Dell’Andro è dedicata alla “fattispecie plurisoggettiva” (La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Milano 1955), ossia al tema del concorso di più persone nel reato. Numerose sono le novità introdotte nel testo come la radicale demolizione della teoria della cosiddetta “natura accessoria della partecipazione” con la negazione della stessa possibilità di una qualunque distinzione fra autore e partecipi, che diventavano “concorrenti”. Inoltre il concorso di più persone non dà luogo a uno o a più reati, ma a un’unica fattispecie complessa, sulla quale convergono ragioni di unificazione oppure motivi di differenziazione, a seconda dei casi stabiliti dalla norma penale.

Un’altra opera di Dell’Andro è il frutto di una lezione tenuta il 23 maggio 1957 in un corso di perfezionamento per uditori giudiziari, ossia i magistrati ordinari in tirocinio (Il dibattito delle scuole penalistiche, pubblicata nel 1958 dalla rivista Archivio Penale): si tratta di un ampio quadro d’insieme di tutto il panorama delle correnti scientifiche che, in quegli anni, erano presenti sulla scena del grande dibattito dottrinale sul Diritto Penale, caratterizzato da una notevole ricchezza di opere, quanto meno per la qualità e la raffinatezza delle indagini svolte.

Vanno ricordati, infine, gli scritti – apparsi tutti nel 1958 – sull’amnistia, sull’antigiuridicità, sull’agente provocatore, insieme a quello completato due anni dopo, sulla capacità giuridica penale, tutti inseriti come “voci” della monumentale Enciclopedia del diritto, che in quegli anni iniziava la pubblicazione. Relativamente all’amnistia, Dell’Andro curò la voce non soltanto per la parte di stretta competenza per il penalista, ma anche per i temi d’interesse per gli studiosi di diritto costituzionale e di diritto processuale penale. Secondo l’originale interpretazione di Dell’Andro, l’amnistia estingue ciò che egli chiama l’effetto della norma, indipendentemente dal riscontro del verificarsi dei fatti concreti che sembrano condizionarla. A proposito dello studio sull’agente provocatore, secondo Gaetano Contento, va ricordata «la sicura e ferma indicazione del disvalore dell’attività in esame». Sono infine molto importanti le voci sull’antigiuridicità e sulla capacità penale, temi complessi in cui il pensiero di Dell’Andro risulta elaborato in modo completamente autonomo rispetto alle impostazioni del suo maestro Aldo Moro, con conclusioni a dir poco rivoluzionarie. Per il giurista l’antiguiridicità non è e non può mai essere un elemento del reato, tanto meno può essere una sua qualifica. Infine Dell’Andro arriva nel suo lavoro alla negazione della capacità penale come autonoma “categoria” giuridica soggettiva e alla sua riduzione a una semplice realtà “logica”, pregiuridica.

Oltre a questi scritti più corposi, è opportuno citare gli appunti delle sue lezioni, raccolti e custoditi dagli allievi a partire dagli anni ’60, le relazioni ad alcuni convegni, come quello dei Giuristi cattolici del 1963 (I diritti del condannato, pubblicato da Giuffrè Editore), e la notevole attività di collaborazione nelle più importanti riviste scientifiche di Diritto Penale, di alcune delle quali è stato anche direttore (Foro penale, Archivio penale). Più legata alla sua storia politica fu l’intensa attività pubblicistica su importanti settimanali e quotidiani, ma anche su diverse riviste cattoliche (Studium, Justitia). Inoltre Renato Dell’Andro diresse il giornale cattolico barese Tempi nostri.

Parallelamente alla carriera universitaria si sviluppò l’attività politica di Dell’Andro, che divenne presidente della Fuci di Bari, dei laureati cattolici e dei giuristi cattolici. Dal 1959 al 1961 fu sindaco di Bari. Come ricorda Luigi Ferlicchia – presidente della Federazione dei centri studi “Aldo Moro e Renato Dell’Andro” – in quel periodo Moro assunse la guida della Dc e, da quella posizione al vertice si occupò della sua città d’adozione, chiamando il suo allievo a un ruolo politico nuovo.

Per la sua discesa in campo, Dell’Andro dovette misurarsi con il leader missino Araldo di Crollalanza, al quale l’elettorato preferì il giovane professore, che si trovò a lavorare in un clima politico molto instabile, esposto a tutte le turbolenze dell’epoca, senza una maggioranza assoluta definita. Così Dell’Andro fu eletto per quattro volte Sindaco in soli tre anni, riuscendo comunque a imporsi, oltre che per la sua indubbia capacità giuridica anche per le sue qualità morali e per una serie di realizzazioni nel periodo della sua amministrazione.

In quegli anni numerose imprese aprirono stabilimenti a Bari, dando vita a un processo d’industrializzazione, con la creazione del consorzio Asi, che portò ad ampliare la storica vocazione commerciale della città, favorendo il decollo e lo sviluppo dell’area industriale. Sempre in quel periodo si assistette allo sviluppo dell’università, alla nascita del Conservatorio musicale e dell’orchestra sinfonica. Anche l’edilizia visse anni di crescita dirompente, che portarono alla creazione del nuovo quartiere di Poggiofranco o a interventi nei trasporti, come la sostituzione dei tram con la filovia e la sistemazione della strada litoranea che collega il centro cittadino con Torre a Mare. Infatti il Ministero del Lavoro finanziò una serie di cantieri-scuola che permisero di impiegare i disoccupati in una serie di lavori di realizzazione di nuove strade.

Tuttavia, data l’instabile situazione politica, il Consiglio comunale si sciolse, portando a partire dal 1962 a un convolgimento nell’amministrazione del Partito Socialista. Comunque l’attività di Dell’Andro, secondo Ferlicchia, permise alla Democrazia Cristiana di ottenere la fiducia dell’elettorato barese e di conservare il primato politico fino all’avvento della “Seconda Repubblica”.

Dal 1952 al 1963 Renato Dell’Andro fu consigliere d’amministrazione all’Ente Riforma Puglia, Lucania e Molise con delega al personale. Inoltre nel 1962 fu nominato dal Parlamento consigliere speciale della Corte costituzionale per i processi penali.

Nel 1963 si candidò alle elezioni politiche nella circoscrizione Bari-Foggia, risultando eletto deputato con oltre 54.000 voti di preferenza. Nella IV legislatura fu segretario della Commissione Giustizia della Camera e membro della Commissione Affari Costituzionali. Fu anche componente alla Commissione inquirente per i procedimenti di accusa nei confronti dei ministri, della Commissione speciale per il disastro del Vajont, della Commissione Paritetica Stato-Regioni per le norme di attuazione dello statuto speciale Friuli-Venezia Giulia e della Commissione Parlamentare per le autorizzazioni a procedere. Nel 1965 fu relatore, davanti al Parlamento in seduta congiunta, sul “caso Trabucchi”, una vicenda di tangenti considerata il primo episodio di finanziamento illecito ai partiti a emergere nel corso della “Prima Repubblica”.

Nel 1968 fu rieletto deputato nella stessa circoscrizione con oltre 66.000 voti e divenne presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere. Nel corso della V legislatura ricoprì per la prima volta incarichi di governo: fu nominato sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia nel secondo governo Leone, mantenendo la carica anche nel primo e nel secondo governo Rumor e collaborando con il ministro Gonella nella predisposizione di alcuni importanti disegni di legge.

Fu eletto deputato per la terza volta nel 1972 con 62.000 voti: fu vicepresidente della Commissione Giustizia, per poi essere nominato sottosegretario alla Pubblica Istruzione nel quarto governo Rumor e, in seguito, sottosegretario alla Grazia e Giustizia nel quarto e nel quinto governo Moro.

Nel 1976 Fu rieletto deputato anche per la VII legislatura, con oltre 75.000 voti: fu ancora sottosegretario alla Grazia e Giustizia nel terzo e nel quarto governo Andreotti. In questo periodo fu impegnato nella preparazione della legge delega per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale e per la riforma del codice penale. Inoltre fu significativo il suo contributo alla legislazione relativa alla lotta alla criminalità, alla tutela dell’ordine pubblico e in particolare alla normativa antiterrorismo: numerose leggi in materia penale e di procedura penale di quegli anni portano la chiara impronta del professor Dell’Andro.

Fu ancora deputato nel 1979, con circa 83.000 voti, e nel 1983, con 62.000 voti. Nominato nel ’79 presidente della giunta delle Elezioni della Camera, mantenne l’incarico sino al 23 luglio 1985, quando il Parlamento in seduta congiunta lo elesse, con 662 voti, giudice della Corte costituzionale.

Nel corso dei suoi mandati parlamentari si occupò d’importanti norme riguardanti la struttura dello Stato, come la legge elettorale regionale per la prima istituzione delle Regioni a statuto ordinario. Inoltre fu relatore della legge per l’adozione speciale e per la riforma del diritto di famiglia. La sua attività politica è legata anche al ruolo, mantenuto a lungo, di consigliere nazionale della Democrazia Cristiana, con particolare attenzione al movimento giovanile e a quello femminile del partito.

In riconoscimento delle sue competenze e dell’attività svolta, gli fu assegnata la Medaglia d’oro di benemerenza della cultura, dell’arte e della scienza. Inoltre il 19 novembre 1987 gli fu conferita dal presidente Francesco Cossiga l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al merito della Repubblica.
L’onorevole Giuseppe Pisicchio, nel suo ricordo di Renato Dell’Andro come deputato, ne sottolinea la lunga permanenza nei palazzi romani, durata 22 anni in sei legislature, cominciata a 41 anni e terminata nel luglio 1985, con l’elezione alla Corte Costituzionale, aggiungendo come il giurista abbia «rappresentato una figura assolutamente atipica e non inquadrabile nella tipologia dei capitani di lungo corso in perenne navigazione nel Transatlantico». Nel presentarlo come persona gentile, rigorosa, capace di esprimere una qualità scientifica di altissima caratura e tuttavia mai del tutto priva di un’impronta di umanità leggibile anche dai non addetti ai lavori, Pisicchio lo descrive come una figura che «resta nella memoria dei colleghi in una posizione silenziosa, quasi “laterale”; certamente priva di quell’eclatanza di gesti, non rara nell’esperienza parlamentare, che lui avrebbe forse giudicato fuori misura».

Pisicchio ricorda anche l’assidua presenza di Dell’Andro «nelle aule di studio contigue all’arena parlamentare, tra i funzionari di rango dei servizi di biblioteca, di documentazione e studio del legislativo; luoghi, in verità, di non assidua tradizionale frequentazione da parte della maggioranza dei deputati. È con i ricercatori, i dirigenti, i funzionari di questi fondamentali servizi della Camera che Dell’Andro stabilisce rapporti di scambio, di confronto scientifico, talvolta di amicizia, riconoscendo magari le ragioni di una comune passione per la musica, per la lirica specialmente».

Inoltre Pisicchio pone l’accento sulla lunga attività di governo, durata oltre sei anni e mezzo in otto diversi esecutivi, quasi sempre come sottosegretario alla Giustizia, che impegnò la parte centrale della sua esperienza, sottraendolo «alle consuetudini più tipiche della quotidianità parlamentare», come il lavoro nelle Commissioni o le sedute in Aula. Questo ha portato a una minore quantità di interventi rispetto ad altri colleghi, ma controbilanciata dalla valutazione qualitativa «della sua attività più tipicamente legislativa, per la metodologia adottata, direttamente discendente dalle abitudini scientifiche non mai cadute nella desuetudine, per la profondità della riflessione umana, per la solidarietà dell’ispirazione dei principi».

Nel 1984 fu candidato per la Democrazia Cristiana al Parlamento Europeo, riportando oltre 145.000 voti: il 28 aprile 1988 subentrò all’onorevole Ciriaco De Mita, dimessosi da parlamentare europeo per l’incompatibilità con la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri.

Il ruolo di Renato Dell’Andro come giudice della Corte costituzionale fu molto rilevante, con 44 sentenze e 138 ordinanze, definite di portata storica nell’evoluzione del Diritto Penale, redatte nell’arco dei suoi cinque anni di permanenza alla Corte sino alla prematura morte, il 28 ottobre 1990. Come ricorda Giovanni Conso nella sua commemorazione del giurista, «ben cinque sentenze e ventotto ordinanze – tutte quelle dell’ultimo anno – sono state pensate e affrontate nella sofferenza, fisica e morale, provocata dal male che, nel silenzio, cresceva inesorabile».

Una sentenza per tutte va citata: la 364 del 1988, considerata un’autentica pietra miliare nella storia giurisprudenziale della Corte, relativa al concetto “la legge non ammette ignoranza”. Dell’Andro con questa sentenza ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 del Codice Penale nella parte in cui si esclude la scusabilità dell’ignoranza della legge penale qualora l’ignoranza sia inevitabile. Tale sentenza, entrata nella storia del Diritto Penale, scalfisce questo principio stabilendo che ci sono casi dove è possibile concepire l’ignoranza della norma di legge da parte del cittadino.

Per Giovanni Conso, con questa sentenza, accolta con estremo favore non solo dagli “addetti ai lavori”, ma anche dall’opinione pubblica, «si è realizzata una vera e propria svolta nel sistema penale italiano, in sintonia con i principi ai quali si ispira la grandissima parte degli ordinamenti penali degli Stati democratici contemporanei. Con l’affermare che alla base della responsabilità penale devono immancabilmente esservi, quale momento della consapevolezza, la possibilità di aver coscienza dell’antigiuridicità del comportamento e, quindi, l’effettiva capacità di conoscere la legge penale e una concreta rimproverabilità dell’agente, si è inteso sottolineare come lo spirito dell’intera Costituzione e i suoi essenziali principi ispiratori pongano la persona umana al vertice delle scelte dei valori. D’altro lato, il principio di legalità dei reati e delle pene e l’esigenza della previa pubblicazione della legge implicano l’adempimento, da parte dello Stato, di ulteriori doveri costituzionali, concernenti la formulazione e il contenuto delle norme penali, così da renderle effettivamente conoscibili dai cittadini».

In una relazione svolta nel dicembre 1988 all’Università di Perugia a conclusione di un Convegno dedicato ai diritti dell’uomo, Renato Dell’Andro commentò così la sua sentenza: «Di recente la Corte costituzionale è andata oltre e ha detto che la personalità della responsabilità penale giunge fino al punto di abolire anche il vecchio principio della ignoranza della legge che non scusa. La Corte ha detto, in questo lavoro di costruzione del nuovo diritto penale, che non è possibile, che non è rispettata la persona umana allorché è inevitabile l’ignoranza della legge: la medesima scusa. Pensate quanti passi avanti ha fatto e sta facendo il diritto penale proprio perché è un diritto di garanzia, perché nasce per la garanzia dell’umanità».

Il grande giurista tedesco Hans-Heinrich Jescheck concluse la conferenza tenuta a Bologna in occasione del 900° anniversario dell’Ateneo bolognese citando la sentenza: «Con questa decisione l’Italia ha compiuto un passo essenziale nella direzione della riforma del proprio diritto penale, in quanto essa, con il pieno riconoscimento in chiave costituzionale del principio di colpevolezza, apre uno spiraglio per diversi altri interventi modificativi ormai non più procrastinabili».

Da parte della dottrina italiana i commenti di apprezzamento sono stati molteplici, a cominciare da quello di Giuliano Vassalli: «Dalla selva di sentenze e di ordinanze – talune ponderose, altre telegrafiche – che segnano il recuperato ritmo di lavoro della Corte costituzionale (e da cui taluno teme – a nostro avviso senza fondamento – una caduta di qualità della sua giurisprudenza) emerge, dopo quasi sei mesi dalla deliberazione (ma le ordinanze di rimessione sono del 1980 e del 1982), questo testo basilare del nostro nuovo ordinamento giuridico, dovuto alla penna di un cultore profondo del diritto penale e alla sua personale rimeditazione di alcuni problemi essenziali del nostro diritto costituzionale. Con questa sentenza non solo assume diversa formulazione l’articolo 5 del vigente codice penale, ma viene radicalmente modificato un precedente indirizzo della stessa Corte, culminato nella sentenza 23 marzo 1975 n. 74, che aveva ritenuto infondata analoga questione di costituzionalità relativa al detto articolo 5. Al problema di legittimità costituzionale la sentenza n. 364 dedica pagine importanti, non comparabili con le precedenti prese di posizione della stessa Corte vuoi sullo stesso argomento vuoi sugli altri argomenti che pure furono ricondotti all’inter-pretazione del comma 1 dell’articolo 27 della Costituzione in relazione ad altre ipotesi di asserita responsabilità non colpevole: articolo 57 vecchia formulazione, articolo 539, articolo 116 e altri. D’altra parte ciò era necessario, trattandosi della prima pronuncia di (sia pur parziale) illegittimità costituzionale verificatasi su questo terreno, mentre le precedenti o avevano negato il problema o avevano contenuto impulsi al legislatore o si erano limitate a dettare (come per l’articolo 116) una “interpretazione costituzionale” della norma ordinaria. È peraltro da rilevare (e questa è indubbiamente una caratteristica saliente della sentenza) che la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’articolo 5 non è avvenuta in forza del solo suo contrasto con il comma 1 dell’articolo 27. Ben al di là di ciò, la sentenza investe tutto l’arco dei conflitti denunciati dai giudici di merito e tutti sostanzialmente li accoglie in una visione quanto mai globale e unitaria dei principi costituzionali in gioco. La sentenza, anche se incentrata sulla rivalutazione più decisa del principio di colpevolezza, si inserisce nel grande alveo del garantismo liberale rivendicando al singolo uno spazio di libertà e di dignità pur nella dovuta osservanza dei suoi doveri verso lo Stato e le sue leggi. Nelle tradizionali critiche mosse dall’articolo 5 (e ai precedenti di esso nei codici del passato) la dottrina si era soprattutto soffermata sulla ingiustizia della regola, o meglio della assolutezza di essa. La Corte sembra altrettanto, se non più, interessata agli aspetti di reale democrazia del sistema. Per finire questa sommaria lettura, non resta che qualche cenno sulle presumibili implicazioni dei principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 364 del 1988. Non a caso a questa sentenza sono state riconosciute una “importanza storica”e una “forza dirompente”. Effettivamente, come abbiamo visto, la Corte non si è fermata, per riconoscere la parziale illegittimità costituzionale della regola, né alla disamina della portata del principio di obbligatorietà della legge penale, né al confronto dell’articolo 5 con il principio costituzionale di eguaglianza. Ben al di là, essa ha inteso soprattutto affermare il carattere costituzionale del principio penalistico di colpevolezza, e con una portata che va assai al di là della scusabilità dell’error iuris».

Giovanni Conso cita altri giudizi rilevanti, come quello di Fernando Mantovani: «Definita “importante” e “coraggiosa” nei primi commenti dottrinali e “storica” e “rivoluzionaria” nei primi commenti dei mezzi di informazione, la sentenza 364 costituisce il più incisivo intervento della Corte costituzionale sul tessuto del nostro sistema penale, invertendo essa fra l’altro il tradizionale atteggiamento di inflessibilità e severa censura verso il diritto processuale penale e di tolleranza e arrendevolezza verso gli autoritarismi del diritto penale sostanziale. E segna, col superamento del dogma della assoluta inescusabilità dell’ignorantia legis, una significativa tappa nell’affermazione del principio di colpevolezza, quale principio cardine del diritto penale accanto al principio di offensività. Ma, parimenti respingendo l’opposto dogma della scusabilità assoluta dell’ignorantia legis, perché “rimette alla temibile “psicologia” dei singoli la tutela dei beni, che, per essere tutelati penalmente, si suppone siano fondamentali per la società e l’ordinamento giuridico, ha fatto propria la prospettiva teorica e il modello di soluzione additato dalla dottrina sopramenzionata: la scusabilità, relativa, dell’ignoranza inevitabile”. E va altresì, rilevato che tale sentenza ha una portata che trascende la specifica questione dell’ignorantia legis, in quanto la motivazione, argomentata e dotta in misura inusuale, ma adeguata all’importanza della questione affrontata e al valore innovativo della pronuncia, poggia su affermazioni di principio coinvolgenti altri settori del nostro sistema penale, a cominciare dalla responsabilità oggettiva e lo stesso modo “personalistico-garantista” di concepire il nostro diritto penale. Per concludere, la storica apertura della Corte costituzionale alla scusabilità dell’errore sul precetto è capace di polivalenti e opposti effetti, che il tempo appurerà. In quanto viene a sanzionare le ambiguità e incertezze legislative e le contraddittorie giurisprudenze, suona come autorevole monito al legislatore, prima ancora che al giudice, per un recupero del principio di determinatezza e certezza giuridica. Ma in quanto “compensa” con la scusabilità dell’ignorantia legis, l’inevitabile perdita di determinatezza e certezza dell’ordinamento giuridico, può contribuire a consolidare la degradante realtà dell’“ordinamento giuridico occulto”, del “disordine giuridico”, della “caotizzazione della giustizia”. Sì da rendere preferibile – nella crescente confusione tra l’“agire” e l’“agitarsi”, che sembra sempre più contrassegnare, anche al livello legislativo, le complicatorie società moderne – ad un legiferare agitato, scomposto, sciatto, un sereno “riposo del legislatore”».

Per Tullio Padovani «la sentenza 364/88 rappresenta, senz’ombra di dubbio, il più cospicuo ed incisivo intervento della Corte costituzionale sui cardini del nostro sistema penale. È noto come spesso, in passato, la Corte abbia manifestato un atteggiamento profondamente diverso, a seconda che si trattasse di valutare la legittimità di norme processuali o di norme sostanziali: severo e talvolta inflessibile nel censurare le storture e i ritardi della disciplina processuale (al punto di ridelineare ab imis le strutture portanti), cauto e per lo più arrendevole nel valutare gli arcaismi autoritari del codice penale. Non avrebbe senso esplorare in questa sede le ragioni di una tale, vistosa difformità. Certo è che la sentenza 364/88 abbandona le antiche ritrosie e batte coraggiosamente la strada di un ben diverso impegno nell’affrontare i nodi di fondo del sistema penale».

Secondo Domenico Pulitanò «la sentenza, ampiamente motivata, merita di essere analizzata sotto diversi profili: per le affermazioni di principio che hanno motivato il distacco dal principio tradizionale d’inescusabilità dell’ignoranza del precetto legale, per i problemi aperti dal nuovo ambito di possibile rilevanza scusante dell’errore inevitabile, e per altre possibili o doverose implicazioni sistematiche. Fra i molti immediati apprezzamenti positivi per la sentenza della Corte sono affiorate anche preoccupazioni per un temuto affievolimento dell’autorità della legge: la sentenza della Corte è stata vista come rottura di un principio indiscusso, se non di un tabù. Ma la rottura con la secolare tradizione, della quale l’articolo 5 era espressione, ha anche significato un allineamento con un principio già introdotto da tempo in altri ordinamenti europei, per via giurisprudenziale o legislativa. Incrinando un principio tradizionale, nel quale tradizionalmente si ravvisa un riflesso dell’obbligatorietà della legge, la Corte costituzionale si è dimostrata libera dai condizionamenti derivanti dagli aspetti “simbolici” della legislazione penale, che tendono ad ostacolare riforme in senso liberale in sede politico-legislativa, e ha emanato una sentenza all’altezza dei tempi, che ci avvicina all’Europa. La “rivoluzionaria” apertura della Corte costituzionale della scusabilità dell’errore sul precetto è il doveroso riconoscimento che l’erroneo rapporto tra l’ordinamento giuridico e i destinatari non è sempre rimproverabile all’individuo, ma può essere rimproverabile allo Stato. Ed è perciò il legislatore, ancor prima dei giudici, il destinatario del monito appassionato lanciato dalla Corte».

Marino Petrone scrive: «Prima di entrare nell’esame degli aspetti più strettamente dogmatici del tema, credo che sia opportuna qualche considerazione sulla portata generale del grande avvenimento che ha determinato queste riflessioni, ossia la pronuncia, il 24 marzo 1988, della sentenza n. 364 della Corte costituzionale. Tanto ancora ne parleremo, prima di mettere a fuoco adeguatamente le conseguenze che tale pronuncia, da molti qualificata “storica”, sono derivate nell’intero sistema penale. Nel centenario della morte di Francesco Carrara, nell’anno della celebrazione del pensiero carrariano, una sentenza del genere potrebbe sembrare addirittura rivoluzionaria e, comunque, “eretica”, rispetto agli insegnamenti del grande maestro. Qualcuno, infatti, potrebbe affermare che essa avrà l’effetto di “esporre a ruina tutto l’edificio del giure punitivo”, ripetendo quanto affermava appunto il Carrara, negli “Opuscoli”, ponendosi il problema degli effetti della ignorantia legis e negando ad essa decisamente efficacia scusante. Ma da allora sono passati oltre cent’anni e non invano. Profonde trasformazioni politiche, sociali e giuridiche hanno caratterizzato il nostro Paese come, del resto, tutta l’Europa e tutto il mondo. In Italia in particolare, come è noto, con l’entrata in vigore della Costituzione rigida del 1948, è avvenuta una svolta decisiva nel sistema penale, in senso garantista, della quale non sempre ci si rende conto, malgrado la migliore dottrina italiana, l’abbia da tempo evidenziata elaborando i relativi principi. Non va, comunque, dimenticato che Francesco Carrara esprimeva l’ideologia liberale per la quale la regola ignorantia iuris non excusat si ricollegava ad una visione tipicamente giusnaturalistica del diritto penale: ogni norma penale avrebbe un substrato, un sottofondo di disvalore sociale che ad essa preesiste e che, dunque, ogni consociato non potrebbe non percepire ancor prima di conoscere la norma. Orbene, una tale concezione, se era errata a quei tempi, si dimostra ancor più falsa oggi. Ché, anzi, oggi sarebbe una siffatta affermazione la vera eresia».

Conso riporta anche il commento di Giovanni Fiandaca: «L’importante e coraggiosa sentenza, ben a ragione definita “stoica” nei primi commenti, segna una tappa particolarmente significativa lungo il cammino della compiuta affermazione del principio di colpevolezza, quale criterio-cardine del sistema penale. Il superamento del principio della assoluta inescusabilità dell’ignorantia legis si inquadra, secondo la Corte, all’interno di una prospettiva che includa nella colpevolezza, quale categoria che riflette l’appartenenza psicologica del fatto criminoso all’autore, anche la conoscenza – almeno “potenziale” – del carattere illecito del fatto penalmente sanzionato».

Per Giovanni Flora «a poco più di un anno dalla “storica” sentenza della Corte costituzionale non sembra fuor di luogo una riflessione critica più ponderata, dopo i primi entusiastici commenti a caldo. Il contenuto della sentenza, di straordinario pregio scientifico e letterario, è ormai troppo noto perché ci si debba attardare ad esporlo compiutamente. Vale forse la pena, però, di ricordarne i punti fondamentali, perché è in relazione a questi che si cercherà di individuare i problemi che si pongono e di verificare l’attuale stadio di soluzione. Da quanto finora esposto, risulta chiaro che l’appas-sionato sforzo della Corte costituzionale, teso ad adeguare il sistema penale al principio di colpevolezza, rischia di risultare vano se non viene accompagnato da un pari impegno attuativo della giurisprudenza, della dottrina e, in particolar modo, del legislatore».

Durante una commemorazione all’Università di Bari, Gaetano Contento, nel «ricordare il Maestro», sottolineò come «la grande ricchezza della sua perfetta formazione morale, culturale e giuridica, si è potuta, alla fine rilevare nell’apporto dato ad alcune importanti decisioni della nostra Corte costituzionale, luogo privilegiato per chi, come Dell’Andro, si è sempre battuto per il trionfo degli ideali, per la fedeltà ai principi e per la riaffermazione dei valori umani e sociali. Basterà rammentare la sentenza 364 del 24 marzo 1988 con la quale è stato sciolto il nodo dell’articolo 5 del Codice Penale, che, imponendo di considerare sempre irrilevante l’ignoranza della legge, soffocava inesorabilmente ogni aspirazione ad una giustizia più umana. Nella motivazione di questa sentenza, si rispecchiano le sue convinzioni profonde di fede nella vita ed il suo nobilissimo impegno etico; ma, essa costituisce anche una mirabile sintesi di rara sapienza giuridica e di perfetta consequenzialità e coerenza argomentativa logico-sistematica. In essa, chiunque, può – e potrà sempre – ritrovare, tutto intero, Renato Dell’Andro e colloquiare ancora con lui».

Infine il giudice Francesco Paolo Casavola, conclude così un accorato profilo dell’amico e collega perduto: «Il saggio sui diritti del condannato del 1969 aveva una ispirazione evangelica espressa nelle parole “ero carcerato e veniste a me”. Di qui una lettura analitica rigorosamente scientifica della condizione giuridica del condannato, ma insieme una concezione della pena come pietà per il colpevole e stimolo per la società a educarsi e accettare la pena non come deterrente o difesa o repressione, ma rieducazione del colpevole. Nella sentenza 364 del 1988, che sancisce il superamento parziale del principio della inescusabile ignoranza della legge penale, torna a correre lo stesso filo di persuasioni cristiane di rispetto della viva coscienza dell’uomo, mai oggetto, sempre oggetto e dunque rimproverabile soltanto se la legge lo raggiunge nella sfera della sua conoscenza e della sua volontà».

Altri temi affrontati da Dell’Andro alla Consulta hanno riguardato la consapevolezza dell’antigiuridicità del fatto, mentre in materia di procedura penale sono segnalate le sentenze 274 e 277 del 1990. Numerose sono state le pronunce in materia penale militare, che hanno notevolmente stemperato il carattere di specialità dell’ordinamento militare, sempre più uniformandolo allo spirito della Costituzione repubblicana.

Renato Dell’Andro è stato redattore anche di diverse, rilevanti, decisioni in settori differenti da quello penale (tributario, regionale, amministrativo, civile, previdenziale) nell’ambito sia di giudizi di legittimità costituzionale che di conflitti d’attribuzione fra i poteri dello Stato o fra Stato e Regioni. Una, soprattutto, non può essere dimenticata per l’impegno e la passione profusi nello studio delle questioni implicate e nella stesura finale della decisione, che ha dato nuovo impulso alla sistemazione dell’importante materia: la sentenza 184 del 1986, in tema di risarcimento del cosiddetto danno biologico. Precisata la nozione di danno biologico con il distinguerlo sia dal danno morale sia da quello patrimoniale, se ne è giustificata la risarcibilità ex articolo 2043 del Codice Civile con l’esigenza di apprestare un’idonea garanzia al diritto alla salute, tutelato come diritto fondamentale della persona dall’articolo 32 della Costituzione.

Lo stesso Dell’Andro in un’intervista rilasciata a “La Provincia di Taranto” pochi mesi prima di morire – ritenuta una sorta di testamento spirituale – ricordava l’importanza della sua sentenza sulla dignità della persona umana: «Nel caso di risarcimento, abbiamo stabilito che spetta una determinata somma non soltanto per la ridotta attività, ma anche perché s’è apportato un danno ad una persona umana, che va tutelata in sé, e non soltanto per il danno subìto. Ecco, in questa sentenza io scorgo veramente il frutto maturo della scuola di pensiero pugliese, la sua originalità nel solco tracciato da Aldo Moro».

Numerosi sono stati i commenti di civilisti, riportati da Conso nel suo ricordo. Per Guido Alpa «la sentenza della Corte costituzionale aggiunge una nuova tessera al mosaico ormai da più di un decennio in fase di elaborazione da parte di dottrina, giurisprudenza di merito, giurisprudenza di legittimità, giurisprudenza costituzionale. Per proseguire nella metafora è una tessera preziosa e di grande rilievo: non accadeva spesso di leggere sentenze così dense, forbite, chiare e attente come questa. Al piacere di leggerla si accompagna quindi il gusto di disegnare un breve commento».

Massimo Paradiso sintetizza il suo giudizio con queste parole: «L’elaborata e pregevole sentenza della Corte costituzionale viene, per più di un aspetto, se non a chiudere il dibattito sul danno non patrimoniale alla persona, certo a definire un importante capitolo che ha visto impegnati, per almeno un decennio, vasti settori della giurisprudenza e della dottrina. A conclusione di tale capitolo, può darsi ormai per vigente nell’ordinamento la regola della risarcibilità del danno non patrimoniale all’integrità psicofisica, quale (conseguenza della) lesione di un bene – appunto, l’integrità – per sé rilevante e tutelato pur se privo di conseguenze di carattere patrimoniale. La soluzione, e i procedimenti interpretativi seguiti dalla Corte, accolgono le indicazioni ed i risultati forse più significativi della moderna dottrina e giurisprudenza in tema di danno biologico, e non è certo il caso qui di riprenderne le fila se non per evidenziare come la soluzione prescelta si articola in tre profili o passaggi principali che costituiscono anche un’importante scelta di metodo. Globalmente, deve segnalarsi lo scrupolo sistematico con cui è stata ricostruita la vicenda storica e concettuale dell’articolo 2059 nei suoi rapporti col sistema della responsabilità civile – e del risarcimento del “danno ingiusto” in particolare – e, più in generale, con l’ordinamento costituzionale. Sotto questo profilo, anzi, merita particolare attenzione la scelta metodologica di fondo che, in luogo di una mera verifica o commisurazione nella normativa di diritto privato ai criteri di legittimità costituzionale, ha opportunamente preferito la più matura via di una ricostruzione sistematica del diritto vigente, procedendo da un lato alla rilevazione del reale contenuto dei concetti nella prassi giudiziaria piuttosto che nel testo dei codici; dall’altro, all’integrazione e armonizzazione delle diverse fonti di legge, costituzionale e ordinaria, pur nell’ovvio rispetto dei rispettivi ruoli e del diverso “peso” di ciascuna».

Per Alberto Ravazzoni «la sentenza della Corte costituzionale pone certamente un punto di assoluto rilievo sia per quanto attiene alle immediate conseguenze su un piano applicativo, sia per quanto attiene l’elaborazione dottrinale in tema di danno non patrimoniale. La sentenza della Corte si distingue, in primo luogo, per un inconsueto approfondimento di concetti: affronta taluni problemi che sono alla radice dell’illecito civile e, con decisione interpretativa di rigetto, esclude dall’ambito del danno non patrimoniale le conseguenze proprie della lesione del diritto alla salute e le inquadra nell’ambito dell’articolo 2043 del Codice Civile. Le sue osservazioni resteranno per molto tempo fondamentali anche nella dogmatica civilistica, riaffermando chiaramente la natura risarcitoria della reazione dell’ordinamento anche nel caso del danno alla salute».

Giovanni Conso giudica particolarmente significative le parole iniziali di un acuto saggio di Giovanna Visintini: «L’estensore di quest’articolata sentenza è notoriamente di formazione un penalista. Si vede. Il lungo iter della motivazione procede per tappe argomentative, che dal punto di vista dell’interpretazione storica, dell’articolo 2059 del Codice Civile, che passa, di necessità, attraverso riferimenti al codice penale vigente e ai suoi procedimenti, colgono nel segno e portano chiarezza in una materia dominata, ad avviso di chi scrive, da una confusione sovrana».

Inoltre per Conso non è meno incisivo l’intervento di Stefano Rodotà: «La sentenza costituisce la conferma e lo sviluppo di un orientamento già largamente consolidato tra gli studiosi, che aveva dato origine ad assai notevoli decisioni della Corte di Cassazione e che trova precedenti solidi nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale, ma la nettezza con la quale vengono ricostruiti senso e conseguenze dell’articolo 32 della Costituzione impedisce di considerare la recentissima sentenza costituzionale come una pura conferma di quanto era già noto. Qui interessa rilevare soprattutto come la sentenza 184 arrivi a comprendere nel diritto alla salute l’intera sfera psico-fisica del soggetto, attribuendo ad essa una tutela incondizionata. Una ricostruzione, questa, che non può essere ritenuta rilevante solo sotto il profilo, pur essenziale, del risarcimento dei danni: essa sembra destinata a giocare un ruolo non secondario anche dal punto di vista della possibilità del soggetto di agire al fine di prevenire il prodursi di danni. E non mancano certo nella sentenza affermazioni direttamente interpretabili in questo senso: da quella relativa al “riconoscimento del diritto alla salute come diritto pienamente operante anche nei rapporti di diritto privato” (e quindi non alla sola area della responsabilità civile) a quella, ancor più impegnativa, che prospetta la necessità di “rileggere tutto il sistema del codice civile alla luce della Costituzione”».

Infine, per Francesco D. Busnelli, «la sentenza è apprezzabile, anzitutto per il dichiarato, insistito intento di “prendere atto del diritto vivente”. Esemplare è l’attenzione per le “esigenze di tutela, anche in sede di diritto privato, di specifici valori, determinati soprattutto dalla vigente Costituzione”, e in particolare del diritto alla salute. Puntuale, infine, è il riferimento alle “tre voci di danno” (danno alla salute, danni patrimoniali in senso stretto, eventuale danno non patrimoniale); e altamente opportuno è il suggerimento – che speriamo sia ascoltato – di “cautela nella liquidazione dei danni in esame, onde evitare da un canto duplicazioni risarcitorie e dall’altro gravi sperequazioni nei casi concreti”. In conclusione, la sentenza n. 184/1986 resterà, piaccia o non piaccia ai suoi critici, una tappa fondamentale, anche se non definitiva, nell’inquadramento sistematico della figura del danno alla salute, e più in generale della categoria dei danni alla persona».

In conclusione, Giovanni Conso, per commentare l’operato di Renato Dell’Andro, riporta le parole del giurista Mario Chiavario: «Col passare degli anni, l’impegno di Dell’Andro si è reso sempre di più tramite di una tensione che si collocava su di un piano diverso, pur senza essere in contraddizione con un perdurante riconoscimento del compito proprio della “costruzione giuridica”. Ed anche in questo – e pur nella differenza di ruoli e di responsabilità – si possono scorrere molti punti di contatto con l’insegnamento e con l’esperienza di vita del Moro giurista e del Moro “politico”. Era una tensione diretta a sottolineare – e, più e meglio ancora, a rendere operativi e quasi a spremere in tutti i loro possibili contenuti – taluni valori trainanti di una concezione del diritto ispirata a profonda fede nella centralità della persona umana. Riassunti ed espressi dalle formule dell’articolo 27 della Costituzione e in particolare dal “principio” di “personalità” della responsabilità penale e da quello della “rieducazione” come fine cui devono tendere le pene. Quei valori dovevano trovare in Dell’Andro un interprete finissimo e al tempo stesso appassionato: specialmente in quell’opera di concretizzatore ed equilibratore di fondamentali diritti della persona e di altrettanto fondamentali esigenze della collettività, che – dopo una lunga militanza parlamentare – venne chiamato a vivere come funzione primaria quale giudice costituzionale. Non si sarebbe sinceri se non si ricordasse come sia un momento, questo, nel quale, e non senza ragione, la nostra società avverte con particolare acutezza il timore che le leggi, nel campo della giustizia penale e dell’ordinamento penitenziario, finiscono per dimenticare le obiettive esigenze di difesa contro le prepotenze e le astuzie della criminalità, specialmente quella organizzata. Di fronte a ciò, un messaggio di fiducia nella possibilità di scorgere, nelle leggi operanti in quei settori, anche e soprattutto degli strumenti rispettosi della persona e capaci di non spegnere in alcun uomo la speranza, sembra spesso soltanto espressione di un’utopia ingenua e pericolosa. L’insegnamento e la testimonianza di Dell’Andro ci inducono a continuare a credere e a sforzarci di operare affinché non sia così. Non perché si debba negare l’evidenza di problemi reali e brucianti, che soprattutto oggi impongono un’attenzione ed una incapacità di agire idonee ad evitare che le istituzioni confondano le istanze di garanzie e di umanità con la licenza al crimine. Ma perché non si sommergano, sotto la morsa della paura e dell’affanno, anche gli sforzi per mantenere ed anzi sviluppare, nella legge e nella giustizia umana, quei livelli di rispetto della persona, di ogni persona, che ne fanno degli strumenti, appunto, “umani”».

Vincenzo Camaggio

FAMOSO PER

Cattolico impegnato, docente universitario, magistrato, avvocato penalista, preside della Facoltà di Giurisprudenza e giurista insigne, sindaco di Bari, deputato, sottosegretario di Stato, parlamentare europeo e giudice della Corte costituzionale: una vita intensa dedicata alla costruzione di una convivenza fatta per l’uomo, che richiede il contributo di tutti, esige competenza tecnico-giuridica conforme allo spirito e ai “segni dei tempi”, pretende consistenti qualità morali, domanda coraggiosa volontà e capacità di collaborazione con uomini di differenti ideologie.

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Camera dei deputati, IX legislatura, Seduta del 2 febbraio 1984. Intervento di Renato Dell’Andro nella discussione su disegni e proposte di legge in materia di “Custodia preventiva e concessione della libertà provvisoria”:

Signor Presidente, onorevoli colleghi, accade spesso di leggere e di ascoltare, qui ed in altre sedi, vivaci critiche relative all’incertezza della legislazione in materia di diritto processuale penale e in particolare in tema di garanzie individuali, e fra l’altro di carcerazione preventiva. Le critiche, nel rilevare le oscillazioni e le contraddizioni nella normativa, sono quasi sempre pesanti, e la facile tentazione dell’ironia è accolta con animo quasi sadico. A dir la verità noi, nel momento in cui ci esprimiamo favorevolmente sul provvedimento in esame, nel momento in cui anzi rivendichiamo di essere stati fra i primi – la proposta di legge Casini è del 28 settembre 1983, ed essa non concerne solo la riduzione dei termini della carcerazione preventiva, bensì anche l’accelerazione dei procedimenti penali – ad affrontare queste tematiche, dichiariamo che non siamo per nulla dei pentiti e che non rinneghiamo nulla di quello che è stato fatto. Si abusa dei termini filosofia e cultura, ma purtroppo devo usarli per replicare. Noi non siamo mai stati per la cosiddetta cultura dell’emergenza, se con essa si intende contrabbandare una visione autoritaria dei rapporti tra cittadino e Stato. Ma se cultura dell’emergenza significa combattere tutti i fenomeni eversivi, se significa reagire e difendere i valori fondamentali della nostra civiltà – come hanno fatto i nostri più autorevoli rappresentanti, a cominciare dall’onorevole Rognoni – noi non possiamo in alcun modo dire di non essere in questa lotta; ci riconosciamo e vogliamo continuare a lottare ove vi fosse ancora un pericolo per le istituzioni dello Stato.

Non possiamo in alcun modo non riconoscere che occorre riprendere il discorso generale della riduzione della carcerazione preventiva, ma anche su questo punto i nostri trattatisti ci hanno insegnato che esistono dei sistemi processuali di tipo accusatorio, di tipo inquisitorio e misto. Certo, nel sistema accusatorio, la carcerazione preventiva non deve essere prevista, ma gli stessi trattatisti ci hanno insegnato che i sistemi concreti sono sempre misti, e che non è possibile non tenere conto delle necessità processuali o delle urgenze processuali. Pertanto il voler presentare la carcerazione preventiva come una anomalia, non mi sembra che sia quanto meno corretto, tenuto conto della natura mista dei sistemi concreti.

Guai a chi volesse pensare ad una natura sostanziale della carcerazione preventiva! Guai a chi pensasse di superare la natura esclusivamente processuale di tale istituto! Questa è soltanto una necessità, e quindi va realizzata nei limiti delle esigenze processuali, proprio per la garanzia del cittadino. Noi siamo sempre stati di questo avviso e riconfermiamo queste opinioni, già altre volte manifestate.

D’altra parte questa legge, quando istituisce dei modi di computo che non sona presenti in altre legislazioni, o che per lo meno non sono consuete, quando non soltanto abbassa il limite della carcerazione preventiva, ma quando per il computo della medesima non tiene nemmeno conto delle aggravanti generali e crea il sistema delle fasi processuali (quando cioè distingue le fasi, impedendo l’osmosi tra di esse ai fini della carcerazione preventiva), essa rappresenta indubbiamente un enorme passo avanti nella linea che è sempre stata seguita.

Da parte nostra ci riconosciamo pienamente in questa legge, e voteremo a favore con convinzione. Se è vero che siamo convinti che il diritto penale rivela l’essenza dei rapporti tra cittadini e Stato (come è stato detto dall’onorevole Russo), è anche vero che bisogna legiferare tenendo conto della realtà effettiva, dal momento che la legislazione deve rispondere alle concrete richieste della esperienza sociale. Non si può legiferare in astratto!

La verità è che abbiamo sempre seguito una linea tesa alla difesa della libertà individuale. Non si può dire, onorevole Violante, che con questa legge ritorniamo a privilegiare le garanzie individuali perché, nel momento in cui lo facciamo, nello stesso tempo difendiamo i valori fondamentali della civiltà. In questo modo ci manteniamo ancora in quello che non è un compromesso, ma la necessaria sintesi di qualsiasi tema in sede processuale. A questo punto dirò all’onorevole ministro che l’equilibrio tra le due posizioni non mi sembra soltanto materia di diritto processuale, ma esso è materia che riguarda tutto il diritto penale, anche quello sostanziale, come Carnelutti più volte ha insegnato.

Non si tratta dunque di un provvedimento ambivalente, ma di una normativa che ha tenuto conto delle opposte esigenze che andavano necessariamente sintetizzate. Anche qui la sintesi non è compromesso – povero Hegel: dove andrebbe a finire! – ma, viceversa, la sintesi è una realizzazione di entrambe le esigenze in un inveramento che tenga conto degli opposti principi.

Questa legge è un invito alla magistratura a fare presto quando ci sono imputati detenuti; nello stesso tempo è un invito allo stesso legislatore, perché è stato detto, anche dall’onorevole Felisetti, che finché non risolveremo il problema del nuovo codice di procedura penale, finché non avremo spostato il centro del processo nel dibattimento, non avremo mai pienamente risposto ai temi relativi alla carcerazione preventiva.

Questa legge è un invito alla responsabilità dei giudici, anche in tema di libertà provvisoria. Infatti l’abrogazione dei divieti di cui al primo comma dell’articolo 5 è importantissima.

È un invito anche alla responsabilità dell’esecutivo, il quale deve rivedere tanta materia attinente alle circoscrizioni giudiziarie – come ha detto l’onorevole Reggiani – e, agli organici delle cancellerie. Molte di queste cose devono essere fatte per poter finalmente risolvere la crisi della giustizia!

Noi dobbiamo dire che l’onorevole ministro è stato veramente ammirevole in tutta questa discussione, perché non si è battuto per la sua posizione, perché prescindendo da preconcetti ideologici ha lasciato che la Commissione lavorasse su una scia di razionalità e pertanto, alla fine, ha dato il suo assenso, pur con il rischio calcolato che egli stesso ha qui ricordato.

Ebbene, signor Presidente, debbo terminare, perché il tempo stringe e tutti vogliono andare a pranzo, però vorrei finire in bellezza. Parlando, l’onorevole Felisetti ha detto che voleva riferirsi all’uomo «misura di tutte le cose» e ha citato Anassagora; io ho replicato che si trattava di Socrate, ma l’onorevole Felisetti ha ribattuto che non avevo letto De Crescenzo e che sono i presocratici che parlano dell’uomo misura di tutte le cose. Onorevole Felisetti, certo i presocratici parlano dell’uomo misura di tutte le cose, ma è Socrate che parla non dell’«uomo sensazione», dell’«uomo arbitrio», ma dell’«uomo ragione», dell’«uomo universale». Ebbene noi siamo sempre stati e siamo per l’uomo misura di tutte le cose, ma per l’«uomo ragione», cioè per l’uomo di Socrate, non per l’uomo dei sofisti.

V.C.

DICONO DI LUI

«La lunga esperienza di parlamentare, di uomo di governo, di militante di partito non aveva attenuato in Renato Dell’Andro una viva sensibilità per l’imparzialità delle istituzioni, per la equidistanza loro da tutte le pur legittime divisioni politiche e sociali dei cittadini».
Francesco Paolo Casavola (ex Presidente Corte Costituzionale)

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Nel ricordo di Renato Dell’Andro
Francesco Paolo Casavola in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1991, n. 3,p. 691-694:

Ho conosciuto per la prima volta Renato Dell’Andro in un convegno di studio della Fuci agli inizi degli anni cinquanta. Appariva realizzare compiutamente il modello di giovane intellettuale cattolico della metà del nostro secolo, legato a tre appartenenze o ambiti di impegno: alla Chiesa, all’Università, alla politica. Parlava col tono di voce proprio del colloquio, non da lezione o da discorso pubblico; con proprietà lessicale, con finezza concettuale, che rivelavano l’uomo di studi e di letture lungamente meditate. Malgrado dieci anni di distanza, l’essere egli già un noto professore ed io appena uno studente universitario, una comune e distinguibile risonanza riempiva l’ascolto delle sue parole: nuclei del pensiero e del fraseggio di Giuseppe Capograssi si coglievano e agevola-vano – come un utile codice di decifrazione – non solo la comprensione ma la convinta accoglienza. Gli occhi si facevano ora intenti, ora sorridenti, a seconda della concentrazione del ragionamento o del felice esito della dimostrazione e guardavano verso l’uditorio come su uno specchio delle operazioni della sua mente.

Era però tutt’altro che un isolato parlante. Cercava la comunicazione e il rapporto umano quasi a compensare o scongiurare l’esperienza della solitudine che sempre attraversa la giovinezza degli studiosi. Forse qualcuno tra gli ascoltatori lo avrebbe preferito più assertorio o polemico, insomma più duro. Ma quel giovane Dell’Andro, con l’aria non di capo e piuttosto di fratello maggiore, sapeva nascondere sotto un tratto mite, convinzioni e decisioni ferree.

Tornai ad incontrarlo nel 1961 a Bari, entrambi colleghi di Facoltà. Mi fece festa come se tra noi non ci fosse stato l’incontro casuale di un lontano convegno fucino, ma un’assidua frequentazione di anni. La sua era fraternità di cristiano prima che umana amicizia o colleganza accademica. Era già stato Sindaco di Bari e si apprestava alla candidatura parlamentare. Ma dal modo con cui mi fece visitare l’istituto di Diritto Penale, di cui era direttore, descrivendomene minutamente il rinnovamento nell’organizzazione, nell’arredamento, nella dotazione libraria, sembrava esser vissuto soltanto per leggere e riflettere e prepararsi in quel luogo ove insegnare. Mi confidò di avvertire inariditi i suoi interessi di studioso. Un dogmatico a differenza di uno storico – disse – non ha una serie pressoché inesauribile di oggetti da investigare. E soprattutto non rinnova il suo strumentario concettuale. Non era segno di precoce stanchezza, ma di già consumato dominio della sua disciplina. Aveva scritto alcuni anni prima, in un saggio su Il dibattito delle scuole penalistiche, del grave errore di «confondere dibattiti filosofici o, peggio, politici con dibattiti scientifici», racchiudendo tra parentesi questo grave giudizio, inconsueto per un giovane studioso trentacinquenne: «in definitiva questo errore ha condotto il diritto penale, come scienza giuridica, a rimanere in uno stadio indubbiamente arretrato nei confronti delle altre scienze giuridiche».

Per Dell’Andro, l’autentico scienziato del diritto è «colui che tende ad una sistemazione concettuale della realtà dal punto di vista delle norme giuridiche». La ricerca dell’oggetto specifico della scienza del diritto era un suo assillo metodologico costante, in ciò tributario alle suggestioni del pensiero capograssiano. Esprimeva tuttavia Dell’Andro qualche cosa di più profondamente partecipato, con tutta la sua esistenza, che non un’adesione soltanto intellettuale. A metà di questo secolo un cattolico viveva la difficile esperienza della distinzione dei tanti piani della realtà e dell’esigenza della loro ricomposizione ad unità. Altrove Dell’Andro avrebbe scritto dell’atteggiamento del giurista «di disinteresse per tutto ciò che non attiene specificamente alla realtà giuridica». Quest’operazione di isolamento era richiesta dalle esigenze proprie dell’analisi scientifica dell’oggetto scelto e del punto di vista individuato. Dell’Andro praticava con estremo rigore siffatta delimitazione del dato d’indagine, ma nel contempo affermava con lucida consapevolezza che «se lo scienziato, nello spingere all’estremo il proprio interesse al particolare oggetto d’osservazione, si disinteressasse degli altri dati ed aspetti della realtà e del sistema unitario e totale della realtà stessa, da un canto non riuscirebbe ad approfondire compiutamente il proprio oggetto (e cioè si negherebbe come scienziato) e dall’altro correrebbe il rischio di credere che il risultato della propria specifica, e perciò limitata, indagine dica la parola conclusiva su tutta la realtà».

Una tale chiara connessione dell’oggetto della conoscenza giuridica con tutto il contesto della realtà permetteva a Dell’Andro affermazioni nette: «Esiste, dunque, un unico oggetto della scienza giuridico-penale, che è l’intera realtà sotto l’aspetto della normazione penale; lo studio di tale realtà è operato dal giurista nell’unico modo come la scienza può studiare una realtà: determinando concetti e princìpi, universali e necessari».

Universalità e necessità di princìpi e concetti significano per Dell’Andro una professione metodologica molto alta ed ambiziosa che egli così esprimeva: «… non aderiamo alla concezione che ritiene oggetto della nostra scienza il cosiddetto ordinamento positivo vigente e cioè uno degli ordinamenti positivi. Basterebbe l’empiricità della scelta dell’ordinamento positivo a porre in crisi la limitazione dell’oggetto della scienza giuridico-penale».

Il giurista deve conoscere tutte le concrete storiche normazioni penali in modo da intendere perché una determinata normazione è mezzo adeguato a raggiungere dati scopi. Ma «non è il giurista, non è la scienza del diritto penale, che deve dire la propria parola sul cosiddetto fondamento degli istituti penali: sia affermato con decisione e, speriamo, nei limiti in cui si può parlare di definitività scientifica, senza ombra di superbia, definitivamente».

Dell’Andro, dunque, era ben capace di atteggiamenti intellettualmente ed eticamente forti, perché prodotti da un’assidua e talora tormentata riflessione. Quando, a distanza di quasi un ventennio, la nostra antica colleganza universitaria si rinnovò per gli inesplicabili appuntamenti della vita nella colleganza all’interno della Corte costituzionale, di Dell’Andro ormai non più giovane mi colpiva un’accresciuta, se possibile, riservatezza di vita che si versava in una dedizione illimitata allo studio delle cause e alla stesura di complesse ed ampie sentenze. In camera di lettura dalla sua viva voce traevano colore e nuovo significato le costruzioni dei suoi periodi. Non pochi tra noi erano tuttavia stupiti e forse non del tutto persuasi della fatica ch’egli spendeva nella scrittura dei lunghi testi delle sue sentenze. Egli scriveva non solo per rispondere al giudice remittente, ma per colloquiare con i giuristi della sua disciplina, con i suoi maestri ed allievi, finanche con un’ideale platea di studenti quasi a voler conservare la consuetudine universitaria della lezione e del seminario.

La lunga esperienza di parlamentare, di uomo di governo, di militante di partito non aveva attenuato in lui una viva sensibilità per l’imparzialità delle istituzioni, per la equidistanza loro da tutte le pur legittime divisioni politiche e sociali dei cittadini.

L’educazione di quella generazione di cattolici che fu la sua, sulla cerniera del rinnovamento conciliare della Chiesa, gli imponeva una sola intransigenza, quella del servizio per le ragioni della persona umana, ch’egli coglieva con gli strumenti e l’oggetto della sua disciplina, nell’acuto dramma della violenza della legge penale e dell’espiazione della condanna.

Il saggio sui diritti del condannato del 1969 aveva un’ispirazione evangelica espressa nelle parole del Signore: «Ero cercato e veniste da me». Di qui una lettura analitica rigorosamente scientifica della condizione giuridica del condannato ma insieme una concezione della pena come pietà per il colpevole e stimolo per la società ad educarsi ad accettare la pena non come deterrente o difesa o repressione ma rieducazione del colpevole.

Nella sentenza n. 364 del 1988, che sancisce il superamento parziale del principio dell’inescusabile ignoranza della legge penale, torna a correre lo stesso filo di persuasioni cristiane di rispetto della viva coscienza dell’uomo, mai oggetto sempre soggetto e dunque rimproverabile soltanto se la legge lo raggiunge nella sfera della sua conoscenza e della sua volontà.

Ho voluto disegnare di Renato Dell’Andro appena qualche tratto di un’immagine che nella sua interezza è nota solo a Colui cui con lo spe¬gnersi della vita si è fuori del tempo ricongiunta.

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Politica e cultura nel pensiero di Renato Dell’Andro
Enzo Sorice, da Renato Dell’Andro, AA VV, Archivio storico Camera dei Deputati, Roma ottobre 2010:

Politica e cultura, la moralità politica, il potere come strumento per il soddisfacimento del bene comune e non come fine, la distinzione tra politica ed economia sono i temi che Renato Dell’Andro ha ampiamente sviluppato nelle innumerevoli conferenze che hanno caratterizzato la sua attività politica.

I sintomi della degenerazione oggi presente nella vita politica non possono non accordarsi al mancato rispetto di quei principi che sono stati le coordinate nell’azione politica ed educativa del compianto maestro.

Infatti è inutile continuare ad interrogarci sul perché della disaffe¬zione dei cittadini e in particolare dei giovani dalla politica che inevitabil¬mente finisce per sfociare in una crisi globale di credibilità delle istituzioni democratiche se l’attuale classe dirigente non si cimenta, più che con le enunciazioni, con personale testimonianza, a riscoprire la politica come servizio per l’interesse generale.

«Politica e cultura – diceva Dell’Andro – sono le due facce della stessa medaglia» per cui non era concepibile per uno studioso quale egli era immaginare qualsiasi impegno politico senza un adeguato supporto culturale perché la politica senza cultura rischia di degradarsi a semplice lotta per la conquista del potere allontanandosi così dalla sua vera funzione di interprete delle istanze, delle sensibilità, delle problematiche, della generalità dei cittadini.

In sintonia con Aldo Moro continuava a ripetere a noi giovani che timidamente iniziavamo a fare politica – senza trascurare, su sua solleci¬tazione, gli studi e l’attività professionale – che quest’ultima depauperata della cultura finisce per identificarsi con la difesa degli interessi particolari e quindi inevitabilmente finisce per confondersi con gli affari: autentico cancro nell’attività amministrativa.

L’infiltrazione della criminalità organizzata nelle pubbliche ammi¬nistrazioni, la litigiosità senza un progetto politico all’interno degli enti locali, la pigrizia dei partiti a tentare di capire il nuovo che va emergendo nella società civile, l’allontanamento degli onesti e degli uomini di cultura dalla politica, lo iato tra i cittadini e le istituzioni sono purtroppo anche la diretta conseguenza della mancanza di maestri di vita e di politica come Aldo Moro e Renato Dell’Andro.

 

SCRITTI

Intorno alla nozione di liceità giuridico-penale, Bari 1950.

 

La recidiva nella teoria della norma penale, Priulla Editore, Palermo 1951.

 

La fattispecie plurisoggettiva in diritto penale, Giuffrè Editore, Milano 1955.

 

Il dibattito delle scuole penalistiche, in Conferenze, tomo I, Giuffrè Editore, Milano 1958, pag. 580; pubblicato anche dalla rivista Archivio Penale, 1958.

 

Per l’Enciclopedia del Diritto, Ed. Giuffrè, Milano 1958, Renato Dell’Andro curò le voci: Amnistia (aspetti di diritto costituzionale; diritto penale; procedura penale); Agente provocatore;

Antigiuridicità penale; Capacità giuridico-penale.

 

I diritti del condannato, relazione al congresso nazionale dei Giuristi Cattolici, Giuffrè Editore, Milano 1963, pubblicato anche dalla rivista Iustitia, 1963, pag. 259.

 

FONTI BIOGRAFICHE E SITI WEB

Nel ricordo di Renato Dell’Andro, Francesco Paolo Casavola in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 1991, n. 3, p. 691-694.

Renato Dell’Andro, AA.VV., Archivio storico Camera dei Deputati, Roma ottobre 2010.

Renato Dell’Andro giudice costituzionale, Giovanni Conso, estratto dal testo del discorso commemorativo tenuto il 29 ottobre 1991 nell’Aula magna dell’Università degli Studi di Bari e pubblicato nella collana dei “Quaderni” della Federazione dei Centri studi “Aldo Moro e Renato Dell’Andro”, luglio 1992.

Renato Dell’Andro. Sindaco di Bari: contributo per una storia della Dc barese, Luigi Ferlicchia, Editrice Rotas, Barletta 2000.

Ricordo di un maestro, Gaeteno Contento, testo del discorso commemorativo tenuto il 3 dicembre 1990 nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bari.

https://it.wikipedia.org/wiki/Renato_Dell’Andro

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