CLAUDIO DINO

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CLAUDIO DINO

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Molfetta, 7 agosto 1931

Poeta, narratore, esordì con poesie (Autunno e Puglia) ed altre opere (tra poesia e narrativa), come il romanzo corale”L’eredità degli esclusi”

Poeta, narratore, provveditore agli Studi, originario di Molfetta ma residente a Roma; esordì con la raccolta di poesie Autunno e Puglia, a cui seguirono altre opere, tra poesia e narrativa, come il romanzo corale L’eredità degli esclusi.[1]- Romanzo che ebbe un notevole riscontro e lo portò a collaborare con numerose testate letterarie come Paragone e La Fiera Letteraria.
Inclusa nella Storia della civiltà letteraria italiana (UTET 1995) diretta da Giorgio Bàrberi Squarotti, la sua opera è stata anche oggetto di tesi di laurea presso l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Bari.

Onorificenze

Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana
«Di iniziativa della Presidenza del Consiglio dei Ministri» Roma, 2 giugno 1982

Opere

Narrativa
• Dino Claudio, L’eredità degli esclusi, Bologna, Cappelli, 1965.
• Dino Claudio, Il Provveditore, Caltanissetta, Sciascia, 1984.
• Dino Claudio, Le stelle pazze, Roma, Bulzoni, 1994.
• Dino Claudio, L’isola di Cicno, Bari, Palomar, 1997.
• Dino Claudio, Tardone, Napoli, Guida, 2000.
• Dino Claudio, L’Alba dei Vinti, Venezia, Marsilio, 2002.
• Dino Claudio, La tempesta invisibile, Napoli, Medusa, 2014.

Poesia
• Dino Claudio, Autunno e Puglia, Padova, Rebellato, 1963.
• Dino Claudio, Fine di un’amicizia, Roma, De Luca, 1970.
• Dino Claudio, I sentieri del vento, Bari, Laterza, 1974.
• Dino Claudio, Il bosco illuminato, Pisa, Giardini, 1993.

Bibliografia
• Emerico Giachery, Per Dino Claudio, in “Critica letteraria”, n. 94, a. 1997, pp. 121-127
• Renzo Frattarolo, Dino Claudio nel Novecento letterario italiano / Testo e bibliografia aggiornati al giugno 1999, Molfetta, Mezzina, 1999
• Giuseppe Farinelli, La poesia di Dino Claudio, in “Otto/Novecento”, n. 3, settembre-dicembre 2003
• Bruno Rossi, Dino Claudio: il dolore e la luce, Roma, Bulzoni, 2005

Dino Claudio,un poeta che da molti anni si è allontanato dalla Puglia ma che con la Puglia continua ad avere rapporti attraverso i pochi familiari che qui gli sono rimasti. E’ nato nel 1931 Claudio, esponente di quella generazione in viaggio che ha vissuto tra ricerca del nuovo e nostalgia del passato,da Biagia Marniti a Marino Piazzolla a Raffaele Carrieri e a Giuseppe Cassieri. Scrittori che hanno trovato una prima sistemazione a metà anni settanta nelle antologie di Accrocca e Ulivi sui Narratori e poeti della Puglia e che solo il repertorio di Pasquale Sorrenti sui pugliesi illustri del Novecento ha salvato da un dimenticatoio senza rimedio. In fondo una rubrica come questa ha proprio il compito di sollevare la polvere che rischia di accumularsi su uomini questioni temi a volte affondati nel sommerso.
Per quanto è improprio parlare di sommerso a proposito di Claudio,che ha goduto di una fortuna critica nazionale alla quale la Puglia è stata resa avvertita solo negli ultimi anni,quando Francesco Tateo se n’è occupato in “Esperienze letterarie”, Pasquale Voza ha dato le prime tesi di laurea e la rivista “Incroci” ne ha pubblicato qualche estratto.
Poeta e narratore appartato,che vive l’esistenza se non come un fastidio come un luogo da percorrere con la mente e lo sguardo a quella eternità da cui veniamo e alla quale siamo inesorabilmente destinati,Dino Claudio ha espresso la sua opposizione alle correnti avanguadistiche del 900 già nelle raccolte La strada e la montagna,edito a Bari nel ‘58 e Autunno e Puglia,( Padova 1963). Testi nutriti di modelli classici e volutamente desueti,ancorati per scelta a una tradizione novecentesca che vuole porsi contro l’impegno della neoavanguardia in quanto protesa a discutere sull’essere e sui valori assoluti. Versi nati nella memoria di una terra che è il luogo dei miti magnogreci e approdanti a una poesia dalla compostezza classica, come hanno scritto Manacorda, Giachery, Barberi Squarotti.Una compostezza che esula dalle preoccupazioni di rinnovamento formale e dalle sperimentazioni e che è solo preoccupata di testimoniare il silenzio della riflessione infinita e la solitudine che nasce dinanzi all’effimero nel quale siamo collocati. E’ questa la tensione poetica dei Frammenti all’amica perduta,di Fine di un’amicizia e de I sentieri del vento.Una poesia che affonda le radici nella scrittura di Kierkegaard e di Kafka e in cui il rimpianto è per la perduta fede nello spirito e nella ricerca di rapporti tra spiritualismo e titanismo cristiano,nel rapporto con la memoria e con le ragioni del nostro essere qui,a tracciare le orme di una storia individuale e collettiva che sembrerebbe non avere senso. Che ragioni abbiamo a continuare se intorno a noi c’è il vuoto totale? Se il nulla ci abbraccia e ci consuma? Ma che ragioni abbiamo se sganciati dalla teologia del peccato e della redenzione siamo qui in attesa solo che si consumi la vita per conoscere il senso di tutto? Questi interrogativi tornano nei versi de Il bosco illuminato,nella Lettera dall’Abruzzo e ne La Cerva d’oro,dopodiché Claudio ha deciso di votarsi definitivamente alla narrativa. Una narrativa che non si discosta nei temi dalla poesia.
La passione del narrare si era palesata molti anni fa,nel 1965,con La via degli esclusi,sempre la ricerca del fondamento dell’esistenza,la voglia di risvegliare la coscienza del lettore dalla polvere che il conformismo ha gettato su di lui, un dialogo serrato con filosofi come De Unamuno e Sartre. E l’utilizzo di una scrittura desueta,che sfugge alla logica del “romanzo medio di qualità”. Temi che se si distraggono dalla domanda sul fondamento e sull’Essere,spaziano nell’analisi della ricostruzione morale e materiale degli ultimi cinquant’anni. Il tormento di un impiegato del ministero in L’albero nudo,che è del 1977 e la denuncia dei mali in cui versa la scuola e della crisi profonda della nostra società. Temi che tornano ne Il provveditore,racconto dalle forti tinte autobiografiche scritto nel 1984 e nel quale il pretesto è dibattere i decreti delegati della legge Malfatti ma in realtà raccontare la condizione di solitudine in cui versa il dottor Armani, l’alter ego di Dino Claudio,che non sa gettare la spugna di fronte allo sfacelo della scuola e intanto non riesce a coniugare la sua fame di infinito,la domanda sull’essere e sulle ragioni della vita con la contingenza del momento. Se il compito di un docente è formare,che senso ha l’impegno di fronte al nulla e dunque all’inutilità del tempo che consumiamo tra visitare un ipermercato, tornare ogni giorno in ufficio,arrabattarci nella banalità quotidiana della vita? Ma intanto il presente incalza,la cronaca si fa stringente e comunica un bisogno di intervenire sul sociale. Tutto questo è nel romanzo L’isola di Cicno,del 1997. Ora il narratore si accorge che mentre si interrogava sulle ragioni ultime i barbari hanno invaso il villaggio globale,la distruzione è dappertutto, lo sconquasso nell’ambiente,nei nostri ricordi,nella morale,nella gestione delle nostre interiorità. Nasce una sottile ironia sui tempi che viviamo e sulle nevrosi del momento in Tardone, del 2000,fino al romanzo ultimo,L’alba dei vinti,pubblicato nel 2003 e al quale sono andati il premio Minturno e il Fiorino d’oro. I vinti siamo noi,figli di un tempo che non sa ribellarsi al degrado morale e sociale, addormentati in un consumismo delle idee e della morale e privi di voglia e di capacità a compiere un qualunque salto in grado di ricostruire uno statuto di valori umanizzanti. I vinti siamo noi distratti e incapaci di pensare che tutto questo che attraversiamo non è il fondamento,ma il contorno,il davanzale di una finestra che guarda la nebbia. Una coltre spessa,oltre la quale ci sono forse le risposte che attendiamo da sempre.

Dino Claudio è nato a Molfetta e vive attualmente a Roma dopo aver svolto le funzioni di Provveditore agli Studi in diversi capoluoghi italiani.
La sua vocazione più autentica si è rivelata sempre quella letteraria, come dimostrano i numerosi titoli della sua produzione e gli apprezzamenti estremamente lusinghieri dei critici più esigenti che gli hanno dedicato numerosi saggi. La sua bibliografia della critica si compone di circa 300 interventi. Presente in molte antologie la sua opera è stata oggetto di tesi di laurea da parte della Università Cattolica di Milano e per due volte nella Università di Bari. È inoltre ottimamente collocato nella storia della civiltà letteraria italiana (UTET 1995) diretta da Giorgio Bárberi Squarotti.
Opere pubblicate:
Autunno e Puglia, poesie, Rebellato 1963; L’eredità degli esclusi, romanzo, Cappelli 1965; Fine di un’amicizia, poesie, De Luca 1970; Rapporto scrittore-lettore e società contemporanea, saggio, Opera Aperta 1970; L’Albero Nudo, romanzo, Cartia 1977; Il Provveditore, romanzo, Sciascia 1984; I sentieri del vento, poesie, Laterza 1984; Il bosco illuminato, poesie, Giardini 1993; Le stelle pazze, romanzo, Bulzoni 1994; L’isola di Cicno, romanzo, Palomar 1997; Tardone, racconti, Guida ed. 2000; L’Alba dei Vinti, romanzo, Marsilio 2002 (Premio Firenze-Europa 2004); Pentagramma del vento, Lepisma 2008, poesie – opera omnia; La tempesta invisibile, romanzo, Medusa 2014; Incontri nella nebbia, Genesi editrice, 2017, romanzo.
Profilo critico:
La sua poesia si sviluppa nell’affascinante risonanza di lontanissimi echi e richiami di ripresa classicità evocatoria nella quale ritorna, sottratta ad ogni misura cronologica, l’immagine antica di una grecità omerica, mitica e remota rievocata con commozione e restituita a una stillante modernità.
I suoi romanzi presentano una grande varietà di temi e interessi sui quali dominano sovrane una forte tensione morale e la centralità del problema escatologico. Per tale produzione, svincolata da ogni provincialismo, a Dino Claudio compete un posto non secondario nel panorama letterario del nostro tempo.
Il romanzo L’Alba dei Vinti che si legge d’un fiato per l’avvincente qualità stilistica e linguistica sta ai vertici dell’arte letteraria di Dino Claudio. La critica ne ha puntualizzato la distanza dagli sperimentalismi della contemporaneità, la forza catartica e simbolica, il livello alto dello scioglimento finale, il sorvegliato gioco di metafore visive e uditive, la dimensione classica della struttura, il vigore epico della narrazione.
A chi volesse approfondire la figura e l’opera di questo scrittore così singolare si consiglia il saggio di Bruno Rossi Dino Claudio – il dolore e la luce (Bulzoni 2005 – pp. 416). Il saggio, corredato da un’ampia e preziosa bibliografia della critica evidenzia l’ontologia dei valori e l’esistenzialismo cristiano come i veri motivi unificanti della sua prosa e poesia, e pone lo scrittore nella condizione del dolore, ma su uno sfondo di cieli aperti, di orizzonti di luce: “elementi essenziali che configurano in modo apodittico e indelebile un creatore autentico visitato dalla grazia” (B. Rossi).

Libri dell’autore

Incontri nella nebbia

titolo: Incontri nella nebbia
autore: Dino Claudio
editore: Genesi Editrice
formato: Libro
genere: Narrativa Italiana e straniera
collana: Le Scommesse, 476
pagine: 160
pubblicazione: 11/2016

Prefazione
Un artista disegnatore, di cui restano oscure le generalità, si reca in treno a Roma quattro giorni prima di Natale per ricevere un incarico dal suo editore. Deve progettare la copertina di un romanzo il cui autore è una fiamma dal duplice corno, si chiama Stefano Urbani ma è anche Friedrich Hansen. L’ambiguità della fonte creativa scatena un’ansia inquisitoria nel protagonista che si mette in cerca dello scrittore, presentatogli sommariamente nell’ufficio editoriale. E da lì inizia l’anabasi del romanzo che si svolge e si intreccia in una Roma incantatrice ed enigmatica, avvolta nella nebbia che sfuma i contorni delle cose e delle persone. È una nebbia talvolta pungente, come puntura di tormentosi aculei, e talaltra protettrice, con morbide folate equoree. Insieme alla nebbia, di cui è ovvio il valore metaforico di anfibologia occludente le forme e i significati della realtà, l’autentico protagonista della vicenda è la città di Roma, le sue piazze, le sue fontane, i suoi palazzi, ma anche i vicoli, gli angoli e gli androni, e poi le scalinate, le statue, le testimonianze storiche, i vestigi imponenti dell’antichità oppure i ruderi che il tempo ha eroso, e per finire si aggiunga l’anelito della natura che soffia il suo respiro attraverso tanta storia di civiltà: il volo nel cielo e il verso nell’aria degli uccelli, il fruscio degli alberi, il gioco luminoso e ombroso delle luci, con l’alternarsi del giorno con la notte, del sole con la luna.
È evidente il sottaciuto richiamo autobiografico espresso nella figura del protagonista innominato, il quale è la proiezione di un alter ego dell’autore, ma lo sguardo di Dino Claudio sul mondo si oggettiva in una reificazione dei sentimenti e delle situazioni umane, totalmente affrancata dalla confessione personale: come bene dice Alessandro Bitetti è “lo sguardo di un meta-io-lirico, dotato di un superiore distacco, che avvolge la struttura della poesia, nascondendo l’elemento biografico fino a farlo scomparire”.

Nel romanzo Incontri nella nebbia si ritrovano i motivi fondanti della produzione letteraria di Dino Claudio, autentico ultimo dei moicani, fra i grandi autori italiani della fine del Novecento e inizio del Duemila, che hanno avuto il coraggio e la competenza di trattare le questioni vaste e profonde della letteratura: la definizione della realtà, il problema gnoseologico della conoscenza, la ten¬sione metafisica cogente nell’animo uma¬no, l’olocausto inspiegabile del dolore gratuito. Il binomio dolore e luce, come ha illustrato Bruno Rossi nel suo illuminante saggio critico Dino Claudio. Il dolore e la luce, è centrale nella poetica dello scrittore, molfettese di origine e romano di adozione.
C’è in Claudio la luce derivante da una sicura visione metafisica dell’esistenza, orientata verso lo sbocco conclusivo di palingenesi e di salvazione. Ma c’è in lui anche l’orrore per il trionfo continuo del male, per il prevalere della stupidità sull’intelligenza, per lo spregio della bellezza, per la violenza ai valori della cultura e della libertà, per l’inutile spargimento della sofferenza che la storia umana impone principalmente ai deboli e ai derelitti, ma anche a coloro che incautamente o boriosamente si credono dei privilegiati della storia e la cui vicenda umana non si eleva dal destino di miseria e di dolore che tocca a tutti gli uomini.
L’unica possibilità di salvazione è la scala di innalzamento verso il cielo che è descritta nel sogno rivelatore della grande letteratura e, più in generale, della grande arte. Ecco, quindi, l’importanza di sapere coltivare il sogno, come capacità di immaginazione rivelatrice della sopra realtà accessibile solo nella creatività dell’arte, che rende, quindi, l’uomo “nipote a Dio”, come indicato da Dante. Il respiro classico di tutta l’opera di scrittura di Dino Claudio, tra prosa, poesia e saggistica, non è né un vezzo da erudito né un dono naturale, ma è dettato dall’imprescindibile necessità di arare profondamente l’intero flusso mitico della storia umana per fare sbocciare come rigogliosa messe l’aspirazione metastorica che è contenuta nelle radici profonde della realtà. L’aratro usato da Dino Claudio è ovviamente la parola che in lui, come ha sapientemente evidenziato Giorgio Bárberi Squarotti, diviene un autentico “strumento di conoscenza” e di “creazione” del mondo.

Sandro Gros-Pietro

http://www.quindici-molfetta.it/aneb-molfetta-dino-claudio-tra-poesia-e-narrativa-nel-900-italiano_28430.aspx

Autore: Giulia de Vincenzo

Nel corso di un incontro tenutosi a Molfetta nel marzo 2013 presso la sede dell’Associazione educatori benemeriti dedicato al poeta molfettese Dino Claudio è stato ricordato che , dopo aver svolto le funzioni di Provveditore agli Studi in diversi capoluoghi italiani, il nostro poeta si è dedicato alle sue opere, per le quali ha sempre avuto il sostegno della critica. Da segnalare che oltre trecento studi hanno trattato delle sue opere, comprese due tesi di laurea assegnate presso l’Università degli Studi di Bari e l’Università Cattolica di Milano rispettivamente dai relatori Pasquale Voza e Giuseppe Farinelli.
Nella relazione della prof . Vittoria Sallustio è stato sottolineato che probabilmente non ha ricevuto il sostegno della grande editoria, la sola che possa assicurare il battage pubblicitario e la notorietà nella produzione letteraria odierna.
Dino Claudio ha dedicato tutta la sua vita agli studi e alla letteratura, in una duplice attenzione per la poesia e per la narrativa. Significativi sono stati i brani narrativi di Claudio letti dalla voce penetrante dell’attore molfettese Francesco Tammacco de “Il Carro dei Comici”.
Sia nella produzione poetica, incentrata tra le due raccolte «I sentieri del vento» (1984) e «Pentagramma del vento» (2004), sia in quella narrativa («L’albero nudo» del 1977, «Le stelle pazze», del 1994 e «L’isola del Cicno» del 1997) risulta evidente la presenza della natura, con i ricordi dell’’infanzia dell’autore e della sua famiglia, sfollati nelle campagne durante la Seconda Guerra Mondiale.
In particolare sono descritti i paesaggi della Puglia e l’animo delle genti meridionali, legate dalle pesanti vicende delle guerra e costrette a restare nel chiuse delle case.
Circa la sua ispirazione è stato fatto riferimento al doloroso sentire leopardiano ed all’intimismo del Pascoli, con la sottolineatura della appropriata scelta di vocaboli semplici, che conferiscono alla sua produzione, compresa quella poetica, una grande capacità comunicativa, che rimane anche nel ricordo del genere della favola mitologica, come nel romanzo «L’isola di Cicno», che è stato illustrato dalla prof.ssa Sallustio come un’opera che potrebbe considerarsi come il punto centrale nel percorso letterario di Dino Claudio, osservatore critico ed attento del nostro tempo, pronto a rappresentare il disagio dell’uomo nella nostra società.

Ancora su “La tempesta invisibile”

Canto per l’eternità

Nell’ultimo romanzo di Dino Claudio tornano alcune caratteristiche costanti dell’opera dello scrittore e poeta pugliese. La continuità tra poesia e narrativa, il tema del silenzio, la religiosità… Il tutto tenuto insieme in un impianto avvincente
Ritornano in questo ultimo romanzo di Dino Claudio, La tempesta invisibile (Edizioni Medusa – vedi anche http://www.succedeoggi.it/?s=Dino+Claudio), alcune caratteristiche costanti della sua opera. Innanzi tutto quella che Donato Valli e con lui la critica più avvertita ha sottolineato: la continuità sostanziale tra la poesia e la narrativa. In secondo luogo il motivo del silenzio a proposito del quale non a caso Bruno Rossi, che ha dato una significativa indicazione della «classicità trasgressiva» nell’opera di Dino Claudio, intitola Silenzio e parola un capitolo della sua monografia Dino Claudio. Il dolore e la luce (Roma, Bulzoni). Già Giuliano Manacorda nella sua prefazione a I sentieri del vento faceva delle osservazioni interessanti a proposito del tema del silenzio. Forse – scriveva Manacorda – proprio da questa situazione estrema, che apparentemente non avrebbe scampo nel suo precipitarsi verso il nulla, nasce la poesia, non come enunciazione di quella disperazione, ma come sua liberazione, o per dir meglio la poesia come pronuncia cosciente di una convinzione e suo immanente superamento, dato che la convinzione era quella del dominio, invocato o subito, del silenzio totale. Da questo consegue una «lotta tra parola e silenzio» che a giudizio del critico riguarda la totalità della sua personalità umana e poetica.
Dicevamo che ritornano alcune caratteristiche costanti. Ma quest’ultimo romanzo di Dino Claudio è stato per me una piacevole sorpresa. È un libro che presenta infatti, pur nella profondità e complessità delle problematiche sul senso della vita, dell’uomo e della presenza di Dio nel mondo, che sono del protagonista, un impianto narrativo solido e insieme agile che permette al lettore di procedere con vivo interesse, senza intoppi fino alla fine. Le riflessioni sulla vita e sul senso del nostro essere in questo mondo, la beffa del tempo, l’enigma metafisico, la coscienza del male, di leopardiana memoria, proposte sotto forma di diario nel contesto di un monologo di ascendenza appunto leopardiana, non pesano, non interrompono o spezzano il fluido svolgimento della narrazione, come, del resto, le considerazioni sulla religiosità del protagonista.
Silvano è uno che ritiene di «non essere più cattolico» anche se, gli dice l’amico Rik, «il cattolicesimo ce l’hai nel sangue» (p. 79), è un ex cristiano («Crede che un ex cristiano può tornare a Cristo con una bella predica?», p. 174-175), anche se la sua negazione di Dio è in qualche modo un’affermazione. Il dialogo, o meglio il discorso che fa a Dio non può non far pensare alla ricerca dostoevskiana di Ivan nei Fratelli Karamazov: «Forse ti annoieranno un poco queste mie perplesse riflessioni, ma [… ] sono stato proprio costretto a pensare che la tua vacanza tra gli angeli è durata troppo a lungo, a ricordarti che gli uomini sono tue creature e che ormai è ora che ti comporti come un padre» (p. 224). A questo proposito Dino Claudio in un’intervista ha affermato che il protagonista del suo romanzo «è piuttosto un figlio che guarda con livore al padre». Il discorso sul suicidio viene portato avanti in tutto il libro da Rik, quella figura dell’amico carissimo dai tempi degli studi universitari che è, a nostro avviso, una sorta di alter-ego del protagonista – hanno vissuto insieme una giovinezza ribelle e alternativa, poi il nostro ha cercato e trovato, o almeno si illude di aver trovato, una dimensione ‘normale’ mentre l’altro è caduto sempre più nella droga fino alla pazzia che lo porta in manicomio. Silvano cerca sempre di opporgli motivazioni contrarie al suicidio. E alla fine per Rik c’è una sorta di ancora di salvezza nella sorella che lo porta con sé a Londra. È Silvano invece, quando non ci aspetteremmo una tale scelta, perché sente la responsabilità di stare vicino al figlio tanto simile a lui, sconvolto dall’abbandono della madre, che decide di farla finita. Certo il suicidio è un atto sconcertante e tuttavia non è dettato da una volontà di annientamento o di sfida a un Dio negato e cercato, è invece una scelta d’amore, fatta nella convinzione che sia l’unico modo per raggiungere e stare accanto a quel figlio che lui crede ormai morto.
Passiamo ora un momento a considerare le figure femminili nel libro. Quella più importante, la moglie, è assolutamente negativa. Le stesse figlie sono in parte succubi di questa, specie Carla che sopravvive alla sorella Marina vittima di un incidente assurdo e tragico – si può notare però che anche in questo caso la colpa è della madre, che insiste a far partecipare la figlia alla gara di nuoto, contro il parere del padre. In proposito si potrebbe sostenere che nel protagonista è presente una sorta di complesso di abbandono, che nella donna più che una compagna paritaria egli sembri cercare sempre la madre, e che a questo complesso risponda anche il bisogno di essere abbracciato persino dalla natura, dalle cose inanimate: «Nel cuore mi si scioglie una disarmata voglia di carezze e le chiedo alla strada, ai muri addormentati dei palazzi, alle statue, agli scrosci delle fontane, all’aria stessa della notte che reca alle mie labbra non so che pollini di perduti fiori di loto» (p. 93). Quest’ultima bene esemplifica la caratteristica che in questo romanzo colpisce maggiormente e che ci rivela in pieno l’animo poetico dello scrittore, la descrizione di Roma, una Roma notturna, tra statue e fontane, che è stato d’animo del protagonista, ma è insieme reale, colta con una maestria veramente notevole, con splendidi sfondi paesaggistici che ci fanno pensare al migliore D’Annunzio
Non vanno nemmeno dimenticate le belle descrizioni paesistiche della Puglia, in quel ritorno di Silvano al paese natale e alla madre che sembra veramente aprire un nuovo spiraglio di speranza nella vita del protagonista. Basti un solo esempio: «Il mare a poco a poco cambia in musica il suo fragore, gli schianti si fanno ritmo di culla ed in me la girandola dei pensieri sconfina ormai in visioni oniriche. Sono come un sasso dimenticato tra le erbe silenziose del Partenone. Su di me, tra le colonne diroccate, monche architetture e un grande cielo azzurro. E in quell’azzurro mi perdo, e mi addormento» (p. 200). Qui l’ungarettiano riferimento alla pietra “disanimata”, come altrove i riferimenti leopardiani, lungi dall’essere dei banali richiami, diventano anima e sangue: «La morte si sconta vivendo». Tutte le descrizioni non sono mai fini a se stesse, sono piuttosto come una distensio animi, servono a dare la nota giusta al momento giusto, a preparare il seguito della narrazione, che procede, lo ripeto, con vivo interesse e senza intoppi fino in fondo. E non è poco. Per concludere, veramente significativa è l’epigrafe agostiniana posta all’inizio, che, al di là della sua valenza religiosa, esprime, come meglio non si potrebbe, la tensione verso l’assoluto che è propria anche di quest’ultimo romanzo di Dino Claudio: «… Per cantare il canto/ Nuovo debbo amare le cose eterne».

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