MORO ALDO

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Una premessa
La bibliografia su Aldo Moro si è fatta alluvionale anche in ragione dell’affastellamento di monografie, atti parlamentari, ricerche, saggi, pamphlet dedicati al tragico epilogo della sua vita. Non manca, tuttavia, una saggistica importante che ha ad oggetto l’approfondimento del suo pensiero politico e del ruolo centrale che seppe svolgere per lunghi anni nella vita pubblica del nostro Paese. Per un attingimento al vasto materiale bibliografico si rinvia alle diverse e meritorie attività di catalogazione della pubblicistica dedicata allo statista, in vista di una bibliografia esaustiva, presenti anche online.
La nostra trattazione della voce, oltre a fornire essenziali note biografiche sullo statista, privilegerà tre aspetti: il suo rapporto con la Puglia, il suo rapporto con le giovani generazioni, il suo ruolo nell’assemblea costituente. Il suo rapporto con la terra d’origine rappresenta una chiave fondamentale per comprendere ed interpretare aspetti fondamentali della sua politica, a cominciare dalla particolarissima visione meridionalista. Il suo rapporto con i giovani rappresenta anch’esso un’ermeneutica originale, che conduce non solo alla comprensione della dimensione accademica di Aldo Moro, ma anche al riverbero che questa dimensione ebbe sull’azione politica dello statista.

 

Moro e la Puglia
Il rapporto di Moro con la terra di Puglia fu intenso e durò quanto la sua vita, che, come accade per le personalità politiche dalla vocazione autentica, intersecò dimensione pubblica e dimensione privata fino a non poter più separare l’una dall’altra. Al di là del dato anagrafico – salentino per nascita ma barese per studi, impegno fucino, crescita politica – Moro fu un pugliese identitario, nel senso dell’appartenenza ad una terra che si rispecchia volentieri nel suo “levantinismo”, inteso come apertura al confronto con altre culture e a traffici mercantili. Ma quella identitaria fu una scelta culturale matura, non una necessità legata al cursus honorum della politica del tempo, che prevedeva la salita alle alte cariche dello stato partendo dal basso, dai consigli comunali, per poi passare agli enti locali superiori ( provincia e, dal 1970, regione), prima di assurgere alla dignità politica nazionale. A differenza della maggior parte dei leader del dopoguerra, infatti, Moro venne chiamato da subito a ricoprire il ruolo nazionale, senza mai passare dai livelli elettivi locali. Il che concorse ad assecondare un approccio alla politica non condizionato da necessità gestionali e amministrative parziali, ma libero di muoversi nel più largo contesto italiano.

 

 

In questo quadro, pertanto, il senso di appartenenza al territorio pugliese si declina non come il rapporto di patronage ( inteso in senso positivo, come cura assidua e attenta ai problemi collettivi ed individuali) garantito, ad esempio, da Colombo alla vicina Basilicata, bensì come incontro e condivisione con il popolo pugliese, di cui si sentiva parte, avendo riguardo ad un’azione politica di prospettive più larghe e caratterizzate da una moderna visione meridionalistica, incastonata nel contesto della politica euro-mediterranea.
Il rapporto con il popolo pugliese si fa concreto effetto istituzionale con la raccolta del consenso nelle campagne congressuali della DC e, ancor di più, nelle campagne elettorali alla Camera. Una collezione assai cospicua di testimonianze fotografiche, accumulate da singoli elettori, archivi politici e da testate giornalistiche pugliesi, racconta degli incontri di Moro con i pugliesi: bagni di folla che descrivevano un sentiment popolare autentico e rivitalizzante per lo statista di Maglie. La sua fisicità all’apparenza quasi fragile e dolente, la sua sobria eleganza che prediligeva il doppiopetto e che gli imponeva di attraversare in giacca e cravatta le spiagge ferragostane di Terracina, il suo parlare colto, a volte criptico, o labirintico, riuscivano a superare la barriera di culture e comprensioni letterali trasmettendo codici di empatia che confermavano l’autenticità dell’uomo e la sua affidabilità. Moro fu molto popolare e molto amato dai suoi elettori, fin da subito. È interessante scorrere l’andamento del consenso elettorale nella circoscrizione elettorale pugliese dove, dal 1948 al 1978, anno della sua morte, venne sempre eletto.

 

 

Cominciò raccogliendo i 27.801 voti che gli consentirono l’elezione a membro dell’Assemblea Costituente nella circoscrizione i Bari nel 1946, e continuò per sette legislature registrando questa performance: 69.971 voti nel 1948 ( in questo periodo si registrò il primo incarico governativo, come sottosegretario agli Esteri); 39.007 nel 1953 ( capogruppo alla Camera nel 1953-55 e poi ministro della Giustizia nel governo Segni); 154.411 nel 1958 ( in questa terza legislatura fu Ministro della Pubblica Istruzione e segretario nazionale della Dc nel periodo tra il 1959 e il 1962); 227.570 voti nel 1963 ( presidente del consiglio dei ministri per l’intera IV legislatura, 1963/68); 293.167 nel 1968 ( in questa quinta fu Ministro degli Esteri nei governi Rumor-Colombo-Andreotti); 178.475 nel 1972 ( Legislatura in cui tornò a ricoprire l’incarico di presidente del Consiglio e poi anche di Ministro degli Esteri);166.260 nel 1976 ( la settima legislatura, di cui ebbe a vivere solo i primi due anni, ricoprendo l’incarico di Presidente della DC).

 

 

Come era costruita questa speciale empatia con il “suo” popolo? C’erano molti elementi costitutivi di una peculiarità tutta morotea del rapporto con il corpo elettorale, oggi difficili da raccontare. Innanzitutto Il voto di preferenza plurimo, che caratterizzava il sistema elettorale e consentiva il gioco di squadra dei candidati in lizza non assecondando il conflitto che avrebbe caratterizzato anni più tardi l’esperienza della preferenza unica: Moro era il capolista e riceveva il consenso dei candidati che seguivano, anche di chi apparteneva ad altre correnti interne alla dc. Poi la reputazione personale dello statista, che veniva percepito come un membro della comunità pugliese di cui andare orgogliosi, in Italia e nel mondo. Inoltre c’era una cura particolare dei rapporti con la gente di Puglia: prima e dopo i suoi appuntamenti politici e le sue visite a Bari, Moro riservava uno spazio non residuale agli incontri con i cittadini, all’ascolto delle istanze di singoli e di rappresentanti delle comunità provvedendo a dare risposte a tutti. Non si trattava di clientelismo, poiché non veniva forzata nessuna norma giuridica, ma di capacità di prestare attenzione e cura ai bisogni della comunità. In ultimo va ricordato che la società pugliese in quegli anni si presentava con un efficace grado di organizzazione attraverso la mediazione di corpi sociali credibili rappresentati da sindacati, partiti, associazioni, strutture decentrate, una struttura reticolare che si interfacciava con i decisori politici nazionali. Anche la dialettica tra correnti interne correva su binari di civiltà politica: competizione ma non conflitto con Vito Lattanzio, più volte ministro e potente referente pugliese della corrente moderata, quella “Dorotea”. Il percorso politico dell’On.Lattanzio, che riproponeva un cursus honorum con una partenza di tipo localistico poi assurto a ruoli nazionali per la forza del suo radicamento sul territorio e nel partito, si svolse parallelo a quello di Moro, con l’accettazione da parte di entrambi di uno stato di fatto nella distribuzione delle sfere d’influenza sul territorio pugliese: Lattanzio esercitava un peso nelle strutture di gestione ( Lattanzio era un medico e conosceva bene le strutture sanitarie), mentre Moro restava un naturale riferimento per il mondo della cultura ( Università in modo particolare).

L’Assemblea Costituente

Il ruolo svolto nell’Assemblea Costituente, che, pur essendo oggetto di ricerca da parte della dottrina giuridica, è argomento che non ha superato mai la platea degli specialisti, sicuramente rappresenta l’esperienza politica che più è riuscita ad incidere nell’ordinamento giuridico dello Stato concorrendo a costruire un’etica costituzionale condivisa.
Moro non aveva trent’anni quando venne eletto alla Costituente, distolto dalle aule della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari, dove insegnava diritto Penale e filosofia del diritto. Era un leader della FUCI, l’organizzazione degli universitari cattolici, e aveva poco a che fare con il gruppo dirigente dei popolari che in Puglia svolgeva un ruolo egemone nella Dc. Alla Costituente fu vice capogruppo e membro della I Sottocommissione che si occupò dei diritti e dei doveri dei cittadini. In realtà fu un Costituente che non circoscrisse i suoi interventi ad un solo argomento in discussione, ma si mosse con piena competenza a 360 gradi, dalla scuola alla famiglia, dall’insegnamento della religione alla democrazia interna dei partiti, dal voto segreto nelle assemblee legislative alla richiesta di democrazia nelle strutture militari, dalla condizione della donna al Mezzogiorno, dai diritti di libertà alla forma stato. Alla fine dei lavori della Costituente non meno di 300 interventi sarebbero stati svolti dal giovane professore pugliese e diversi tra gli articoli approvati avrebbero avuto il suo imprinting nella fase progettuale, propositiva o nella mediazione finale. Una certa storiografia lo avrebbe associato al gruppo dei professorini, i giovani intellettuali raccolti attorno alla figura di Dossetti e La Pira. In realtà Moro fu un protagonista non catalogabile: collaborativo ma autonomo, intellettualmente e politicamente. In quella formidabile stagione affinò la sua qualità di mediatore e di costruttore di ponti, anche con la cultura di cui erano portatori Togliatti, Concetto Marchesi, Nilde Iotti. Adoperando, se è possibile dire, la mitezza nelle relazioni politiche, senza, però, cedere mai di un solo millimetro sui principi. La mitezza politica. Un’altra declinazione della gentilezza: qualità che fanno del tutto inattuale l’insegnamento del grande pugliese.

L’avvio dei lavori

Col voto del 2 giugno 1946 furono chiamati a svolgere il lavoro di stesura della nuova Costituzione 556 deputati in rappresentanza di 16 liste. L’Assemblea celebrò nell’aula di Montecitorio la sua prima seduta il 25 giugno del 1946. Ne fecero seguito altre 346,l’ultima il 31 gennaio del 1948. Tra i costituenti uomini di grande esperienza politica ed istituzionale ma anche molti giovani, dotati di una caratura intellettuale straordinaria. Tra i giovani eletti nelle liste della DC, il partito che aveva raccolto la maggioranza dei costituenti c’erano Moro,29 anni, professore di diritto penale e filosofia del diritto a Bari, Dossetti, 33 anni ma già ordinario di Diritto Canonico da sei, La Pira,il più “anziano”, con i suoi 42 anni, ordinario di Diritto Romano, Lazzati, 37 anni, professore di Letteratura Cristiana Antica all’ Università Cattolica, Fanfani, 38 anni, ordinario di storia delle Dottrine Economiche, in cattedra a soli ventotto anni. Quel gruppo di intellettuali avrebbe avuto un ruolo centrale nel dibattito all’assemblea costituente, seguendo la via maestra dell’ispirazione offerta dai testi di Jaques Maritain, e in particolare dal suo Umanesimo Integrale, che, secondo il principio tomista non vedeva un conflitto tra una proposta rigorosamente fondata sulla natura profonda dell’uomo e la fede. In questo spazio laico, che testimoniava la consapevolezza dei costituenti cattolici della necessaria distinzione tra sfera politica e sfera religiosa, si poteva raccogliere e comporre, in chiave di impegno comune per la stesura della Carta costituzionale, la sostanziale convergenza delle visioni liberale e politicista, incarnata da De Gasperi e neo tomistica di Dossetti.
Il principio pluralista e il principio personalista sono, pertanto, iscritti nel patrimonio della cultura filosofico-giuridica del cattolicesimo politico nell’età della Costituente, alimentato dallo studio dei pensatori francesi come Maritain e Mounier, coltivato nelle riflessioni scaturite delle settimane sociali dei cattolici d’Italia, in particolare quella di Firenze dell’ottobre 1945 sul tema Costituzione e Costituente,sostenuto dai laureati della FUCI e dagli intellettuali del’Azione Cattolica, propugnatori dello “Stato personalista”, dalle numerose riviste che fiorirono in quella stagione, dal documento programmatico contenuto nel “codice di Camaldoli” del 1943, alla cui stesura parteciparono Taviani, Gonnella, Capograssi, Branca, La Pira, Andreotti, Moro e che rappresentò il nucleo fondamentale del progetto alla base del dibattito costituente.
Moro, vice presidente del gruppo DC alla Costituente, lavorò nella prima delle tre sottocommissioni in cui vennero suddivise le attività della Commissione dei 75, chiamata materialmente a redigere il testo della Carta, quella che ebbe ad oggetto i diritti e doveri dei cittadini. Nella stessa Sottocommissione, presieduta dal democristiano Tupini, erano i comunisti Togliatti, Iotti e Concetto Marchesi, il socialista Lelio Basso, i cattolici Dossetti e La Pira, esponenti del gruppo dei “professorini” democristiani particolarmente attivi nel dibattito interno e pubblico di quel tempo.
Complesso fu il rapporto tra Dossetti e Aldo Moro che, pur condividendo molti aspetti delle posizioni assunte dal collega canonista in prima sottocommissione, mantenne sempre una posizione di autonomia e di libertà propositiva.
Apparirebbe infatti, improprio l’accreditamento dell’impegno di Moro costituente nel novero dei deputati “dossettiani”, con i quali registrò certamente convergenze sulla base della comune ispirazione cattolico-democratica e della condivisa formazione giuridica, ma non mancando mai di marcare la sua partecipazione con accenti originali.
Emerge, in realtà, più dagli scritti che precedono il suo impegno diretto nel dibattito nell’Assemblea, il senso programmatico di quella che rappresenterà la “cifra” distintiva di tutto il suo contributo alla Costituente: la tensione verso la convergenza, verso la condivisione delle scelte da compiersi per la costruzione della nuova civiltà democratica.
In un articolo sulla rivista “Studium” da lui diretta, dal titolo “Di fronte alla costituente”, Moro scrive:

“ Noi dovremmo sostituire alla psicologia della lotta e del successo un sereno spirito che sappia guardare al fondo dei problemi, che sappia ricavarne e metterne in luce il contenuto umano, che sappia comprendere e rispondere alla generale attesa, al generale dubbio, alla trepidazione di tutti, a quel che non so che di timore e pur di misurata fiducia che è proprio di uomini i quali avendo vissuto un grande dramma non credono più alle formule taumaturgiche, al calore salvifico della politica pura, al semplicismo accomodante ed interessato di coloro che ieri ed oggi hanno promesso e promettono, sotto qualsivoglia insegna, la compiuta felicità agli uomini che conosco il dolore”.

La formazione del giovane costituente non deriva dall’esperienza del Partito Popolare ma dalle organizzazioni universitarie di Azione cattolica: Moro è presidente nazionale della FUCI dal 1939 al 1941, segretario nazionale del Movimento dei Laureati cattolici dal 1945 al 1946 e protagonista nell’attività dei movimenti, da quelle convegnistiche a quelle legate alla seconda fioritura delle riviste da essi editate. Con la classe dirigente democristiana proveniente dal Partito Popolare, sia con quella locale che con quella romana, pertanto, si stabilirà un rapporto dialettico, talvolta anche di contestazione esplicita che costituirà un elemento della concezione del partito politico inteso non quale esclusivo interprete della società ma quale elemento del pluralismo sociale destinata a rispecchiarsi nel dibattito costituente .
Ma, pur caratterizzandosi essenzialmente quale espressione di una delle più importanti organizzazioni dell’Azione Cattolica, Moro dopo l’elezione all’Assemblea costituente accetterà di svolgere un ruolo organico al “partito dei cattolici”, rappresentandolo autorevolmente nella commissione dei 75.

 

 

La relazione La Pira
Il vastissimo contributo di Aldo Moro al dibattito costituente, pertanto, non si scosterà mai dalle scelte di fondo contenuto nell’idea di Costituzione formulata dalla DC, ma sempre con accenti originali. Una delle prime occasioni viene offerta dalla relazione di La Pira sul tema dei rapporti civili, oggetto di obiezioni da parte di esponenti della sottocommissione, in particolare relative all’eccesso di analiticità e di ideologizzazione dell’impianto proposto.
La relazione venne difesa dagli interventi dei costituenti democristiani e, in particolare da Dossetti che affermò la “necessità giuridica” e non ideologica del principio dell’anteriorità della persona rispetto allo Stato, in chiave di rovesciamento della tesi fascista “della dipendenza del cittadino dallo Stato”. Intervenendo nel dibattito per esprimere condivisione rispetto all’impostazione offerta dai suoi colleghi di gruppo, Moro comincia a delineare il suo progetto di costituzione in cui trova posto un’affermazione antifascista insieme al principio dell’ ”autonomia della persona umana di fronte allo Stato” chiarendo “quali sono gli inalienabili diritti che debbono essere difesi”. La scelta di Moro è, dunque, per uno Stato democratico che abbia la possibilità di intervenire in chiave di riequilibrio tra le condizioni dei singoli cittadini per esprimere “la sua funzione armonizzatrice e coordinatrice ed esercitare tutti quegli interventi nella vita economica che sono essenziali per dare ordine e stabilità all’organizzazione sociale”.
Al concetto di condivisione di una base ideologica fra tutte le forze costituenti, che trova nella “comune opposizione di fronte a quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale” Moro tornerà a far riferimento nell’intervento in Assemblea del 13 marzo 1947, per sottolineare la necessità di convenire su un testo che non si fermi, come auspicavano i costituenti di cultura liberale, a delineare un costituzione semplicemente “afascista”, ma che vada, appunto, oltre, con una netta professione antifascista posta a tutela dei valori di libertà e giustizia sociale negati dal regime mussoliniano.

Pluralismo giuridico e sociale

Quell’impianto viene declinato con l’affermazione delle norme-principio contenute nei primi tre articoli della Costituzione (gli artt. 1, 6 e 7 del Progetto) che Moro volle fossero messi in discussione unitariamente. Con riferimento alle motivazioni date all’inclusione come incipit della costituzione dei “tre pilastri” che rappresenteranno alcuni tra i principi cardine della nuova Repubblica Italiana, appare particolarmente importante l’illustrazione che Moro fa del “pluralismo sociale”.
Il giovane costituente fa riferimento “non al problema scientifico del pluralismo giuridico” bensì a quello del “pluralismo pratico e politico” rammentando la lunga compressione della dignità della persona considerata nella sua singolarità e nelle formazioni sociali in cui essa si afferma. Nella considerazione delle formazioni sociali un posto di rilievo viene assunto dalla famiglia, in coerenza con l’ispirazione culturale cattolica. Ma, secondo Moro, non c’è frattura tra la famiglia intesa quale “società naturale” dei cattolici e le “formazioni storiche”, le “formazioni sociali” che appartengono alla concezione espressa dalla cultura marxista, perché sia che si parli pure di formazioni storiche sia che si parli di società naturale, non si tratta di cose diverse.
L’essenza è rappresentata dalla circostanza che “la persona umana, la famiglia, le altre libere formazioni sociali” hanno una loro intrinseca consistenza e non c’è nessuna politica di Stato democratico che possa prescindere dal problema di stabilire “fra personalità e formazioni sociali da un lato, lo Stato dall’altro, dei confini delle zone di rispetto, dei raccordi”.
E’ questa una concezione che riflette lo statuto nuovo del pluralismo democratico,che stabilisce dei raccordi tra persona, gruppi intermedi e Stato. Perché

“quando parliamo di autonomia della persona umana, evidentemente non pensiamo alla persona isolata nel suo egoismo e chiusa nei suo mondo” : questa autonomia non è uno “splendido isolamento” ma richiede collegamenti, convergenze nel rispetto reciproco e nella “necessaria solidarietà sociale”.

Non si sottrae a questo registro anche la intensa partecipazione al dibattito sulle scelte in tema di rapporti civili, che si svolse sulla base delle proposte avanzate dal Basso, La Pira e Merlin che recepivano interamente l’impianto elaborato da Mortati intorno ai diritti pubblici subiettivi, per la commissione Forti. In tema di diritti soggettivi individuali e collettivi non si verificarono divergenze tra le forze politiche, accomunate da un eguale sentimento di reazione al lungo periodo di compressione delle libertà personali. Questa circostanza, consentiva a Moro un approccio più coerente con la sua formazione giuridica che fu particolarmente evidente nel dibattito relativo ai temi giuspenalistici come la presunzione d’innocenza, la personalità della responsabilità penale e la funzione emendativa della pena. Al tempo stesso Moro riuscì ad affrontare con sensibilità moderna il tema della libertà di manifestazione del pensiero, guardando al fenomeno dei mezzi di comunicazione di massa non solo sotto il profilo dei limiti posti dall’esigenza di ordine pubblico, ma con particolare attenzione ai profili di libertà e perfino al controllo dei mezzi finanziamento della stampa periodica
Anche nei diritti di libertà, dunque, torna a manifestarsi la concezione pluralistica del giovane costituente cattolico, che ribadisce come tutte le libertà non debbano essere intese come “un limite frapposto allo Stato” ma piuttosto come espressione della “convergenza degli sforzi individuali in una società ordinata e compatta per il bene di tutti”. In questo dibattito, ancora, Moro farà riferimento al significato “pedagogico” che si è voluto imprimere a tutta la Costituzione: concetto che era già stato avanzato nel dibattito in sottocommissione sulla relazione La Pira. In quella circostanza Moro aveva usato l’espressione “funzione educativa” della Carta Costituzionale, mostrando di condividere la preoccupazione dell’urgenza di un impegno collettivo volto a consentire l’elaborazione di uno spirito pubblico dopo vent’anni di dittatura fascista, avvicinando il popolo italiano al profondo rinnovamento democratico che l’Assemblea costituente stava determinando.

Scuola e persona

E ai temi legati all’educazione e all’insegnamento, si riflette con maggiore forza il ruolo di Moro di rappresentanza delle posizioni dell’intero mondo cattolico.
Sul terreno dell’elaborazione delle norme concernenti il ruolo della scuola, della famiglia, dell’insegnamento di religione, si registrò, come era inevitabile una divaricazione con le culture “laiciste” , rappresentate , in particolare, dalle posizioni del secondo relatore, il primo era Moro stesso, in tema dei rapporti culturali, il comunista Concetto Marchesi.
Gli argomenti della relazione di Moro non si scostarono dalle considerazioni che ispirarono i precedenti dibattiti incentrati sul pluralismo, nella sua declinazione volta ad affermare in primo luogo il diritto del giovane a “ricevere adeguate prestazioni educative”, poi quello della famiglia ad esprimere il suo naturale ruolo educativo ed, infine, l’affermazione della libertà di insegnamento, come dimensione della libertà di manifestazione del pensiero, Moro concepisce l’intervento dello Stato nel settore scolastico come “servizio pubblico” che, tuttavia, non può essere svolto in una posizione monopolistica, bensì in una dimensione di coesistenza con l’iniziativa privata, con condizioni pari, poiché entrambe assolvono “la stessa funzione di formazione della personalità individuale e sociale”. D’altro canto alla scuola pubblica viene chiesto di “esprimere senza falsificazioni la profonda volontà del popolo italiano e deve essere tale da meritare la fiducia delle famiglie”.

Patti lateranensi

In questo quadro trova fondamento l’istanza posta dal costituente cattolico relativa all’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche, per evitare che venga ad essere mortificato il sistema di valori della maggioranza degli italiani: lo Stato , in questo modo, non fa che accogliere il contenuto educativo promanante dalla coscienza sociale.
La sua intraneità alla cultura cattolica e la sua contiguità con i più importanti movimenti ecclesiali e con le gerarchie della chiesa romana, vengono confermate nel dibattito intorno alla norma di recepimento dei Patti lateranensi. E’ Moro, pertanto, a svolgere la dichiarazione di voto sull’art. 7 della Costituzione, rappresentando in sottocommissione e poi in commissione plenaria la posizione ufficiale dei costituenti democristiani.
Il richiamo alla “coscienza popolare italiana”, già evocato a sostegno dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, torna a rappresentare il riferimento che motiva la particolare considerazione della chiesa cattolica rispetto agli altri culti religiosi, che pure ricevono da Moro significative aperture. Moro critica la visione laicista che “riduce lo Stato a mera entità giuridica, lo strania dal flusso della storia, lo fa indifferente verso cose che assumono per gli uomini , nei quali si risolve lo stato, straordinaria importanza”.
Una posizione dello Stato che ignori le professioni religiose e che si limiti “freddamente” a garantire loro condizioni di libertà, è uno Stato che non intende assumere nei confronti dei singoli cittadini un “impegno morale” che si pone, invece, come “inderogabile esigenza”.

Il partito politico
Moro fa registrare una importante convergenza con le posizioni espresse da Mortati in tema di regolazione giuridica del partito politico, nel contesto del dibattito in assemblea sui rapporti politici.
Già in sottocommissione si era discusso intorno alla rilevanza da attribuire all’inciso contenuto nell’art. 47 del progetto relativo ai partiti “per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, quest’ultima espressione intesa come “proiezione teleologica” del diritto di ogni cittadino di associarsi liberamente nei partiti.
Il punto controverso concerneva la rilevanza da attribuire all’inciso, se cioè dovesse intendersi in senso soltanto “esterno” riguardo all’attività dei partiti, il cui svolgimento doveva informarsi al “metodo democratico”, oppure se tale metodo dovesse essere esercitato anche nell’ambito interno della vita dei partiti, quale criterio imprescindibile per la dimensione endo-associativa di ogni partito politico. Un emendamento Mortati tendeva a rendere esplicita la valenza anche “interna” al partito del riferimento al metodo democratico incontrò la decisa opposizione dei costituenti, di area comunista che intravedevano nell’obbligo posto a carico dei ordinamenti interni dei partiti un pericoloso varco aperto a tentativi di ingerenza nella vita politica, mentre trovò l’adesione del deputato del gruppo socialista del lavoro, Ruggiero.
Moro intervenne in Assemblea per sostenere a nome del gruppo della Democrazia cristiana l’emendamento Mortati-Ruggiero,affermando che, dopo aver stabilito il carattere democratico della vita interna dei sindacati fosse opportuno sancire eguale disposizione per i partiti. Pur accogliendo parte delle preoccupazioni relative alla limitazione dell’opera di partiti nella vita politica del Pese che potesse derivare da una norma che pretendesse di restringere l’ambito di autonomia, Moro aggiungeva che tali pericoli non erano riscontrabili nel richiamo al carattere democratico della struttura interna.
In particolare Moro sottolineò in quella circostanza la condizione dispari riservata al sindacato quale formazione sociale sottoposta all’osservanza del metodo democratico nelle sue strutture interne rispetto al partito, che da quell’osservanza risultava esente, e tracciò così il solco di una “querelle” che avrebbe accompagnato per gli anni a venire il dibattito dottrinario ed il confronto politico dimostrando ancor oggi la sua piena attualità nell’irrisolta questione della regolazione giuridica del partito politico.

Ordinamento militare democratico

Da registrare ancora in tema di rapporto politici e segnatamente in tema di obbligatorietà del servizio militare, l’importante e originale intervento di Moro, avanzato a “titolo personale”, volto a sostenere la necessità che anche l’ordinamento dell’esercito dovesse “riflettere la struttura democratica dello Stato”, un’affermazione che risulta ancora più brutta alla luce dell’esplicita ammissione di antimilitarismo da lui professata.

Abolizione del voto segreto nelle procedure parlamentari

Altrettanto originale e improntato ad una visione delle procedure parlamentari che sarebbe stata accolta nelle innovazioni regolamentari del parlamento solo dopo quarant’anni, appare l’intervento con cui Moro esprime il suo “rifiuto a consacrare costituzionalmente” il principio dello scrutinio segreto obbligatorio nel voto finale dei disegni di legge. Non si discosta dalla visione volta ad affermare la necessità della più alta corrispondenza della rappresentanza politica con la volontà popolare, il sostegno ad un istituto di democrazia diretta, come il referendum abrogativo, e all’eventualità di uno scioglimento anticipato delle camere, some strumento volto a risolvere le distonie tra il Legislativo e il corpo elettorale.

La costituzione economica: la terza via

Sul tema dei principi economici e sociali torna a proporsi l’idea di fondo di una democrazia che si esprime attraverso la partecipazione del popolo non solo al potere politico ma anche ai beni economici.
E’ una concezione, quella espressa da Moro, che si pone esplicitamente in contrasto con la concezione liberista dell’economia, per aderire all’idea di un intervento dello Stato che coordini, disciplini ed orienti le iniziative economiche dei singoli. Il contrasto con la visione liberista e l’adesione ad un moderato interventismo da parte dello Stato assume il significato dell’adesione ad un concezione che accetta il diritto di proprietà purché sia finalizzato costituzionalmente, “nel senso di permettere a tutti un accesso alle proprietà ed un coordinamento della vita economica per il benessere di tutti”.
Dunque una concezione terza, rispetto alla visione liberista e a quella socialista che, esprimerà lo sforzo dei costituenti di cultura cattolica teso ad imprimere un carattere originale all’importante contributo dato al dibattito in sede di Assemblea.

Diritto di sciopero

Una netta posizione di tutela dei diritti dei lavoratori, primo tra tutti il diritto di sciopero definito come “sacrosanto”,resa ancora più significativa se correlata al rifiuto di accogliere in costituzione il diritto di serrata secondo la proposta del monarchico Lucifero, poiché sarebbe stata inammissibile in uno”stato progressivo a base sociale” ammettere il diritto dei produttori a negare il lavoro, non si traduce, tuttavia in una condiscendenza nei confronti delle posizioni della sinistra: quando i costituenti comunisti tendono ad allargare l’ambito del diritto di sciopero oltre la considerazione degli interessi generali della comunità nazionale, Moro non rinuncerà a marcare con tutto dissenso nei confronti della sinistra, sostenendo la necessità di un intervento dello stato “capace di assumersi la responsabilità della pace sociale” attraverso anche l’attribuzione di una competenza “quanto meno in sede di tentativo di riconciliazione”, per far si che lo sciopero resti davvero “l’ultima ratio a cui si ricorre”.

I costituenti cattolici offrirono naturalmente un contributo essenziale alla stesura della Carta in tutte le sue parti. Tuttavia un rilievo importante va riconosciuto all’impegno della componente nella scrittura della I parte riguardante i principi fondamentali. Attraverso la presenza Moro,Dossetti e La Pira enella I sottocommissione, insieme a Tupini, chiamato a presiederla, venne espresso il più rilevante apporto dei cattolici alla stesura della carta e si manifestò anche il confronto più alto con i costituenti appartenente ad altre culture politiche come Togliatti, Marchesi, Iotti e Basso.
Si deve, pertanto, all’azione di giuristi eminenti come Aldo Moro e alla sua efficace opera di razionalizzazione e di raccordo, l’approdo nella Costituzione dell’esperienza culturale del personalismo comunitario e dell’ideale di pluralismo affermato dagli artt. 2 e 3 e 21 Costituzione. Un pluralismo ispirato non dalla parcellizzazione conflittuale di ordinamenti, persone e gruppi sociali, ma della realizzazione di una complessiva unità nella tutela delle diversità, perseguita di principi di eguaglianza, di solidarietà, di libertà di espressione e di manifestazione del pensiero che si pongono come presupposti per la piena integrazione della pluralità.
Moro, con i costituenti cattolici più giovani, espressioni delle comunità culturali più raffinate ed aperte al confronto internazionale in cui si affacciavano tematiche come la condanna del liberismo aggressivo e sregolato, riuscì a dare, pertanto, un orizzonte costituzionale agli ideali del personalismo, del nuovo umanesimo, alla riflessione moderna sull’economia mista, ad un nuovo ordine politico e ad una nuova pedagogia democratica. Forse la via della costituzionalizzazione del pluralismo perseguita dai giovani costituenti non convergeva pienamente con l’opzione degasperiana, orientata in quel momento storico, con Adenauer, a ritenere che la stabilizzazione delle strutture democratiche dopo il crollo dei totalitarismi fosse da affermare attraverso una solida ricostruzione della forma di governo e di una legislazione capace di rimettere in moto la vita sociale, più ancora che attraverso la stesura della Carta costituzionale. Ma, quale che possa essere la valutazione storica sulle scelte degasperiane, certamente assai efficaci sul piano della gestione immediata dell’uscita dalla guerra e della ricostruzione, indubbiamente l’impostazione del leader della DC lasciò ai giovani costituenti di area cattolica un margine operativo assai importante per il lavoro di redazione in sottocommissione e in assemblea.

Di questo lavoro Moro diede puntualmente conto in un editoriale della rivista Studium da lui diretta, del gennaio 1948 in cui, esprimendo un giudizio positivo sulla nuova costituzione e sull’impegno svolto dai cattolici nella sua redazione, individua nella “congiunzione organica” delle istanze di libertà civile e politica emerse dopo la lunga stagione della dittatura fascista, il culmine di un’ evoluzione armonica che si esprime nella vita economica, sociale e politica del paese. Dunque la “chiave di volta” della costituzione “rigidamente democratica ed arditamente sociale” sarà l’armonia: essa è “la base di intesa del popolo italiano e il fondamento della conforme umanità che si è andata manifestando introno alla Costituzione”. Armonia, confronto, tolleranza, ma anche il valore del “rafforzamento delle strutture dello Stato” nel rispetto del pluralismo sociale e impegno per l’affermazione di una “democrazia sociale” perché la promozione della solidarietà umana non può voler dire aderire ad una idea di Stato debole . Anzi:

“il vincolo sociale in cui lo Stato si risolve e che costituisce la sua ragione d’essere è, o può essere, cosa talmente grande, talmente importante, talmente decisiva per l’uomo, che i tipici mezzi della giustizia forte quelli storicamente più efficaci, debbano essere adoperati con ogni impegno perché sorga, con l’immancabile aiuto di uno Stato forte e serio, una società sana e operosa”.

Le Giovani generazioni

Non è detto che quando la Storia passa tutti la sappiano riconoscere. Perché nella Storia ci si può anche stare, i più come elementi del contesto, i meno, i pochissimi, come costruttori. Ma anche chi è protagonista non sempre riesce ad avere gli occhi per vedere il grande mutamento che si fa Storia. Qualche volta, però, accade che qualcuno la veda e la riconosca. Si tratta in genere di personalità vocate all’arte o di rari statisti. Quando passò il Sessantotto come un cielo compatto carico di elettricità, scaricandosi su tutto l’universo dall’America alla Nigeria, dalla Polonia alla Tunisia, dalla Francia all’Italia – Aldo Moro seppe leggervi uno scarto importante della grande Storia. La cifra di quel tempo imprendibile eppure così denso era data dall’affacciarsi sulla scena pubblica di un nuovo soggetto sociale, fino a quel tempo ingessato dentro una condizione di assistenza tutorale: i giovani. La prima globalizzazione della modernità, infatti, promuoveva i giovani come protagonisti della scena pubblica, poggiando su una particolarissima epifania del network contemporaneo, fatta di viaggi on the road, libri memorabili, concerti, riviste d’avanguardia, rock, radio e televisione. Media e persone che connettevano non tutto il mondo, ma solo quel fazzoletto di mondo che si ritrovava nella generazione dei nati all’alba delle democrazie contemporanee, e che sapeva parlare la lingua universale dei nuovi giovani. Il ‘ 68 fu molte cose ancora, naturalmente, tra cui la pietra miliare della nuova stagione dei diritti che sarebbe esplosa, con effetti controversi, nel decennio successivo, e la radice di un’ideologia ambigua, nutrita del cascami del marxismo leninismo in chiave maoista, e, insieme, di una sorta di rivendicazione della partecipazione ai beni prodotti dal capitalismo che si voleva contestare. Ma, si sa, le rivoluzioni non procedono con andamento lineare. Moro capì, per pura intelligenza degli accadimenti e non per convenienza ideologica, che stava succedendo qualcosa di epocale, in cui i giovani avevano assunto un ruolo mai visto prima.
«Ci sono – scriveva sul Popolo il 15 maggio del 1968 – nel mondo tanti segni di rivolta e di protesta, in molti paesi dove la politica accende la violenza e finisce sulle piazze e nei tribunali». E incalzava:

«Ai giovani voglio dire che mi rendo conto del loro disagio e che sinceramente comprendo la loro aspirazione a modificare in meglio il mondo che li circonda. È certo che hanno diritto ad una scuola più aperta, più moderna, e che la nazione non può permettersi di sprecare i talenti. Dicano, dunque, discutano, si organizzino per affermare i loro principi, le loro aspirazioni, ma non si isolino, non si considerino una casta fuori dalla comunità e, soprattutto, non disprezzino, per un eccesso polemico, tutto ciò che è stato fatto».

C’è in questo scritto una consapevolezza, rara nell’establishment di quella lontana stagione, dell’urgenza del nuovo tempo, forse resa più diretta dall’esercizio mai interrotto dell’insegnamento universitario. Ma c’è anche qualche curiosità lessicale, come l’uso dell’espressione “casta”, che ben diversa sorte semantica avrebbe avuto qualche decennio più tardi, ma fu adoperato da Moro per indicare il pericolo della separatezza dei giovani dai mondi vitali che pulsano nel tessuto sociale italiano. Moro usò parole di verità e di preoccupata attenzione per raccontare quella che percepiva come una cesura epocale. Parlava di «ansia di rinnovamento e di elevazione umana» in un suo intervento al Consiglio Nazionale della DC Il 21 novembre 1968, e aggiungeva: «Quest’ansia è ora diventata meno dominabile; si è tradotta in protesta imperiosa ed impaziente, ha messo a dura prova forze politiche…». Alle forze politiche che, pur ancorate a sicuri presidi democratici non sempre mostrano di comprendere ciò che sta accadendo, Moro si rivolge ammonendo:

«Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità».

Più avanti, a sottolineare il concetto, ribadirà: «Nel profondo è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della Storia». Più volte lo statista pugliese tornerà sul tema del cambiamento e della «nuova umanità in cammino», da capire e guidare in coerenza con i principi della democrazia, che impongono alla politica il «dovere del servizio». Perché, come ebbe a dire a Padova in un’assemblea di partito nel marzo 1968, «Noi siamo con i tempi, siamo con la Storia». Il Sessantotto non morì con lo spirare dell’anno solare. L’intero decennio successivo si intrise delle idee, delle illusioni, delle conquiste, dei falsi miti di quel tempo infiammato di slancio vitale e qualche volta anche letale. Una deriva malata di quell’ ansia che Moro aveva saputo leggere in quel multiforme sessantotto, l’avrebbe colpito a morte allo scadere del decennio.
Moro aveva saputo leggere la Storia e la sua ineluttabilità. E nelle pieghe dell’ineluttabile c’era l’estremo sacrificio. «Abbiamo avuto momenti difficili, di ogni sorta, e li abbiamo superati. La direzione di marcia è quella che come democratici abbiamo fissato. Il cammino del progresso può continuare nell’ordine e nella libertà» ( Padova, 31 marzo 1968).

Biografia

Nasce il 23 settembre del 1916 a Maglie (Le) da Renato, ispettore scolastico e da Fida, insegnante elementare, e conseguì la maturità classica al Liceo Archita di Taranto. Si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza di Bari, superando tutti gli esami con la votazione di 30 e 30 e lode, laureandosi con una tesi di diritto penale nel 1938, La capacità giuridica penale, relatore il prof. Biagio Petrocelli, rettore dell’Ateneo barese.
Professore incaricato in Filosofia del Diritto (le sue lezioni furono raccolte nel volume Lo Stato. Il Diritto, edito da Cacucci nel 2006), e di Diritto Penale nel corso di laurea in Giurisprudenza dal 40/41 al 1951, anno in cui a soli 35 anni anni ottenne la cattedra di professore ordinario (nel 1942 pubblica La subiettivizzazione della norma penale, opera valutata assai positivamente dalla dottrina). Nel 1963 si trasferisce all’Università di Roma per conciliare l’impegno politico con quello accademico, assumendo la titolarità della cattedra di Istituzioni di Diritto e Procedura Penale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università La Sapienza.

Dal 1935 impegnato nella FUCI (Federazione Universitaria Cattolica) di Bari, di cui divenne Presidente nazionale nel 1939, su segnalazione di Giovanni Battista Montini, il futuro Papa Paolo VI, con cui stabilì rapporti di forte amicizia e di idem sentire nel solco della comune visione basata sul personalismo comunitario dei filosofi cattolici francesi Maritain e Mounier. Diresse riviste culturali come La Rassegna e Studium e partecipò alla redazione del Codice di Camaldoli, il documento elaborato nel 1943 da un gruppo di intellettuali cattolici, intorno a tematiche sociali e al rapporto cittadino-stato.
Già dal 1942 Moro avrebbe cominciato a condividere idee e posizioni con altri esponenti dell’intellettualità e della politica cattolica, come Giorgio Falk, Alcide De Gasperi, Mario Scelba, Attilio Piccioni, Giovanni Gronchi, Amintore Fanfani, Giuseppe Dossetti, Paolo Emilio Taviani e Giovanni Spataro. Il 19 marzo 1943,proprio a casa di Spataro quel gruppo di personalità del mondo cattolico avrebbe sottoscritto le “Idee ricostruttive della Democrazia ristiana”,documento proposto da Alcide De Gasperi , che rappresentò l’atto di fondazione della Democrazia Cristiana.

Nel 1945 Moro sposò Eleonora Chiavarelli che sarebbe diventata la madre dei suoi quattro figli (Maria Fida, Anna, Agnese e Giovanni). Nel 1946 diventò vice segretario nazionale della DC e deputato all’Assemblea Costituente. Nel 1948 venne eletto deputato e nominato sottosegretario al Ministero degli Esteri nel Gabinetto De Gasperi. Nel 1952 formò con un gruppo di giovani parlamentari democristiani (Fanfani, Colombo, Segni, Rumor) la corrente Iniziativa Democratica. Rieletto deputato ininterrottamente fino al 1976, fu capogruppo della Dc alla Camera (1953), Ministro della Giustizia ( 1955,gabinetto Segni I), ministro della Pubblica Istruzione (gabinetti Zoli e Fanfani. Introdusse nel 1958 l’insegnamento dell’Educazione Civica nelle scuole e utilizzò il servizio pubblico della Rai per realizzare un’alfabetizzazione di massa attraverso programmi come Non è mai troppo tardi ).
Nel 1959 venne eletto segretario della DC al Congresso di Firenze. Nel 1962 venne riconfermato segretario del Partito al Congresso di Napoli che segnò l’apertura al Centro-sinisra. Nel 1963, a 47 anni, divenne presidente del Consiglio del primo governo di Centro-sinistra, restando in carica per l’intera legislatura, seppure a capo di tre diversi governi.

Dopo le elezioni del 1968 assunse la carica di Ministro degli Esteri, caratterizzando la sua azione con una importante apertura al medio oriente e al mediterraneo, pur nel quadro di lealtà con la Nato e confermando una forte vocazione europeista.
Moro visse una nuova esperienza di presidente del Consiglio nella metà degli anni ’70 in un momento difficile per la DC e per il paese, piegato dai colpi dei terrorismi di destra e di sinistra e dalla grave crisi economica. Si trattò di un governo “bicolore”, DC-PRI, aperto alle forze socialiste.
In questo contesto Moro cominciò ad impostare un canale di comunicazione attiva con il PCI di Berlinguer che lo avrebbe portato negli anni successivi all’evoluzione dialogica della solidarietà nazionale. Si ricorda, peraltro, nel 1977 l’intervento orgoglioso di difesa dell’azione di governo e degli esponenti democristiani in occasione del dibattito sull’affaire Lookheed, che vedeva l’opposizione accusare la DC di essere diventata un “regime”. Icastica la risposta di Moro in aula alla Camera: “Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo nelle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare.”
Dopo il turno elettorale del 1976 si registrò una tenuta della DC che coincise con l’importante risultato raggiunto dal PCI nella sua storia, consegnando, di fatto, un quadro nazionale di spaccatura in due del corpo elettorale.

Moro, divenuto nel 1976 presidente del Consiglio Nazionale della DC (carica in sè non particolarmente pregna di significato politico che, tuttavia, con lo statista pugliese assunse un ruolo decisivo nella dinamica politica interna ed esterna alla DC), comprese che il quadro politico, sociale ed economico venutosi a creare nel paese non avrebbe potuto tollerare un clima conflittuale tra i primi due partiti, la DC e il PC ( che insieme superavano il 73% del corpo elettorale italiano).
Si imponeva per il leader democristiano un tempo di collaborazione necessaria tra i due partiti antagonisti, ma non per traguardare il “compromesso storico” proposto da Berlinguer fin dal 1973 in alcuni interventi sulla rivista del PCI Rinascita, riflettendo sul tragico epilogo della democrazia in Cile dopo il colpo di stato dei militari contro Allende. La visione di Moro era diversa: il richiamo alla terza fase, evocata dallo statista pugliese nell’orizzonte di un’età adulta della democrazia italiana, capace di guardare alla necessaria alternanza, non rappresentò mai un’esplicita accettazione di una collaborazione organica con il Pci, bensì un invito alla necessaria solidarietà nazionale tra partiti dell’arco costituzionale per superare il drammatico momento vissuto dal paese. Chiusa quella parentesi nella visione morotea la dialettica politica tra competitori sarebbe tornata nell’alveo della normalità democratica.
Su queste basi Moro si fece artefice (riconosciuto da tutti, in Italia e all’estero) del quarto governo Andreotti che si apprestava a sostenere nel giorno della sua presentazione alle Camere la mattina del suo rapimento e dell’uccisione della sua scorta il 16 marzo 1978.

Dopo una prigionia di 55 lunghi giorni, dopo scambi epistolari, iniziative umanitarie in suo favore e rigorose chiusure in linea di principio, dopo una lunga sequenza di ambiguità e ritardi della politica e di apparati dello Stato, Moro venne ritrovato ucciso, su indicazione degli stessi brigatisti rossi che l’avevano rapito, in una Renault rossa. Il luogo del ritrovamento, via Caetani, aveva una forte carica simbolica: nel centro storico di Roma a pochi metri di distanza dalle sedi della DC e del PCI, quasi a significare che con la morte del leader democristiano quel progetto di collaborazione tra i due partiti di massa della politica italiana moriva anch’esso.

di On. Pino Pisicchio

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