ANGIOLILLO RENATO

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ANGIOLILLO RENATO

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Giornalista, fondatore e direttore de “Il Tempo”, senatore della Repubblica

Ruoti (Potenza) 4 agosto 1901 – Roma 16 agosto 1973

Profilo tratto dalla biografia di Giuseppe Sircana nel Dizionario Biografico degli Italiani – volume 34 (1988)

Nacque a Ruoti, in provincia di Potenza, il 4 agosto. 1901 da Giuseppe, avvocato, e da Gaetana Martorano. Laureatosi in giurisprudenza, esordì giovanissimo nel giornalismo a Napoli. A diciotto anni lavorava presso il quotidiano Giornale della sera, di cui era direttore il fratello Ugo, e due anni dopo divenne redattore capo dell’Ecodella Sicilia e delle Calabrie; l’A. collaborò in seguito a Il Lavoro di Genova e fondò a Napoli il settimanale Il Vecchio paese. Egli gravitava allora, come la sua famiglia del resto, nell’ambito politico del corregionale F. S. Nitti. Allorché, con l’avvento del fascismo, cominciarono le difficoltà per la libera espressione della stampa democratica, l’A. abbandonò il giornalismo per dedicarsi all’attività editoriale. Fu fondatore e direttore, sempre a Napoli, della casa editrice Tirrena, che nel corso degli anni Venti pubblicò diversi volumi in due principali collane: una di poesia dialettale napoletana e l’altra di saggi politici, nella quale apparvero, tra gli altri, scritti di Arturo Labriola. In quel periodo l’A. scriveva novelle ed articoli di colore per Il Lavoro e Il Popolo di Roma firmandoli con pseudonimi, quali “Il foggiano” e “Blasco Rumor”; abbandonata l’attività editoriale in proprio, l’A. lavorò quindi come dirigente, presso l’editore Morano. Alla fine degli anni Venti l’A., che pure intratteneva rapporti di personale amicizia con alcuni esponenti del fascismo napoletano, entrò in conflitto con gli ambienti fascisti più rigidi e fu costretto a trasferirsi a Bari; qui rimase per nove anni, dedicandosi all’editoria pubblicitaria.
Alla vigilia della guerra mondiale l’A. si stabilì a Roma iniziando una poliedrica attività nel settore cinematografico. Fu infatti produttore, nonché talvolta soggettista e sceneggiatore, di varie opere cinematografiche realizzate intorno agli anni Quaranta; produsse, tra gli altri, il film Un garibaldino al convento con la regia di V. De Sica e Caravaggio di G. Alessandrini.
Nel 1943 l’A. tornò ad occuparsi di giornalismo, intenzionato a dar vita ad un nuovo quotidiano. Il gerarca fascista G. Bottai aveva acquistato, sembra proprio in società con l’A., l’antica testata dell’Italie che, dall’ottobre 1940, si pubblicava con il nuovo titolo di Italia. Quotidiano politico fondato nel 1859 dal conte di Cavour. Quando, alla caduta del fascismo, il giornale entrò in crisi, l’A. ne approfittò per far rilevare, a basso prezzo, da un gruppo di antifascisti suoi amici il pacchetto azionario della Società editoriale romana, proprietaria della testata; la compravendita era stata realizzata di nascosto ed allorché venne scoperta, da parte della ripristinata autorità fascista, il giornale nel gennaio ’44 fu soppresso. Roma era infatti occupata dai Tedeschi; l’A. dovette rimandare a tempi migliori la realizzazione del suo progetto, nel quale aveva intanto coinvolto lo scrittore antifascista Leonida Repaci. Con l’ingresso delle truppe alleate a Roma, il 4 giugno 1944, l’A. si rivolse allo Psychological Warfare Branch (PWB), la branca dell’autorità militare alleata che si occupava della stampa, per ottenere l’autorizzazione a pubblicare il suo giornale che gli fu infine concessa: l’A., durante l’occupazione nazista, avrebbe stampato un bollettino clandestino con notizie riprese dalla radio inglese e americana e ciò lo poneva in buona luce agli occhi degli alleati.
Per il suo quotidiano l’A. aveva deciso di rinunciare alla vecchia testata Italia scegliendo quella de Il Tempo, ripresa anch’essa da un giornale romano, fondato e diretto nel primo dopoguerra da Filippo Naldi e poi soppresso dal fascismo. Il primo numero del Tempo uscì il 6 giugno 1944 con il sottotitolo “quotidiano socialdemocratico” e con la firma, come direttori, di Rèpaci e dello stesso Angiolillo.
Il richiamo alla socialdemocrazia non era tuttavia inteso in senso classico, ma piuttosto come adesione ad un socialismo di vaga e confusa ispirazione rivoluzionaria e blanquista. Già dal terzo numero tale sottotitolo venne però eliminato, mentre qualche giorno dopo Il Tempo esplicitava il collegamento ideale “con la stampa clandestina dem movimento partigiano” e l’intenzione di voler essere “la voce del popolo lavoratore, teso verso il completo affrancamento sociale, politico e morale” (13 giugno 1944).
Nonostante queste affermazioni di principio il Comitato di liberazione nazionale (CLN) chiese ed ottenne, il 22 giugno, dall’autorità militare alleata la soppressione del quotidiano, in quanto, secondo gli accordi, doveva essere consentita la pubblicazione soltanto dei giornali organi dei sei partiti del CLN. L’A. e Rèpaci riuscirono, appena qualche giorno dopo, a farsi nuovamente confermare l’autorizzazione e così Il Tempo riprese le pubblicazioni, assumendo il nuovo sottotitolo “quotidiano indipendente”. Per dare a gruppi e partiti non appartenenti al CLN la possibilità di esprimere le loro opinioni, la commissione alleata per le pubblicazioni aveva stabilito che Il Tempo doveva riservare ogni giorno due colonne, intitolate “Tribuna libera”, al notiziario di questi gruppi e partiti.
Per un breve periodo Il Tempo ospitò questa rubrica, mentre l’A. dimostrava di sapersi muovere con accortezza e capacità riuscendo a far decollare il suo quotidiano in una situazione di generale difficoltà per la stampa. In tempi in cui la carta veniva razionata l’A. riusciva a farsene assegnare in quantitativi superiori alle necessità; Il Tempo fu poi tra i primi giornali ad ospitare avvisi economici a pagamento. Quando ancora i quotidiani uscivano a sole due pagine Il Tempo dedicava un discreto spazio alla cultura, potendo vantare illustri collaboratori, tra i quali C. Alvaro, V. Brancati, M. Bontempelli, E. Cecchi e G. Piovene. Approfittando inoltre dell’assenza dalle edicole di un quotidiano romano di antica tradizione quale Il Messaggero – la cui pubblicazione era stata impedita per i trascorsi fascisti della testata -, Il Tempo si andava affermando con ottime tirature, conquistando lettori in settori di opinione pubblica moderata.
L’A. comprese appieno le vaste possibilità di diffusione che si sarebbero aperte al suo giornale, se fosse stato in grado di rendersi interprete di quella parte della popolazione che non si riconosceva nella prospettiva di rinnovamento politico e sociale, bensì la paventava, che temeva i provvedimenti dell’epurazione antifascista e che, in fin dei conti, rifuggiva da una condanna del passato regime. Con una certa spregiudicatezza l’A. attuò un repentino spostamento della linea del giornale verso le posizioni moderate, entrando per questo in conflitto con Rèpaci, favorevole al mantenimento di una linea di sinistra. Il contrasto tra i due si risolse con la liquidazione di Rèpaci, che nel dicembre 1944 abbandonò un giornale nel quale erano ormai molti, tra redattori e collaboratori, ad avere trascorsi fascisti più o meno compromettenti.
L’A. perseguiva una ben chiara linea politica ed editoriale, come egli stesso dichiarò al PWB: “Il mio giornale è un giornale indipendente. La mia linea è combattere il comunismo e il socialismo. Non mi piacciono i loro uomini, le loro idee, i loro giornali. Appena sarà liberato il Nord, andrò a Milano al solo scopo di attaccare la stampa di sinistra. Sono contro l’epurazione. Se qualcuno ha fatto fortuna sotto il fascismo perché toglierli la sua fortuna? Può essere utile al nuovo regime con la sua abilità, se si impegna a non contrastarlo. Tutti i miei collaboratori al Tempo sono stati, chi più chi meno, fascisti. A me sta bene” (Faenza-Fini, p. 107). Non andava dunque lontano dal vero Leonida Rèpaci allorché definiva l’A. “fondamentalmente un borghese, un reazionario, non crede nella Resistenza, non crede nella Costituzione che da essa dovrà nascere” (Rèpaci, p. 351). Queste definizioni aiutano comunque ad inquadrare la personalità dell’A. nel momento in cui egli compiva scelte professionali e politiche decisive e alle quali rimase fondamentalmente fedele.
Da allora si può dire che la biografia dell’A. si identifichi con le vicende del giornale, di cui egli era proprietario e direttore. La linea che egli impose al Tempo non si caratterizzava nell’appoggio costante ad una determinata forza politica (il che accadeva in occasione delle elezioni), quanto nell’esprimere il variegato blocco della destra economica e politica. Amico personale del fondatore del Fronte dell’uomo qualunque, Giannini, l’A. condivideva i motivi di fondo del qualunquismo, che organizzava la protesta, contro l’antifascismo, di “quei ceti medi, ancora una volta trascurati, vilipesi, ignorati” (La grande lava si è mossa, in Il Tempo, 13 nov. 1945).
Il Tempo era insomma diventato il giornale che raccoglieva “le voci dei molti scontenti, le sofferenze dei poveri ‘epurati’, il disagio dei ceti medi burocratici, la stanchezza generale provocata dalle due occupazioni, tedesca ed alleata, le ancor timide, ma rancorose proteste dei militari sconfitti, sotto l’insegna generosa della ‘pacificazione'” (Cimone, p. 231). Sul Tempo cominciavano anche ad apparire le firme di esponenti di spicco del regime fascista, come quelle di A. De Stefani, G. Bottai, V. Borghese. In occasione del referendum istituzionale del 2 giugno 1946 il quotidiano dell’A. si schierò a favore della monarchia. In quel periodo Il Tempo insidiava il primato delle vendite al ricomparso Messaggero. Il grande balzo nella tiratura e nella diffusione era avvenuto grazie alla pubblicazione a puntate degli estratti del Diario di Galeazzo Ciano, di cui l’A. aveva acquistato i diritti; in pochi giorni la tiratura salì da 30.000-35.000 a 150.000 copie.
Sempre in quel periodo l’A. diede vita ad una edizione milanese del Tempo con l’intenzione di far concorrenza al Corriere della sera, assumendone collaboratori e redattori epurati. Il tentativo non ebbe tuttavia successo; e dopo poco tempo l’A. cedette la testata ad un gruppo di industriali milanesi.
Alle elezioni del 18 apr. 1948 l’A. si presentò candidato al Senato per il collegio di Bari, come indipendente in una lista liberale, che aveva anche il sostegno della Democrazia cristiana, risultando eletto con 45.726 voti; in Senato l’A. fece parte della commissione Lavoro, Emigrazione e Previdenza Sociale. Mentre Il Tempo patrocinava nel 1950 il progetto di legge per la difesa civile, inteso come strumento contro la “minaccia” di sinistra, l’A. si fece sostenitore sul giornale ed in Senato della campagna di “pacificazione” portata avanti dai neofascisti. Intervenendo, il 23 genn. 1952, in Senato contro la proposta di legge per la repressione dell’attività fascista l’A. invocò “un’impostazione di cristiana giustizia e di responsabilità politica, per cui si vieti il deprecabile errore di porre praticamente fuori legge una massa importante di italiani, con cui si può e si deve collaborare e da cui si può e si deve chiedere apporto di attività. Non si costruisca – concludeva l’A. – una barriera a destra mentre non si è voluto finora, elevarne una a sinistra” (Discorso contro la proposta di legge per la cosiddetta repressione dell’attività fascista, Roma 1952, pp. 14 s.). Alle elezioni del 7 giugno 1953 l’A. fu nuovamente candidato dal partito liberale al Senato, questa volta nel collegio di Rieti, ma non venne eletto. Nondimeno continuò ad esercitare un ruolo importante sul piano politico.
Ben oltre l’affermazione editoriale, Il Tempo divenne negli anni Cinquanta un portavoce autorevole del blocco conservatore. In politica estera esprimeva posizioni nazionaliste, ma sempre ancorate ad un rigido allineamento alla politica degli Stati Uniti. In politica interna sosteneva, ancor più dopo le elezioni del 1953, la necessità di una apertura alla destra monarchica e neofascista. In politica economica Il Tempo rifletteva le posizioni della Confindustria, e si pronunciò contro lo sganciamento delle aziende a partecipazione statale dall’associazione degli industriali. Il giornale fu altresì sostenitore della politica dei coltivatori diretti e dei consorzi agrari, guidati da Paolo Bonomi, e degli interessi dei proprietari terrieri meridionali contrari alla riforma agraria. Un altro tratto peculiare del Tempo continuò ad essere l’attenzione rivolta ai fatti della cultura e dello spettacolo; nella terza pagina del giornale comparivano articoli di scrittori e critici stimati anche in ambienti politicamente lontani dal Tempo.
Nel novembre 1957 l’A. trasformò la Società editoriale romana, di cui era unico proprietario, in società per azioni, e l’anno successivo la metà delle azioni furono rilevate dall’armatore genovese Ernesto Fassio. Questi divenne presidente del consiglio di amministrazione della società editrice, mentre all’A. restavano l’altra metà delle azioni, l’incarico di direttore a vita ed il diritto di rescissione del contratto. Nel corso degli anni Sessanta, di fronte all’emergere di nuovi scenari in politica interna ed internazionale, l’atteggiamento del Tempo fu caratterizzato in ogni campo dalla difesa dello status quo e, allorché ciò non era possibile, dal sostegno alle posizioni più moderate nell’ambito delle ipotesi di cambiamento.
Così fu a proposito del dialogo tra cattolici e socialisti, incoraggiato dal nuovo corso impresso alla Chiesa dal pontificato di Giovanni XXIII. Il Tempo si distinse tra i giornali più tenacemente avversi al varo della politica di centrosinistra, non lesinando duri attacchi a quegli esponenti democristiani che più si battevano per una coalizione di governo con i socialisti. Medesime ragioni, ma non solo quelle, erano all’origine dell’ostilità verso la politica di E. Mattei, presidente dell’ENI (Ente nazionale idrocarburi), sostenitore del centrosinistra e artefice di importanti intese dirette con i paesi produttori di petrolio, in contrasto con gli interessi delle grandi compagnie internazionali del settore. Giornale cattolico, Il Tempo fu portavoce degli ambienti più conservatori della Curia romana contrari alle aperture del concilio Vaticano II. Varato il centrosinistra, Il Tempo si dimostrò “una testata quanto mai mobile, sempre naturalmente nella cornice di una rivendicazione continua del più intransigente conservatorismo” (La stampa quotidiana romana…, 1967, p. 331). Promotore di campagne, come quella contro la legge urbanistica Sullo, rivolte a contrastare la politica delle riforme, Il Tempo, specialmente dopo la ritrovata unità politica tra il centrosinistra e i grandi gruppi privati, fu tuttavia un quotidiano “filogovernativo”. Verso la fine degli anni Sessanta, in presenza di fatti nuovi come la contestazione studentesca ed una forte ripresa delle lotte operaie, Il Tempo si segnalò come uno dei giornali più decisi nel reclamare la repressione di tali movimenti.
Nel 1970 intervennero sostanziali mutamenti nella proprietà del giornale. Conclusa nel giro di un breve periodo la società con Fassio, l’A. era nuovamente proprietario assoluto del giornale, la cui gestione economica diveniva sempre più pesante. In un momento caratterizzato da intense e spesso segrete manovre rivolte al controllo dei quotidiani da parte di imprese economiche pubbliche e private, la proprietà del Tempo venne ad interessare l’ENI, che ne assunse una rilevante partecipazione di minoranza. Nel 1971 l’ENI divenne proprietaria di una quota del 33,3% con diritto d’opzione su di un altro terzo. Il 61,7% rimaneva di proprietà dell’A., mentre il restante 5% passò ad una società concessionaria di pubblicità. Si andavano così definendo le linee dell’assetto proprietario, che, con ulteriori partecipazioni e suddivisioni di quote, avrebbe rilevato la società editrice dopo la scomparsa dell’Angiolillo. Questi, ancora nel luglio 1973, teneva tuttavia a precisare di essere il solo proprietario del Tempo.
L’A. morì a Roma il 16 ag. 1973.
Fonti e Bibl.: Si vedano i numeri de Il Tempo del 17 e 18 ag. 1973 contenenti ricordi e necrologi e, inoltre E. Veo, Quotidiani e periodici usciti in Roma dopo il 4giugno 1944, in Capitolium, XIX (1944), n. 6-8, p. 109; La stampa quotidiana romana, in Belfagor, VI (1951), pp. 334-336; Cimone, La stampa quotidiana, in Occidente, XII (1956), n. 3, pp. 228-236; n. 4, pp. 289, 306; Annuario della stampa italiana 1957-58, Milano 1957, pp. 119 s.; L. Rèpaci, Taccuino segreto, Lucca 1967, ad Indicem; La stampa quotidiana romana dal 1951a oggi, in Belfagor, XXII (1967), pp. 329 ss.; I. De Feo, Tre anni con Togliatti, Milano 1971, ad Indicem; M. Isnenghi, La stampa quotidiana del Centro Sud, I, “Il Tempo” e “Il Giornale d’Italia”, in Giovane critica, 1971, n. 28, p. 73; Almanacco d’Italia 1974, Roma 1973, pp. 225, 250-268; E. Scalfari-G. Turani, Razza padrona, Milano 1974, ad Indicem; S. Setta, L’uomo qualunque 1944-1948, Bari 1975, ad Indicem; La stampa italiana del neo-capitalismo, a cura di V. Castronovo-N. Tranfaglia, Roma-Bari 1976, pp. 557 s.; R. Faenza-M. Fini, Gli Americani in Italia, Milano 1976, ad Indicem; G. Pansa, Comprati e venduti. I giornali e il potere negli anni ’70, Milano 1977, ad Indicem; P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra, Roma-Bari 1978, ad Indicem; La starnpa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, a cura di V. Castronovo-N. Tranfaglia, Roma-Bari 1980, ad Indicem; G. Afeltra, Missiroli e i suoi tempi, Milano 1985, ad Indicem; M. Zeri, E R. A. fondò “Il Tempo”, in Il Tempo, 4 nov. 1985. Ulteriori informazioni sono reperibili in: Chi è?, Roma 1948, ad vocem; I deputati e senatori del primo Parlamento repubblicano, Roma 1949, ad vocem; Panorama biogr. degli Ital. d’oggi, a cura di G. Vaccaro, I, Roma 1956, ad vocem.

ANGIOLILLO, Renato in “Dizionario Biografico” (treccani.it)

https://www.ufficiostampabasilicata.it/eventi/nasce-a-ruoti-lemeroteca-intitolata-a-renato-angiolillo/..

Nasce a Ruoti l’emeroteca intitolata a Renato Angiolillo

Lunedì 3 agosto, l’inaugurazione
Di Redazione 1 Agosto 2020

Sabato 1 agosto 2020 – Lunedi 3 agosto 2020 alle 11 sarà inaugurata l’emeroteca dell’Associazione Culturale Giovanile Recupero Tradizioni Ruotesi, con la presenza delle autorità del Comune di Ruoti e la direttrice del Polo Bibliotecario di Potenza, Anna Maria Pilogallo.
L’emeroteca, intitolata a Renato Angiolillo, fondatore e direttore del quotidiano IL TEMPO, nato a Ruoti (nella foto di copertina), è collocata in via Roma in tre immobili adiacenti a palazzo Salinardi.

Un’emeroteca /biblioteca realizzata in ambienti distinti in una stradina del centro storico, fortemente voluta dai cittadini ruotesi che hanno messo a disposizione gratuitamente l’uso dei locali e che ha visto impegnati i giovani della stessa associazione nella sistemazione ed allestimento del nuovo servizio bibliografico, grazie alle donazioni dei materiali da parte di alcune attività commerciali del posto e di alcuni arredi della ex sede della Biblioteca Nazionale di Potenza.

L’associazione, ha sottolineato il presidente Felice Faraone, sta partecipando ad un progetto dell’Unione Europea, per la ricerca e la valorizzazione del materiale emerografico, che sarà realizzato da cinque giovani ruotesi tra i 18 e 30 anni, ed intende mettere a disposizione il patrimonio raccolto a quanti vogliano continuare in questo percorso di crescita culturale locale.

Attualmente il materiale donato dalla Biblioteca Nazionale di Potenza consiste nelle seguenti testate; Il Tempo dal 1971/1999, Il Messaggero 1971/1999, La Repubblica dal 1974/2002, Il Sole 24 Ore dal 1971/1998, Il Giornale dal 1971/1989, Il Secolo D’Italia dal 1971/1989. Infine grazie all’impegno del parroco Don Antonio Arenella sono state recuperate le annate che vanno dal 1968/1975, del mensile dell’azione cattolica Senza titolo e si sta lavorando per riportare alla luce altri periodici storici.​

La riscoperta di Puglia d’Oro di Renato Angiolillo, lucano e pugliese d’adozione

Le numerose biografie personali e familiari riportate nei tre volumi di Puglia d’Oro, pubblicati da Renato Angiolillo nella seconda metà degli anni ’30, durante la sua permanenza a Bari, si presentano assai diverse tra di loro, come ampiezza di riferimenti storici, in alcuni casi risalenti ai secoli passati, specie per le famiglie indicate come “Famiglie illustri di Puglia”.
In alcuni casi è di tutta evidenza che alla rassegna hanno contribuito biografie di amici pugliesi di Renato Angiolillo o di conoscenti che, legati ai diversi personaggi, hanno potuto arricchire la rassegna di ricordi d’infanzia di personaggi o di giudizi frutto genuino dell’impegno dell’era mussoliniana nella risoluzione dei problemi seri della Puglia, quali la creazione dell’Università degli Studi a Bari.
Frequentemente nelle biografie era rimarcato lo sforzo realizzato nei diversi centri agricoli per il miglioramento delle colture e delle condizioni dei contadini pugliesi, via via spronati a diventare abili conduttori agricoli, con l’aiuto della sempre numerosa figliolanza (forte del detto assai diffuso che “I figli sono ricchezza”), per poi arrivare a diventare “professionisti colti ed egregi e sempre ardimentosi”, cosi definiti da Angiolillo nella “Premessa” al primo volume di Puglia d’Oro dell’ottobre 1936, pronti a far crescere campi sempre più estesi e profittevolmente dedicati a culture diversificate con annesse masserie, delle quali lo stesso Renato Angiolillo così definì l’evoluzione: “Le famose masserie una volta segnacolo di abbandono e di latifondismo depauperatore sono ora infatti fucine feconde nelle quali l’attrezzatura delle macchine possenti, la selezione delle sementi e la disciplina delle rotazioni, sono leggi di vita aziendale”

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Renato Angiolillo dopo la fine della seconda guerra mondiale

Subito dopo la fine della guerra Renato Angiolillo fondò a Roma il quotidiano “Il Tempo” con una tempestività e una avventurosa impresa mirabilmente descritta da Gianni Letta e da altri giornalisti che hanno raccontato la vita del giornalista Renato Angiolillo (cfr. Eugenio Marcucci, nel volume “giornalisti grandi firme”).
Di un’altra esperienza Angiolillo era giustamente orgoglioso quella di aver collaborato come produttore all’opera cinematografica, che è ormai da cineteca “un garibaldino al convento”, con la regia di Vittorio De Sica, e di aver recitato la piccola parte di Nino Bixio. Nei siti internet specializzati il film ha una buona recensione, venendo giudicato assai piacevole, raccontato con mano agile e leggera, molto curato tecnicamente e ben recitato.
Al mitico ed irrepetibile Angiolillo, appassionato scommettitore ippico, ed alla sua gentile consorte Maria le cronache romane hanno dedicato molto spazio per la notorietà del salotto di casa Angiolillo presso il quale – come riferisce Gianni Letta – spesso venivano presentate le credenziali degli ambasciatori prima ancora del Quirinale o si svolgevano importanti incontri che decidevano le vicende politiche italiane.
Da ricordare anche che nel 1948 Renato Angiolillo fu eletto Senatore della Repubblica Italiana nel collegio elettorale di Bari come indipendente in una lista liberale con un simbolo dell’orologio a testimonianza del suo tempismo e del quotidiano “Il Tempo” da lui fondato e diretto..
Ancora oggi a decenni di distanza da quel periodo vivo è il ricordo tra gli elettori anziani della campagna elettorale fatta da Angiolillo a Bari e del suo simbolo dell’orologio come ancora viene segnalata la sua forte personalità di giornatista-senatore nell’ambiente pugliese.
Nell’ambito dell’iniziativa colturale promossa nel 2008 dalla Fondazione Carlo Valente con la riedizione in un unico pregevole volume dei tre volumi di Puglia d’Oro per illustrare degnamente la grande figura di Renato Angiolillo e la sua poliedrica attività di giornalista, fondatore e direttore responsabile de “Il Tempo” subito dopo la seconda guerra mondiale, e poi senatore della repubblica, non vi era personalità che meglio del Presidente Gianni Letta potesse onorare la sua memoria.
In conclusione della sua splendida presentazione tenuta in videoconferenza a Bari l’8 marzo 2008, il Presidente Gianni Letta precisò che “Ho raccontato questi episodi ma se ne potrebbero raccontare tanti perché Renato Angiolillo era un’antologia perché, come ho detto, la sua era una fantasia molto vivace ed effervescente, il personaggio era naturalmente estroverso, aveva tutta la fantasia napoletana assorbita negli anni che aveva vissuto a Napoli ma aveva tutta l’in¬traprendenza pugliese.
Quella intraprendenza che lo aveva sempre fatto sentire barese e che traspare, come ha ricordato il Presidente Valente, dal modo con cui descrive la Puglia, dal modo e dalla passione con cui celebra i fasti di queste famiglie, perché di tutte sottolinea questa capacità imprenditoriale, questo spirito d’iniziativa, questo attaccamento alle tradizioni che fanno della Puglia una Regione speciale, una Regione d’oro come dice appunto il titolo di questo bellissimo libro che viene rieditato.
Piace anche a me concludere questo ricordo non solo con un atto di riconoscenza e devozione a Renato Angiolillo ma con un atto di apprezzamento, di ammirazione, di fiducia e di speranza verso questa Regione che, unendo insieme le tradizioni di quelle famiglie e di quelle che dopo si sono affacciate alla ribalta delle iniziative impren¬ditoriali della vita regionale con i principi e le finalità così nobilmente ispirate dalla Fondazione Carlo Valente e qui ricordate stasera dal Presidente Aurelio, può guardare al futuro, sapendo di essere una delle più belle regioni italiane ma anche una delle più operose e più produttive.
E quindi mentre faccio tantissimi auguri alla Fondazione Carlo Valente che possa realizzare pienamente i suoi fini a favore dei giovani, nel ricordo di Carlo, così formulo per tutta la Puglia, per Bari, per i pugliesi e per i baresi auguri per nuovi, ulteriori, grandi successi. Auguri a tutti e grazie”

Nel ringraziare ancora una volta e di cuore il Presidente Gianni Letta per la sentita adesione alla nostra iniziativa culturale della “Riscoperta di Puglia d’Oro” desidero richiamare la chiusura di Eugenio Marcucci alla biografia di Renato Angiolillo nel volume “Giornalisti grandi firme”. Ricordando Renato Angiolillo come buon giocatore e scommettitore, Eugenio Marcucci soggiunse che: “prima di andarsene (1977), fece un’ultima scommessa, puntando sul suo successore, un giovane di Avezzano, Gianni Letta. e ancora una volta, l’azzeccò in PIENO”.

Aurelio Valente

https://www.epolisbari.com/La_Puglia_doro_di_Renato_Angiolillo-119648.html

Vito Gallotta

La Puglia d’oro di Renato Angiolillo

11 dicembre 2020

Ai giornalisti, ai politici, agli studiosi dell’Italia della seconda metà del ‘900, Renato Angiolillo è un personaggio ben noto. Fondò il giorno dopo la liberazione di Roma e poi diresse il quotidiano Il Tempo, fu talent scout di giovani promesse del giornalismo, come Gianni Letta, fu molto attivo nell’ideare e propugnare insieme con la moglie Maria iniziative politiche; fu dunque un protagonista che lasciò un segno ben preciso sulla politica italiana del dopoguerra.

A tutti è invece ignoto il Renato Angiolillo barese.

Di origini lucane, studiò Giurisprudenza a Napoli e negli anni ’20 si avviò al giornalismo collaborando con il fratello Ugo Amedeo che a Napoli dirigeva il Giornale della Sera.  Dopo essersi fatto le ossa, fondò il settimanale Il Vecchio Paese, di orientamento nittiano.

E quindi liberale aperto alle analisi economiche e allo studio dei problemi sociali. Con il fascismo ebbe difficoltà crescenti ed il settimanale fu più volte sequestrato ed infine soppresso perché di intonazione antifascista. Fondò allora la Casa Editrice Tirrena, che pubblicò una collana di poesia dialettale napoletana ed un’altra di saggi politici. Ma fu costretto a sospendere anche questa attività. Accettò allora la proposta di dirigere la casa editrice Morano di Napoli, ma il dissidio con le frange più estreme del fascismo napoletano lo costrinse a lasciare Napoli.

Si stabilì a Bari perché, da lucano, considerava la Puglia una sua seconda terra natale e per la parentela con la famiglia dell’avv. Amendola. A Bari rimase per tutto il decennio degli anni ’30; vi organizzò un’agenzia di pubblicità e vi svolse qualche collaborazione giornalistica con la Gazzetta del Mezzogiorno. Ma soprattutto elaborò e realizzò il suo progetto “Puglia d’Oro”, che si articolò nella pubblicazione di due volumi, il primo in due edizioni nel 1936 e nel 1937, il secondo nel 1939, fitti di biografie di pugliesi che avevano promosso lo sviluppo della Regione. Il merito della loro riscoperta e del loro rilancio è del dott. Aurelio Valente, che nel 2008 ripubblicò i tre volumi in un unico tomo e che oggi ne sta programmando una riedizione aggiornata.

Ancora oggi la lettura di Puglia d’Oro è di grande interesse. Per due fondamentali ragioni, che si possono definire di ordine quantitativo e qualitativo, cioè per il numero di biografie presentate e per la precisa configurazione economica e sociale della Puglia negli anni fra ‘800 e ‘900 che da esse si può ricavare.

Nei tre volumi di Puglia d’Oro vi sono 324 schede biografiche, organizzate in sei aree tematiche: famiglie, benefattori, professionisti, capi di aziende agricole, iniziatori di attività industriali e commerciali, enti. In ognuna di queste sei aree sono presentati, attraverso minuziose ricostruzioni personali e familiari, i personaggi più significativi della Puglia dopo l’Unità e fino all’inizio degli anni ’30.

Il criterio organizzativo della ricerca è esposto da Angiolillo nella “Premessa”. Evitare “lodi ed aggettivazioni” ed esprimere solo “constatazioni e fatti”. Frasi che possono sembrare semplici ovvietà, ma che permettono di individuare immediatamente la qualità del giornalista ancorato ai fatti e non giocoliere di parole. E i fatti in Puglia sono quelli delle trasformazioni agricole nelle masserie, che non sono più “segnacolo di abbandono e di latifondismo depauperatore”, e di professionisti, commercianti ed industriali che hanno saputo creare solide attività produttive “su cui da quarant’anni poggia l’economia della nostra Terra”.

Angiolillo raccolse la documentazione necessaria per i tre volumi Puglia d’Oro attraverso interviste e fotografie realizzate girando instancabilmente per la Regione, “migliaia di chilometri di percorsi automobilistici”, e dialogando in ogni città con i protagonisti di iniziative proiettate verso lo sviluppo. L’asse economico basilare della Puglia, che emerge con nettezza, è quello dell’agricoltura. In questo settore, Angiolillo segnala coloro che seppero realizzare importanti trasformazioni, quali lo spietramento e il disboscamento delle zone murgiane e l’impianto di vigneti, oliveti e frutteti. La lavorazione e la commercializzazione dei loro prodotti fecero sorgere impianti oleari e vinicoli nelle stesse masserie o nelle periferie dei vicini centri abitati; la loro esportazione fu di stimolo a trasporti via terra e via mare. Le innovazioni in agricoltura furono, quindi, il volano di tutto un processo di crescita e di sviluppo.

Non bisogna dimenticare, però, che negli anni baresi Renato Angiolillo continuò ad essere per la Questura di Bari un “sospetto in linea politica”, per cui fu costantemente seguito nelle sue attività e nei suoi spostamenti. Non importava essere liberale o socialista, borghese o operaio; il punto era aver accettato o meno, essersi adeguato o meno ai principi del fascismo. Chi non lo faceva era potenzialmente pericoloso ed andava vigilato.

Questo suona tanto più strano quanto più si leggono i tomi di Puglia d’Oro. Perché Angiolillo presenta con parole di approvazione l’operato degli agricoltori e degli imprenditori che si erano schierati per il fascismo fin dalle prime apparizioni dello squadrismo. Distrazioni negli Uffici della Questura o del Ministero? Forse, ma penso anche che incise, e non poco, il suo silenzio su Cerignola. Perché, se avesse deciso di parlarne, non avrebbe potuto limitarsi a presentare le trasformazioni colturali dal cerealicolo al vigneto, all’uliveto, al frutteto attuate da Giuseppe Pavoncelli per affrontare la crisi agraria e le conseguenze del protezionismo doganale di fine 800 e diventate esempio e modello seguito dagli altri agricoltori; avrebbe dovuto affrontare successivamente il nodo delle lotte bracciantili, e non dopo la prima guerra mondiale quando il nesso con il modello della rivoluzione russa ne rendeva facile la stigmatizzazione, ma nel primo quindicennio del ‘900.

A Cerignola e poi in Puglia diventò protagonista il giovane e sconosciuto leader della Camera del Lavoro di Cerignola, Giuseppe Di Vittorio. Egli riuscì nell’impari impresa di unire il fronte frastagliato dei braccianti foggiani e baresi, coordinando le attività delle Camere del Lavoro sindacaliste rivoluzionarie, aderenti all’USI e non alla CGL, e facendone la punta di diamante delle lotte dell’epoca. L’atteggiamento di Pavoncelli, ormai avanti negli anni, sarebbe morto il 2 maggio 1910, non fu di chiusura pregiudiziale come preferiva la maggior parte dei proprietari. Pavoncelli era un liberale di solide convinzioni, perciò non guardava tanto alla restrizione della libertà di associazione e di manifestazione per i braccianti come soluzione delle lotte sociali, quanto a strumenti come gli uffici di collocamento per regolare i flussi migratori di braccianti dal Barese verso il Foggiano, che alteravano il mercato del lavoro nel periodo critico della mietitura.

Anche in questo campo, come in quello delle innovazioni colturali, fu un precursore, ma non fu seguito dagli altri proprietari terrieri. La sua morte segnò la fine di ogni ipotesi di mediazione e accordi nei conflitti di lavoro; si affermò invece una linea di severo e duro contenimento delle richieste bracciantili, su cui dopo la guerra sarebbe cresciuto il fascismo agrario.

Suo leader fu Giuseppe Caradonna, che avrebbe guidato il fascismo pugliese nella fase iniziale degli assalti alle organizzazioni dei lavoratori ed ai Comuni governati dai socialisti, fino all’emergere della leadership del barese Di Crollalanza, più propenso alla mediazione sociale.

Ecco la complessità e la pregnanza del nodo Cerignola nelle vicende pugliesi. E col suo silenzio Angiolillo dimostrava di averlo colto bene. Non era possibile limitarsi a presentare le iniziative pionieristiche di Giuseppe Pavoncelli nelle trasformazioni colturali, perché avrebbe dovuto parlare poi delle lotte bracciantili, delle reazioni ad esse, del diverso percorso scelto dai proprietari di Cerignola dopo la morte di Pavoncelli. Fino a giungere a Giuseppe Caradonna, stretto sodale di quei fascisti che lo avevano costretto a lasciare Napoli. Il silenzio su Cerignola non fu perciò una fortuita dimenticanza, fu invece una scelta mirata a non dare rilievo al ruolo di Caradonna e del fascismo agrario cerignolano nelle vicende pugliesi del primo dopoguerra.

Il silenzio su Cerignola non inficia però la  qualità analitica di Puglia d’Oro. Perché la quantità di schede minuziosamente documentate disegna una precisa geografia economica della Regione, che mantiene ancora oggi per quel periodo la sua validità.

Il lavoro di Angiolillo “tra cronaca, giornalismo, storia, pubblicità, impresa editoriale” rimane perciò ancora oggi un importante punto di riferimento sul quale ritornare per approfondimenti e studi. E per Angiolillo, come scrisse Gianni Letta nella sua “Presentazione” alla riedizione del 2008 curata da Aurelio Valente, Puglia d’Oro fu sempre la realizzazione “di cui andava giustamente orgoglioso”.

Il questore:

Le note della Squadra Politica della Questura di Bari costituiscono oggi una preziosa documentazione; di essa si è salvata, però, ed è confluita nell’Archivio di Stato di Bari, solo quella relativa all’anno 1939. Nonostante questo limite, essa rimane di grande interesse. Infatti le note scambiate fra Squadra Politica, Ufficio del Questore e Ministero dell’Interno testimoniano dell’attenzione continua alle sue attività e ne lasciano, perciò, piena documentazione.

Il punto che emerge con chiarezza è l’ossessione, tipica delle dittature, per l’adesione convinta ai principi su cui esse si basano. “Continua a non dare luogo a speciali rilievi con la sua condotta politica, ma non dà neppure segni di ravvedimento e non è iscritto né al Partito, né a Sindacati fascisti di categoria”, scrive il 5 maggio 1939 il Questore di Bari ai Questori di Potenza e Napoli ed al Ministero dell’Interno.

È evidente da quanto scrive il Questore di Bari che Angiolillo a Bari non era impegnato in alcuna attività antifascista, però rimaneva un liberale che non dava “segni di ravvedimento”. E non ravvedersi rappresentava un potenziale pericolo per il regime, perché poteva trasformarsi in opposizione attiva. E poi quel suo girare per la Puglia, quel suo intervistare e fotografare, per un libro era la sua giustificazione; ma come si poteva esserne sicuri? Non c’era che un mezzo per evitare sorprese. Tenerlo sotto controllo. Ed infatti la nota del Questore di Bari del 5 maggio 1939 si concludeva con l’inevitabile affermazione, “Viene vigilato”.

Non importava essere liberale o socialista, borghese o operaio; il punto era aver accettato o meno, essersi adeguato o meno ai principi del fascismo. Chi non lo faceva era potenzialmente pericoloso ed andava vigilato.

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