CAROFIGLIO VITO

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CAROFIGLIO VITO

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Bari, 16 agosto 1935 – 22 ottobre 1996

Uno scrittore francesista tra Milano e Bari

Nasce a Bari all’ombra della Cattedrale, nel Borgo Antico, dove abiterà fino all’età di 25 anni, al conseguimento della laurea in Lingua e Letteratura francese con il prof. Luigi de Nardis. Ancora laureando è assistente volontario di Lingua e Letteratura italiana con il Prof. Ferruccio Ulivi.
Si sposa con Laura Laurora ed ha due figli Franco e Vittorio, entrambi con carriere diverse dal padre: il primo medico ed il secondo architetto.
Nel biennio 1960-62 insegna Lingua e Letteratura francese presso l’Università di Pescara;successivamente vince il concorso di Assistente ordinario di Lingua e Letteratura francese presso l’Università alla Statale di Milano dove si trasferisce e dove resterà con la famiglia fino al 1976, ricoprendo anche il ruolo di docente incaricato presso Facoltà di Scienze Politiche.
Dopo una feconda esperienza di 14 anni presso l’Università di Milano, oltre ad un anno accademico trascorso come docente di letteratura teatrale alla Sorbona, ritorna a Bari nel 1976 vincitore del concorso a cattedra di Professore ordinario di Lingua e Letteratura francese presso la facoltà di Lingue.
Cofondatore e direttore della rivista monografica interdisciplinare di espressione francese Lectures fino al 1989.
Dal 1980 al 1983 è direttore dell’Istituto di Lingua e Letteratura francese e si trasferisce per quattro mesi in Canada dove svolge attività di ricerca sull’insegnamento a distanza e tiene un ciclo di conferenze presso l’Università di Montreàl e del Québec.
È Direttore di un Seminario di Cultura rinascimentale-moderna all’”EcoledesHautesEtudes en Science Sociales” di Parigi.
È docente di Analisi del testo teatrale presso l’Università Paris VIII; Nuovamente Direttore dell’Istituto di Lingua e Letteratura francese presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bari
Nel 1995 fonda a Bari, insieme ad Ernesto Quagliariello, il Centro Universitario per il Teatro, per le Arti visive, la Musica, il Cinema (C.U.T.A.M.C.).
Muore alla vigilia del Congresso Internazionale “L’Europa e il Teatro 2” da lui organizzato. Lascia inediti numerosi scritti, a testimonianza dei suoi molteplici interessi, in particolare nell’ambito della poesia, del teatro e della traduzione.

Onorificenze

• “Illustri Viro” dell’Università di Bari.
• Cavaliere dell’Ordine delle Palme Accademiche dal Ministero dell’Università della Repubblica Francese.
• Ufficiale dell’Ordine delle Palme Accademiche dal Ministero della Pubblica Istruzione della Repubblica Francese.
• Intitolata a suo nome la Biblioteca dell’Istituto di Lingua e Letteratura francese dell’Università di Bari.
• Intitolata a suo nome l’Aula B della Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Bari.
• Intitolato a suo nome un giardino sul Lungomare Imperatore Augusto a Bari.

Attività divulgativa

Ingegno versatile, critico, saggista, poeta, drammaturgo, traduttore, organizzatore di convegni nazionali e internazionali, animatore di iniziative e occasioni di aggregazione sociale e crescita culturale.
La sua attività poetica, per lui primaria, si è manifestata sin dalla giovinezza con composizioni apparse in “Letteratura” (1965), nel “Baretti” (1966), nell’antologia “Lirici pugliesi del ‘900), continuando poi con raccolte edite, postume(“Le forme dell’arte”, Bari 2001) e inedite(tra cui la raccolta “Il papiro assurdo”) in lingua italiana, francese e dialetto barese.
L’attività in ambito teatrale – portata in scena in Italia e all’estero – si è espressa attraverso creazioni proprie (Filosofi in carrozzella, Voltaire pare Voltaire, La macchina di Leonardo, Medea Nova), traduzioni e adattamenti di autori classici: Sarrasine (Balzac); in dialetto barese: La storia di Ruzzulane (Ruzante), La Fèmmena qualùngue (Shakespeare).
Organizzatore dei seguenti Congressi tenutisi a Bari: Jean-Paul Sartre (1983); Carte, Gioco, Divinazione e Scrittura (1986); La Rivoluzione Francese (1989); L’Europa e il Teatro (1994); L’Europa e il Teatro 2 (1996).
Dal 1979 al 1996 ha collaborato con la “Gazzetta del Mezzogiorno” trattando nella pagina culturale prevalentemente argomenti inerenti alla cultura e società francese e alla città di Bari.
I suoi studi spaziano dal ‘500 ai giorni nostri, soffermandosi in particolare su Balzac, Gide, Nerval, Baudelaire, Stendhal, Proust, e sulla letteratura popolare, con particolare attenzione agli aspetti antropologici, filosofici e politici.

Bibliografia parziale

Volumi: saggi e monografie

• André Gide, Poesie, a cura di Vito Carofiglio, Milano, Nuova Accademia, 1964, 158 p
• Nerval e il mito della “pureté”, Firenze, La Nuova Italia, 1966, 193 p
• Balzac e la dialettica del romanzo, Bari, De Donato, 1974, 196 p.
• San Nicola di Bari e di Lorena: una legenda fra scrittura e iconografia, in :AA:VV: Letteratura popolare di espressione francesco dall’ “Ancien Régime” all’Ottocento/Roland Barthes e il suo metodo critico, Atti del X Convegno della Società Universitaria per gli Studi di Lingua e Letteratura Francese (Bari, 6-10 maggio 1981) Fasano, Schena, 1983, pp 51-74
• II volo della strega e la Francia. Saggi di antropologia letteraria, Bari, Edizioni dal Sud, 1985, 215 p. [VSrif. per “Pubblicazioni varie”
• Voltaire pare Voltaire, un dramma (più di uno), Bari, Edizioni dal Sud, 1986;
• Nerval e Baudelaire. Discorsi segreti, Bari, Edizioni dal Sud, 1987, 183 p.
• Honoré de Balzac. Oltre i labirinti del romanzo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1993, 222 p.
• Vito Carofiglio e la Francia. 47 fra gli articoli scritti per “La Gazzetta del Mezzogiorno” dal 1979 al 1996, Bari, Edizioni Dal Sud, 2006

Giuseppe Ponticelli

Vito Carofiglio nasce a Bari il 16 agosto 1935 all’ombra della Cattedrale, nel Borgo Antico, dove abiterà fino all’età di 25 anni. Dopo una feconda esperienza di 14 anni presso l’Università di Milano, oltre ad un anno accademico trascorso come docente di letteratura teatrale alla Sorbona, ritorna a Bari nel 1976, titolare della cattedra di Lingua e letteratura francese presso la Facoltà di Lingue con l’intento di contribuire allo sviluppo della città, nelle sue varie componenti.
In quest’ottica, è instancabile organizzatore di convegni nazionali e internazionali e animatore di iniziative ed occasioni di aggregazione culturale (“Lectures”, Circe, C.U.T.A.M.C., ecc.).
Ingegno versatile – critico, saggista, poeta, drammaturgo – dedica una parte significativa della sua creatività alla produzione poetica in dialetto barese e alla trasposizione e rielaborazione nello stesso vernacolo di testi e autori di varia provenienza, da Brassens a Ruzante a Shakespeare.
Scompare prematuramente il 22 ottobre 1996.

Giardino intitolato a Vito Carofiglio poeta -Lungomare Imperatore Augusto a Bari in bella vista la sua bicicletta Legnano anni ’40, sulla quale sfrecciava felice

LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO DEL 19 GENNAIO 2015

CHE SUD FA di RAFFAELE NIGRO
Carofiglio, un barese tra Milano e Parigi

Un tratto dei giardini sottostanti la muraglia di Bari è stato dedicato a Vito Carofiglio, un raffinato francesista che ci ha lasciato nel 1996 a sessantuno anni. Vito scriveva saggi sulla cultura d’oltralpe testi teatrali in dialetto barese. Ma usava la lingua dell’identità diversamente da come la usa oggi Camilleri, con piccoli intermezzi, a gocce che insaporiscono il suo italiano parlato e basta. Perché il dialetto? La risposta è contenuta in appendice al libro La femmene qualunque pubblicato dalle” Edizioni dal Sud”, dove si spiega che era nato nel borgo antico di Bari da una famiglia non certo agiata e si era formato in quell’humus culturale, aveva parlato da giovane la lingua dei pescatori, degli artigiani e del proletariato urbano.
Il dialetto era una regressione all’adolescenza ma anche un legame a una cultura pre borghese con la quale Vito sentiva di dover fare i conti. Il che non significa che Vito non abbia usato l’italiano a teatro, come leggiamo in Medea Novae Filosofi in carrozzella. Per capirci qualcosa bisogna andare indietro nel tempo fino alla metà degli anni ottanta.
A Bari andava fiorendo ormai da un decennio un teatro dialettale di riscoperta o di nostalgia come è il caso di Jarche vascee Jarche jalde,sulla scorta de La gatta cenerentola ,ma in tono decisamente folclorico,e c’era un teatro di compromissione con la retorica populistica del buon selvaggio o di irrisione del proletariato urbano nel suo difficile tentativo di trasmigrazione verso la borghesia.
Si veda l’interessante documentazione che Antonio Stornaiolo ha offerto nel teatro dialettale barese edito da Laterza L’irrisione avveniva sul piano linguistico, nella risata che scaturiva dall’utilizzo del vocabolario della classe borghese in maniera impropria. Insomma i pescatori e gli artigiani e i disoccupati di Bari vecchia usavano parole di cui non conoscevano il significato e le storpiavano. Un teatro nato tra gusto del trash, nostalgia e irrisione. Un’operazione che aveva avviato la Caravella all’inizio della crisi del dialetto, dai primi anni cinquanta, ma con una ironia non dettata da sussiego e rivolta a un intero corpo sociale non ancora sfrangiato e diversificato come quello di trent’anni più tardi. Era il teatro dell’arguzia popolare, una sorta di commedia dell’arte proiettata in una regione che non aveva tradizione di scrittura teatrale ma solo di consumo della dialettalità napoletana e del teatro di Viviani e di Eduardo.

CULTURA – Vito Carofiglio che aveva trafficato con la cultura alta tra Milano e Parigi nelle cui università aveva insegnato, (ricordo libri importanti su Gide, su Sartre , su Balzac, su Baudelaire, convegni sulla Drammaturgia europea, e sulle Carte da gioco, insomma una serie di esperienze che denotano l’irregolarità di questo intellettuale non organico alla rigidità accademica) sentiva che il viaggio a limite della notte dialettale era estremamente pericoloso.
Pasolini aveva avvertito dai primi anni cinquanta che l’uso del dialetto in poesia rischiava il pantano del nostalgico e della regressione. E questo stava accadendo nella cultura barese, fatta eccezione di alcune esperienze illustri come quelle di Gaetano Savelli, di Vito Maurogiovanni e di pochi altri e in poesia, dopo Davide Lopez, con le esperienze letterarie di Pietro Gatti e di Antonio De Danno.
Carofiglio si poneva il problema di come utilizzare il dialetto in maniera tale da non scadere nel passatismo e da conservare una dignità letteraria, una nobiltà. All’altro capo della penisola Giovanni Testori aveva da poco tradotto in lombardo l’Amleto shakespeariano, recuperando un padano in via di estinzione. E Dario Fo si provava dopo Mistero buffo a scrivere in un padano medievale. Tonino Guerra e Fellini avevano utilizzato lungamente il romagnolo, Pierro era riuscito a portare il tursitano alla dignità del veneziano di Biagio Marino del siciliano di Ignazio Buttitta.
Perché allora non utilizzare il barese? Per dargli dignità letteraria Carofiglio provò a sollevare la sua lingua materna agli esempi alti di scrittura, Ruzante e Shakespeare o ad abbassare quegli esempi colti e mitizzati dal tempo a una lingua bassa e tradusse in dialetto tragedie e commedie. Ruzante diventa Ruzzulane, Shakespeare diventa Scechespirre. Tutto sommato due reinvenzioni geniali. Bari diventa Elsinore o la corte di Londra.Una trasmigrazione che costringe la tragedia a farsi spesso un genere ibrido, grottesco e dove il dialetto tinge di espressionismo le situazioni. Nella traduzione operata da Carofiglio le opere non sono più le stesse.
Perché Vito non è un traduttore ma un trasformatore. Egli stesso ammette che sono opere che lui ha ‘mbregghiate,imbrogliate,alla maniera in cui nel Cinquecento i napoletani si inventarono gli gliommeri,satire para dialettali che toccavano l’alto e il basso espressivo o le farse cavaiole. Accade anche che i grandi monologhi, seppur violenti nella prima traduzione dall’inglese all’italiano, almeno nel caso di Shakespeare, perdano il fascino che ha conferito loro la riconoscibilità, la memoria dei versi. Come accade nella traduzione dei testi omerici e virgiliani quando non li sentiamo nella versione di Pindemonte o di Monti. Ci sembrano estranei.

Infanzia, e dipoi

Là, in quella culla di odori e di canzoni, che è il cuore antico di Bari: ho passato l’infanzia e la giovinezza, ho conosciuto i primi amori, le prime angustie, la paura delle bombe,il freddo di marzo, le ansie degli esami a scuola e all’università e la prima grande gioia sociale:il conseguimentodella laurea col massimo rispetto. Là, gli odori forti e mai delicati: di cucina o di pozzi neri; le canzoni erano napoletane e nazional-popolari e passavano da una casa all’altra, da un piano all’altrove, a volte, da una piazza o via all’altra.
E gli amori sono stati indicibili perché tutti interiori e mai detti alle bambine che si mettevano in mostra ai balconi per prendere il fresco d’estate o semplicemente veder passare la gente, stante il divieto materno o paterno di scendere in strada da sole, ed era uno struggente e ridicolo spiare le belle bionde o brune affacciate alla strada, evitandole spesso e aggirandole dall’altra strada per non essere soggetto al loro sguardo che mi avrebbe /atto incespicare senz’altro inciampo che un piede rispetto all’altro.
E le angustie, quelle della povertà, della lontananza del padre in guerra e poi in prigionia, e poi della sua periodica disoccupazione nei mesi d’inverno; oppure quelle di dover imparare a scuola una lingua difficile, l’italiano, che veniva a sovrapporsi al dialetto dell’educazione familiare; e quelle, le angustie, successive, quando, leggendo il mio destino su un libro impossibile, forse scritto solo nella sua mente, il padre decretava per me l’avvenire degli studi fino all’università compresa e mi rendeva la vita in pari tempo cautelata (da tutte le attenzioni possibili della madre, e, in più, di ogni altro familiare) e difficile (nel solco di quei compagni di scuola e università più avvantaggiati di me dalle condizioni sociali).
E’ là ho assaporato la gioia e l’ansia di partire per un lungo tempo in Francia, dove insegnare l’italiano come assistente in licei di Lione (per l’anno scolastico1959-60) e portare a termine la mia tesi di laurea, discussa al ritorno. Là mi sono fondato — mi hanno fondato. I primi ventisei anni della mia vita – diciamo pure,nell’ipotesi che io possa arrivare a 78 anni come mia madre ( mio padre è morto a 55 anni non ancora compiuti), che un terzo della mia vita l’ho passato a Bari vecchia. Dite se è poco per la mia formazione di base. Il diritto di dirmi oriundo barivecchianonessuno può contestarmelo, se non altro per questo.
Perché fino a tutti gli studi universitari – salvo l’anno in Francia -, là son vissuto. Là ho sognato gli altri paesi attraverso le lingue che studiavo e le letterature europee accanitamente visitate anche per far fronte ai compiti didattici cui la mia sensibilità aveva convinto il professor Ulivi che potevo dedicarmi: quando non ero che studente ancora, per assisterlo nelle lezioni e nelle tesine di letterature comparate che comportava per tutti l’esame di letteratura italiana. Là ho studiato spesso 18 ore al giorno, con grave preoccupazione di mia madre, a ragione, devo dire, perché la mia salute era cagionevole e gli studi l’avevano ancor più resa fragile, anche se avevo una energia apparentemente inesauribile, con la quale, per la verità, giocavo fino al limite della rottura, per ritirarmi, cioè riposarmi, quando avvertivo che, spingendo oltre, sarebbe stato il crack: cioè, l’esaurimento fisico grave o l’esaurimento nervoso.
Là, da quell’ambiente di gioie e di miserie, di suoni: odori fracassi e silenzi notturni, in una casa di appena due stanze per cinque persone – una tutta per me la notte, di tripudio, quella in cui durante il giorno si agglomeravano persone e attività: là si ragionava e mangiava, là si cucinava, là mia madre cuciva a macchina come camiciaia; là, da quell’ambiente ho tratto la mia capacità di astrazione e concentrazione, anche in argomenti filosofici, l’abitudine a interrompere in qualunque momento il /ilo della lettura, di una riflessione, di una scrittura) e a riprenderlo dopo senza molta difficoltà quasi naturalmente,· là ho inventato la mia poesia.
Se sono poeta nel fondo (quindi anche quando scrivo di critica) lo devo a quella iniziazione alla vita del pensiero e del sogno, in un quadro di forte sollecitazione umana, di pulsazioni popolari quasi allo scoperto. E là, irrazionalmente, devo dire, col pensiero tendo a tornare. Ma ormai: salvo per alcuni parenti che là risiedono ancora nelle case paterne-materne (le zie materne e paterne rimaste nubili, o cugini), e per alcune persone che sopravvivono e con le quali ho avuto rapporti diversi allora, io non sono più nessuno: e il massimo del colmo t ho provato) come barese verace orgoglioso di esserlo, quando, ai piedi di Santa Scolastica, avendo posteggiato sul lungomare per andare a far visita a una mia zia la cui casa s’affaccia sul mare nella piazzetta antistante quel meraviglioso edificio, l’abusivo di turno esigeva da me la piccola tangente d’uso e, sentendomi parlare in dialetto – per dirgli che lassù ero nato (mentivo, son nato all’ombra della Cattedrale) -, faceva incredulo: «Ma vattìnne, tu sìjune de Molfette, e me uèpigghià pe fèsse a mè!». Al che offeso, io: «Ohè, t’avi’ss’a permètte n’anda volde de dìsceme ca sò de Molfètte – ca no m’u à ditte ma nesciune!») ed era vero: perché mai nessuno, a me, ha dato del molfettese: sia detto senza nessuna o/fesa per i molfettesi: ma la circostanza richiedeva una precisazione doverosa, tale era la mia sorpresa, e perfino lo scandalo per aver perso l’immediato riconoscimento di origine da parte di quello sprovveduto: così mi appariva in quel momento, mentre dopo ho dovuto ammettere che la questione era ormai mia: non ero riconosciuto come nativo perché forse – certamente – il mio accento barese è un po’ cambiato, ma non — perdio! fino a farmi arrivare a quello di Molfetta. Evidentemente, quel posteggiatore abusivo deve aver sentito poco i molfettesi nel loro dialetto.
Ma allora, per chi sono ”barese di Bari vecchia”, come insisto a dire di sentirmi? E pensare che volevo candidarmi: nelle elezioni comunali, con i miei titoli di legittimità nel difendere le ragioni del borgo antico di Bari, per farlo ritornare luogo vivibile, col senso dell’ onestà e dell’onore, dell’amicizia e del rispetto per i forestieri visitatori e per i passanti d’ogni genere, ‘passeggeri”, come dicevano le iscrizioni delle edicole religiose per invitare a dire una prece a questo o quel santo, o a una delle tante Madonne, di cui la mia immaginazione s’è riempita in quei tempi: con le cantilene di mia madre, della nonna materna e delle zie (la nonna paterna era già morta alla mia nascita, e la sua immagine tuttavia è stata coltivata con frequenti ricordi del suo spirito caustico, che veniva fuori feroce quando, ai “passeggeri” che passavano davanti – mentre era seduta fuori sulla porta di casa, a prendere il fresco col manto nelle sere d’estate – e non salutavano che il marito: «Buona sère, ‘mbaVetùcce», replicava: «E l’ alde sò fisse!»).
Ora è troppo tardi: forse. Non mi resta che ricordare e mantenere i ricordi ritornando a un dialetto letterario, attraverso cui ritrovo me stesso e gli altri: aggirandoli: aggirando me stesso, con mediazioni europee. In fondo in fondo, mi ritrovo ormai me stesso e un altro. E l’altro è quello che appare ai più: quel posteggiatore antipatico, che mi dava del molfettese, è divenuto per me uno specchio di quel che sono divenuto e una metafora della mia stessa mutazione. Allora, in fondo in fondo, non sono più me stesso? Che imbroglio essere e parere! e soggiacere allo sguardo, all’ascolto e al giudizio dell’altro! Ma il problema esiste solo perché l’altro lo pone, anche scanzonatamente. Allora, la mia libertà e la mia coscienza mi dettano di fingere che il problema non esista per me. Solo a questa condizione mi torna il desiderio di ritornare là1 per il solo gusto di essere dentro e fra, e uno di loro, a pieno titolo e con lemigliori intenzioni restauratrici.

Bari,01.08.1993 Vito Carofiglio

Appendice a “La Fèmmena qualùngue Tiàdre cioè: Scèche-SpìrreGugliélme veldàte a la barése e ‘mbregghiàte da Vite Carofiglie” Edizioni dal Sud, 2000

Un ricordo della moglie Laura

“Sandokàn, Sandokàn!!!”, raccontava divertito che così cantavano, secondo la famosa canzone di quegli anni, i ragazzini quando lo vedevano sfrecciare felice sulla sua bicicletta Legnano anni ’40, fronte abbronzata, barba e capelli lunghi al vento.
Usava la sua bici quotidianamente sin dagli anni di Milano, dove l’aveva comprata di seconda mano, quale mezzo di trasporto principale per recarsi all’Università.
Le sue convinzioni ecologiste, insieme alla sua attività politica legata al sociale, lo portarono a organizzare con Giorgio Nebbia, Arturo Cucciolla ed altri, iniziative come la “Marcia Verde” per la realizzazione del “Parco di Largo Due Giugno” a Bari.
Amava prendersi cura del giardino di casa, attività durante la quale rielaborava i suoi pensieri e prendeva ispirazioni da riportare prontamente nel suo lavoro intellettuale.
Non mancava mai di avere in tasca un taccuino, o anche un semplice pezzo di carta, su cui annotava ogni cosa che lo incuriosiva e che poi lasciava come semplice annotazione o sviluppava in brevi racconti, pensieri, poesie. E spesso capitava sentirlo alzarsi la notte per fissare un verso o un’idea che diceva rodergli “il cervello come un tarlo”…

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