DI VITTORIO GIUSEPPE

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DI VITTORIO GIUSEPPE

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Cerignola (Ba), 11 agosto 1892 – 3 novembre 1957

La ruota della storia marcia in avanti e non automaticamente: marcia perché milioni di esseri umani sfruttati, oppressi, umiliati si muovono e la spingono, la fanno andare avanti; e avanti andrà sempre, irresistibilmente, per la liberazione totale del lavoro e per l’affratellamento di tutti i popoli. Discorso di Giuseppe Di Vittorio a La Spezia nel 1952

Giuseppe Di Vittorio arriva nella sua amata Cerignola il mattino del 17 settembre 1957. Come sempre, la sua visita, è l’ultima ma nessuno lo sa, è per tutti un’occasione di festa, un giorno da ricordare per migliaia di contadini e braccianti che lo venerano, senza alcuna esagerazione.
Per centinaia di migliaia di lavoratori della terra, Di Vittorio non è il solito zappatore che con un minimo d’ingegno è riuscito a fare carriera fino ad arrivare in Parlamento ed al vertice della Segreteria nazionale della CGIL. Per la gente della Capitanata Di Vittorio è un simbolo, è l’uomo che è riuscito a dare dignità non solo al lavoro dei contadini della sua terra, affrancandoli dalla miseria e dall’abbrutimento in cui tutto il contadiname meridionale viveva da secoli, ma ha contribuito a formare nella coscienza sociale il ruolo del bracciante, del lavoratore, del prestatore d’opera, in una società che, fino all’avvento del Fascismo, gli riconosceva al massimo il diritto alla sopravvivenza.
L’occasione che porta Di Vittorio a Cerignola è la Festa dell’Unità ma nella riunione ristretta che avrà con i dirigenti locali del Partito Comunista e della Camera del lavoro, c’è aria di tempesta.
I fatti d’Ungheria del 1956, la violenta campagna anticomunista che ne segue, l’aumento costante degli iscritti alla CISL, le defezioni silenziose e clamorose dal PCI e dalla CGIL – specie dopo la denuncia dei crimini di Stalin al XX Congresso del PCUS il 14 febbraio dello stesso anno – e il diverso atteggiamento dei socialisti, avevano finito col frastornare e logorare lo spirito battagliero della dirigenza comunista e dei sindacalisti ‘rossi’ non solo di Cerignola ma di tutto il Paese.
Poi c’era la posizione assunta da Di Vittorio, dopo i fatti di Postdam dell’autunno, dove sottolineava che… il socialismo è libertà, il socialismo è giustizia, bontà, umanità. Senza consenso popolare e senza puntare alla conquista ideale e politica e non sulla coercizione si rischia di far fallire ogni sforzo collettivo di ricostruzione e di rinnovamento. Peggio ancora aveva detto all’indomani dell’invasione dell’esercito Sovietico in Ungheria… la CGIL, fedele al principio del non intervento di uno Stato negli affari interni di un altro Stato deplora che sia stato richiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere. Di fronte alla tragica situazione determinatasi in Ungheria la CGIL ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva di metodi antidemocratici di governo e di direzione politica che determinano il distacco fra dirigenti e masse popolari.
Il 30 ottobre Giuseppe Di Vittorio è convocato alla direzione nazionale del PCI a Roma e messo esplicitamente sotto accusa, qualcuno dice perfino minacciato di espulsione dal Partito. Ne esce assai scosso, è stato chiamato all’obbedienza, alla disciplina e, in un comizio del 4 novembre a Livorno torna sull’argomento e sui suoi passi… noi siamo pronti a tutte le rinunce per non danneggiare l’unificazione sindacale, ed il massimo esempio con sacrificio, lo abbiamo dato quando a nome della direzione della CGIL abbiamo sottoscritto una dichiarazione che in alcune parti non corrisponde alle nostre concezioni… poi, alle orecchie più intime e fidate dirà… quella classe operaia non meritava cose simili!

Ritorno a Cerignola
Ecco dunque la ragione della discesa di Di Vittorio in Puglia: aveva bisogno di sfogarsi, aveva bisogno di comprensione dai vecchi amici, aveva bisogno di sentirsi fra la sua gente e parlare a cuore aperto a chi lo conosceva e capiva il suo stato d’animo, il travaglio del suo essere sindacalista e politico allo stesso tempo.
Tuttavia, Cerignola è la sua città, il suo feudo diceva Luigi de Secly ed egli non accetta che uomini con cui ha condiviso anni di lotta, si adagino di fronte alla prima grave crisi della sinistra nazionale… voi, più di altri, dovete reagire. Uscire da una posizione di comodo preoccupandovi di individuare le cause della forte emorragia di iscritti subìta negli ultimi tempi. Pare che alla fine della riunione – scrive il corrispondente della Gazzetta – abbia perfino minacciato di sostituire l’intera dirigenza se non si fossero mobilitati per il recupero degli iscritti.
Era una rampogna severa ma allo stesso tempo bonaria. Di Vittorio, con questi uomini, non riesce ad essere duro.
Poi si reca alla Festa dell’Unità, fra i tantissimi che hanno zappato la terra accanto a lui, che con lui hanno condiviso una giornata di lavoro dall’alba al tramonto per un tozzo di pane e cipolla alla mezza e l’acquasala a sera, un pancotto condito con poche gocce d’olio. Tutti gli si stringono attorno, lo salutano, la stretta delle loro mani nodose e callose gli toccano il cuore già debole, lo circondano e lo abbracciano senza sapere che sarà per l’ultima volta.
Parla poco, aveva già subito un attacco cardiaco, si affaticava con un niente e tuttavia, quando poteva, evitava palchi, balconi e microfoni lo faceva volentieri perché… devi poter guardare negli occhi i lavoratori – diceva – li devi veder respirare, devi essere capace di sentire dentro di te, se approvano o se disapprovano.
La morte lo coglie il 3 novembre a Lecco dove si era recato per inaugurare la nuova sede della Camera del Lavoro. Un secondo o forse un terzo attacco cardiaco lo aveva stroncato per sempre. Il mattino successivo, tutto l’universo comunista, non sa se gioire prima e piangere poi o se, al contrario, piangere prima la scomparsa del più grande leader sindacale che la CGIL abbia mai avuto e gioire poi per la più clamorosa ‘rivincita’ della potenza sovietica: il 4 novembre, i giornali di tutto il mondo, annunciano il successo del secondo lancio spaziale Sputnik con a bordo la famosa cagnetta Laika.
Come Laika, Di Vittorio ha dovuto attendere che la morte lo ghermisse dallo spazio eterno prima che una sua immagine venisse pubblicata sulla prima pagina della Gazzetta. Neanche a Gaetano Salvemini, nemico acerrimo del liberalismo, era stato riservato lo stesso trattamento. Ancor più stupisce il commento di Luigi de Secly, il direttore della Gazzetta, che dimostra quanto fosse consapevole dell’intimo travaglio di Di Vittorio… il dramma vero della sua esistenza, la probabile causa che lo ha logorato anzitempo, è stato il contrasto fra la genuina tendenza di sindacalista e l’esigenza di partito.
Eppure, appena due mesi prima lo aveva definito agitatore di popolo continuando a mantenere, verso Di Vittorio, un atteggiamento di aperta ostilità che ha radici lontanissime nonostante perfino i suoi più accaniti avversari politici e sindacali gli riconoscessero apertamente, un equilibrio ed una capacità di mediazione degni della massima considerazione.
Angelo Costa, Presidente della Confindustria negli anni Cinquanta, definiva Di Vittorio un avversario leale… serbo di lui il ricordo di una controparte onesta, capace e sinceramente legata agli interessi dei lavoratori. Vittorio Valletta, il potente presidente della FIAT degli anni Cinquanta, volle attendere il suo turno per essere ricevuto da Di Vittorio quando si rese conto che l’anticamera del Segretario della CGIL, non era frequentata da politici e industriali, ma da semplici operai e contadini… quel comunista serio, competente, persuasivo credeva in quello che faceva e bisognava tenerne conto.
Le cause giuste – soleva dire Di Vittorio – convincono gli uomini onesti… e la sua dirittura morale, il suo slancio ideale costringeva gli interlocutori, l’avversario a sentirsi uomo e a non barare. Chiunque trattasse con lui, non lo dimenticava mai.

Lo scacciacorvi
Di Vittorio nasce a Cerignola l’11 agosto 1892 nell’unica stanza a piano terra, in via Salpi 32, dove abitavano il padre Michele, la madre Rosa e la sorella Stella. Con lui, Peppinello, sarebbero stati in quattro e il già esiguo spazio si riduce ulteriormente. Una famiglia modesta: bracciante di fiducia il padre Michele, ‘curatolo’, di un’azienda agricola in agro di Manfredonia. Erano quasi ‘benestanti’, Michele aveva un lavoro dignitoso ed era più di quanto la maggior parte degli abitanti di Cerignola avesse. Erano gli anni della più grande migrazione di popolo dall’Italia verso le Americhe. Erano gli anni in cui la maggior parte della popolazione del Mezzogiorno mangiava si e no una volta al giorno e non sapeva se avrebbe mangiato anche l’indomani.
E la sventura è sempre in agguato e pronta ad accanirsi sulla povera gente. Così accade che nell’inverno del 1899 una tremenda piena di acqua fangosa inonda le campagne della Capitanata e Michele, il ‘curatolo’, il padre di Peppinello, nel tentativo di salvare le bestie del padrone resta per ore nell’acqua e nel fango fino allo sfinimento. Ma non le salverà e tornato a casa, affranto e distrutto, è assalito dalla febbre e una distruttiva ‘infezione palustre’ che finisce per debilitarlo. Tre mesi dopo, quel male terribile se lo porta via. Michele muore il 22 febbraio 1900, aveva appena compiuto quarant’anni. Lascia moglie e figli nella miseria più nera.
Dopo i funerali, racconta lo stesso Peppino, io e Stella tornammo a casa con nostra madre: non mancava soltanto papà ma anche il mangiare.
Peppino che aveva poco più di sette anni, dovette lasciare la scuola per cercarsi un lavoro, aiutare la madre che trova un’occupazione come lavandaia. Peppino era troppo giovane per fare un lavoro pesante in campagna… ma basta cominciare… gli dissero. Così, prima gli fecero raccogliere i piselli, poi lo adibirono a fare lo ‘scacciacorvi’. Circa un anno dopo, gli misero una zappa fra le mani e imparò a curvare la schiena sulla terra. A nove anni era già con i braccianti adulti.
Ma il ragazzo era sveglio e aveva capito che l’unico modo per riscattarsi da una vita di stenti era imparare, capire, istruirsi. Non aveva rotto i ponti con il suo anziano Maestro di scuola elementare, Arcangelo Perreca, a cui chiedeva libri e consigli. Ogni fine settimana, quando tornava a casa dalla masseria, andava a trovarlo con un elenco di parole che aveva sentito e non ne conosceva il significato.
La sera, invece, davanti al pancotto, che nelle campagne della Capitanata chiamavano ‘aquasale’, reso saporito solo da qualche goccia d’olio, s’accendeva una candela, si metteva in un angolo della ‘cafoneria’, un camerone adibito a dormitorio, e leggeva finché il sonno gli chiudeva le palpebre. Lui sapeva che i braccianti adulti passandogli accanto diretti ai loro giacigli lo guardavano con affetto e scuotevano la testa… studia, studia sembravano dire, anche tu prima o poi sarai vittima della rassegnazione, questa misera, secolare condizione in cui versa la classe contadina non muterà mai: è endemica, congenita, inestirpabile e non sarai tu a cambiarla.
Invece Peppino insiste, legge e si istruisce sempre di più, parla, discute con i suoi coetanei… se il mondo è tanto ingiusto deve cambiare, e incita alla ribellione. Intanto ha scoperto due cose, l’amore per la sua terra, totale, passionale ed un librone che all’interno conteneva migliaia e migliaia di vocaboli, tutti in fila, uno sotto l’altro e, accanto ad ogni parola, il suo significato, un libro meraviglioso, il libro più bello che avesse mai visto: si chiamava Vocabolario della lingua italiana. Lo aveva trovato a Barletta sulla bancarella di un rigattiere… fu una delle scoperte più dirompenti della mia vita. Ricordo che non posai più il libro neanche quando mi dissero il prezzo, mi mancava almeno la metà dei soldi che ci volevano, ma il rigattiere si accorse che il desiderio di quel libro era così forte che me lo dette ugualmente.
Dal giorno in cui Peppino scopre quel Vocabolario, inizia la sua nuova vita di trascinatore di popolo. Ancora non aveva pienezza del significato di sindacalista. Bisognava ribellarsi davanti alle ingiustizie, aveva detto ai suoi coetanei, ai ‘cafoni’ più anziani e poi aggiungeva le parola che gli aveva dettato il suo Maestro… ribellarsi senza istruzione vuol dire essere battuti e umiliati. Infatti, alla sua prima partecipazione ad uno sciopero del 1902, a Cerignola, torna a casa pestato e sanguinante.
Ma lui insiste. Non intende mollare e continua a leggere, ad istruirsi, a vedere sempre più frequentemente il suo insegnante di scuola elementare. Su Perreca il ragazzo riversa i suo tormenti esistenziali e la condizione miserevole in cui versano i braccianti che pare immutabile. Perreca lo ascolta, lo conforta e gli consiglia cautela, di non lasciarsi trascinare dalla rabbia e neppure abbattere dalla sua condizione di ‘cafone’ frustrato, prevaricato dall’arroganza secolare dei padroni.

Il primo sciopero
Tre anni dopo, nel 1905, la Lega contadina di Cerignola indice uno sciopero generale per il salario. Di Vittorio viene avvisato all’ultimo momento dal suo amico e coetaneo Ambrogio Morra. Sarà il suo battesimo di fuoco e sangue: nel pieno della manifestazione scoppia un tumulto, la cavalleria tenta, senza successo di disperdere gli scioperanti, ma i carabinieri sparano sulla folla e d’un tratto Peppino sente staccarsi dalla sua mano quella di Ambrogio. Quando si gira, Ambrogio è a terra in una pozza di sangue, senza vita.
Peppino, insieme a pochi suoi coetanei, veglia la salma di Ambrogio per tutta la notte. Il giorno dopo lo accompagnarono al cimitero dove un anziano bracciante toccando la bara disse… Ambrogio ha finito di avere fame!
Con un nuovo, fitto dolore nel cuore Peppino si fortificò, caricandosi di maggiore determinazione. Più che mai intendeva portare avanti le lotte dei braccianti agricoli. Quel lutto lo rese più maturo, un leader, tanto che dopo i funerali convinse i braccianti rimasti con lui a giurare davanti all’aratro che Ambrogio non era morto invano.
L’anno dopo, nel 1906, a quattordici anni, Di Vittorio era già una guida dei giovani del suo paese. Parlò e commemorò, con la Lega dei braccianti nella piazza di Cerignola, l’assassinio di Ambrogio. Tutti l’ascoltarono, il ragazzo era cresciuto, non era ancora un uomo, ma braccianti giovani e anziani cominciarono a considerarlo tale, a stimarlo, era diventato un vero animatore delle lotte bracciantili e, con i primi successi, cominciarono a dargli retta, a seguirlo. Tuttavia, ancora non si rendeva conto della forza di un sindacato organizzato. La sua ‘forza’ era il contatto fisico e diretto con i suoi compagni, un vincolo di solidarietà capace di ottenere e far rispettare una serie di intese collettive e di finalizzarle per eventuali azioni conflittuali. Agiva soltanto dopo aver trovato l’accordo con tutti sulle rivendicazioni da sostenere.
Il sindacato ufficiale a Cerignola, era la Lega dei braccianti in cui Di Vittorio era stato nominato membro del Consiglio. A capo c’era Antonio Misceo, un galantuomo a cui Di Vittorio si rivolgeva per chiedere consigli su come avviare una rivendicazione e condurre una trattativa con i padroni. I braccianti avevano deciso di chiedere più olio sul pane dell’acquasala, che ottennero quasi senza ricorrere allo sciopero, e la riduzione dell’orario di lavoro… non si può lavorare dall’alba al tramonto, spesso anche fino a sera. Bisogna concordare un orario giusto, adeguato alle forze di tutti i braccianti.
Fu una trattativa lunga e nervosa, una conquista fondamentale che Di Vittorio ottenne, supportato dalla maggior parte dei giovani pronti ad aderire ad azioni di sciopero che non si faranno. Alla fine di molte riunioni con i proprietari terrieri, i braccianti di Cerignola, unici in tutta la Puglia, ottennero le nove ore giornaliere di lavoro.
Nonostante lo scalpore per una così grande vittoria sul padronato, il giovane sindacalista non ebbe alcuna menzione sul più diffuso quotidiano pugliese. Il Corriere della Puglie si accorse di Di Vittorio nel 1912 quando il corrispondente di Cerignola segnalò che… il noto sindacalista socialista ha preso la parola in un comizio durante uno sciopero di braccianti che contestavano ai proprietari terrieri l’utilizzo di manodopera ‘forestiera’ a salari più bassi e più lunghe ore di lavoro.
Era l’anno in cui anche il giornale pugliese sosteneva il bracciantato… gli scioperi che hanno prodotto lutti e disastri sono finiti, ma non si potrà rimanere tranquilli fino a quando la remunerazione dei contadini non sarà tale da essere sufficiente al sostentamento. Non si potrà avere fiducia nella quiete fino a quando peserà il rimorso nella coscienza di chi mangia per le tante famiglie derelitte che non mangiano.
Eppure, già dall’autunno del 1910 Di Vittorio collaborava con il quindicinale di Parma Gioventù socialista e poi con Sempre Avanti, nonostante le sue lacune nell’esprimersi correttamente, tanto che a margine di ogni lettera si raccomandava di… far correggere ogni mio scritto da un vostro redattore essendo consapevole che i miei articoli non sono scritti secondo le regole della grammatica e della sintassi.
Nel frattempo Di Vittorio, sempre aiutato e consigliato da Antonio Misceo… senza di lui, ricordò anni dopo, non sarei servito a molto, non avrei imparato a combattere con i lavoratori e per i lavoratori… cominciò a porre problemi sociali

Al Congresso di Firenze
Il 1911 è un anno di svolta nella vita sindacale e culturale di Di Vittorio. Delegato al Congresso nazionale dei giovani sindacalisti a Firenze e, per la prima volta affronta un viaggio ‘oltre’ la Puglia con i soldi di una colletta fra i braccianti. L’esperienza è esaltante, Peppino è affascinato dalla grande città artistica, dalla bellezza di Firenze e le discussioni, il dibattito al Congresso gli aprono nuovi orizzonti.

Cerca contatti, cerca unità fra le varie organizzazioni, ma ottiene la conferma che la Confederazione del lavoro non è la soluzione ai problemi che affliggono i braccianti meridionali; la Confederazione agisce e decide per conseguire obiettivi sindacali e politici più ampi, al di sopra dei lavoratori e spesso senza tener conto delle esigenze più elementari di questi. Ma la sua esperienza dimostrava che i protagonisti delle lotte erano i sindacalisti cosiddetti rivoluzionari, quelli che, come lui, avevano collegamenti e contatti diretti con le masse, le sole a decidere ed a prendere posizioni. Non di meno, non farà mai nulla per creare divisioni fra lavoratori, spenderà sempre tutto il suo prestigio e la sua autorevolezza per impedire lacerazioni fratricide.

Di Vittorio parte per Firenze nel giugno del 1911 con un vestito nuovo di lana pesante ed un cappotto sul braccio che porta la valigia di cartone pressato. Mamma Rosa aveva insistito… devi andare al Nord e lì, si sa, fa freddo! E a Firenze, prima lo guardarono incuriositi e con un sorrisetto di sufficienza, poi, quando lo ascoltarono, con seria considerazione.

Nel luglio successivo Di Vittorio viene invitato a tenere un comizio a Minervino Murge dove l’attività della Lega era ferma da un decennio a causa di una manifestazione violenta, finita in tragedia nel 1898. Di Vittorio arrivò nel grosso centro agricolo su una bicicletta. Il comizio entusiasmò la grande massa dei braccianti. Le sue parole aprirono nuove speranze tanto che prima inaugurarono una nuova sede della Camera del Lavoro, poi richiamarono Di Vittorio e lo elessero, all’unanimità, Segretario.

Nell’ottobre successivo, gli agrari di Cerignola misero in discussione l’accordo, mai digerito, sull’orario di lavoro e i braccianti decisero uno sciopero ad oltranza. Di Vittorio, come sempre, era alla testa del corteo. Non voleva uno scontro con i mazzieri degli agrari e i carabinieri, sempre al servizio del più forte, perciò, decise di passare dal Municipio e chiedere la mediazione del Sindaco il quale, per tutta risposta, farà arrestare lui e tutta la prima fila del corteo.

La folla, minacciosa, seguì gli arrestati fino alla prigione e nessuna carica di carabinieri riuscirà a smuoverli. Durante la notte, si decise di trasferire tutti nel carcere di Lucera dove Di Vittorio resterà per tre mesi e, per la prima volta, schedato come ‘sovversivo popolare pericoloso’… troppo amato dal popolo, dai lavoratori, dai contadini, si diceva nella scheda.

Tre giorni dopo Di Vittorio riceve la visita del Cappellano del carcere che lui, sindacalista ateo, salutò con freddezza. Ma questi non si perse in chiacchiere, dopo qualche parola di cortesia, prima di andarsene gli lascia qualche libro da leggere, che Peppino accolse con indifferenza. Se ne pentirà: i titoli dei volumi erano tutt’altro che religiosi. Il parroco gli aveva lasciato I promessi sposi, I canti di Giacomo Leopardi e La città del sole del filosofo calabrese Tommaso Campanella.

Quei libri, letti e riletti, erano contenitori culturali più preziosi del Vocabolario scoperto su una bancarella a Barletta.

Nel 1912, uscito dal carcere di Lucera, Di Vittorio viene eletto nel Consiglio Nazionale dell’Unione Sindacale Italiana e dirigente regionale della federazione sindacale giovanile. Aveva solo vent’anni quando inizia a percorrere quella strada che lo condurrà ai vertici del sindacato nazionale e internazionale non senza nuove traversie, trappole, arresti, persecuzioni, carceri, esilio e confino.

Intanto, in Europa, cominciavano a profilarsi furiosi venti di guerra. Le piazze ribollivano fra interventisti e neutralisti e il governo dell’interventista Antonio Salandra, non riuscirà a fermare eccessi fra le parti che finiranno per provocare diverse vittime a Rocca Gorga, in provincia di Latina e ad Ancona. Di fronte alle proteste per i continui richiami alle armi, che spopolavano di braccia le campagne, ripresero gli scontri con le forze dell’ordine nelle Marche, in Romagna e in Puglia dove a Bari, per cinque giorni, carabinieri e soldati si trovano impegnati in una vera battaglia.

Manifestazioni a catena e spontanee di cittadini riempiono gran parte delle piazze d’Italia contro le quali il governo non saprà fare altro che rispondere con repressioni e arresti. Molti dimostranti erano neutralisti, ma tanti altri chiedevano lavoro, mentre migliaia di popolane della città vecchia di Bari assediarono il Municipio per protestare contro il raddoppio del costo della farina e del pane.

Il Circolo giovanile (Leggi anche)

Con la guida dell’anziano dirigente della Lega, nel 1907 Peppino organizza i giovani di Cerignola e fonda il primo circolo giovanile dove in breve tempo iscrisse quasi tutta la gioventù bracciantile del paese oltre a diversi figli di artigiani e bottegai consolidando così un gruppo di 400 iscritti a cui propone due iniziative dirompenti: l’istituzione di una scuola serale per analfabeti e una campagna di sensibilizzazione contro l’alcoolismo.

Di fronte a questi propositi ‘eversivi’, gli agrari sollecitarono l’intervento del Sindaco che subito convocò Di Vittorio… come ti è venuta in testa questa idea balzana, toglitela dalla testa, dimenticala, il Comune non ha denaro da spendere per braccianti analfabeti. Evidentemente nella discussione dev’essere volata qualche parola di troppo perché il Sindaco lo farà arrestare dai vigili urbani e Di Vittorio resterà per tre giorni nel carcere di Cerignola.

Ma alla fine ottenne la scuola serale con i libri gratis, ed egli stesso conseguì la licenza della terza elementare.

L’istituzione del circolo socialista travalicò l’ambito regionale e ben presto arrivarono opuscoli politici e sindacali che venivano letti e riletti per formare nei giovani una coscienza sindacale e sociale, per informarli e istruirli. Di Vittorio infatti considerava l’istruzione la base per fare passi avanti nell’indirizzare i giovani verso la consapevolezza dei loro diritti.

E ce ne voleva di coraggio per aderire alla nuova provocazione. Durante una di quelle magnifiche giornate di sole invernale, Di Vittorio entra nella sede del Circolo e annuncia… da domenica prossima anche noi indosseremo cappello e cappotto invece della solita coppola e tabarro… Peppino, gli chiesero, ma come si vedrà che non siamo uguali? Infatti, non si vedrà perché noi siamo uguali a loro.

Anche quando insistevo perché i braccianti imparassero a non togliersi la coppola per salutare gli agrari, o quando cercavo di far capire che anche vestendoci come loro rompevamo una servitù ingiusta, anche allora, senza ancora intenderlo appieno facevo un’opera di educazione e scuola di dignità.

Una delle sue qualità fondamentali in quegli anni era la costanza, la perseveranza nel conseguire gli obiettivi che si proponeva. Aveva imparato dagli anziani che era difficile ottenere qualcosa, ma che era ancora più difficile conservare ogni singola conquista se non si era capaci di porsi come interlocutori validi, onesti. Il rispetto degli agrari andava conquistato e per conservarlo non era disposto ad avere indulgenza con braccianti che mostravano disimpegno o noncuranza sul lavoro. Era lui il primo a dimostrare che gli accordi, i patti, andavano rispettati.

Era convincente con i suoi e con gli agrari fino al punto da riuscire ad imporsi anche con la ricca famiglia Caradonna, grandi proprietari terrieri della Capitanata, la quale finì per applicare il nuovo orario di lavoro anche ai braccianti ingaggiati nelle loro terre di Canosa.

Spesso però erano gli agrari a tentare di dribblare l’accordo sull’orario di lavoro tentando, continuamente, d’ingaggiare mano d’opera ‘forestiera’. Di Vittorio ragionava, parlava anche con i ‘forestieri’. Uno scontro fra lavoratori che osservavano i patti con quanti non osavano chiedere il rispetto delle nove ore, diceva, era un’arma micidiale nelle mani dei padroni che cercavano ogni debolezza, ogni crepa nell’organizzazione sindacale per spezzare l’unità dei braccianti.

Già nel 1911 Di Vittorio era diventato un simbolo, un leader carismatico per i lavoratori della terra. Era amato e rispettato non solo dai braccianti in quanto sindacalista, ma anche come persona. Lo cercavano tutti, ovunque, anche e specialmente i piccoli proprietari che subivano, loro pure, le prepotenze dei grandi latifondisti. Di Vittorio era garanzia di serietà per le piccole aziende: gli accordi con lui stipulati erano validi e osservati da tutti.

Agitatore di popolo (Leggi anche)

La repressione provocherà una nuova ondata di indignazione e rabbia mentre i sindacati decidevano scioperi ad oltranza: era la ‘settimana rossa’.

Gli animi erano esacerbati ovunque. Di Vittorio, proprio in quei giorni, era a Bari alla manifestazione degli edili per il contratto di lavoro e, sempre in testa ad ogni protesta sindacale e politica, è ancora una volta segnalato e accusato di ‘attentato contro i poteri dello Stato’ e incitamento alla rivolta. Insomma, un ‘agitatore di popolo pericoloso’. Questa volta non se la sarebbe cavata con qualche mese di detenzione.

Nascosto e fatto arrivare a Milano, con la solita colletta, con l’aiuto di compagni socialisti e sindacalisti lombardi fu trovato il modo di farlo arrivare in Svizzera, a Lugano, era il suo primo esilio. Ma vi rimase solo qualche mese. Il governo Salandra, che aveva deciso per l’intervento a fianco della Triplice Alleanza, insieme all’odiata Austria, concesse un’amnistia generale. Il Paese aveva bisogno di carne da macello da schierare contro la Triplice Intesa: Francia, Inghilterra e Russia zarista. Per mandarli a morire insomma, tutti, anche i ‘paria’ della società, come venivano chiamati analfabeti e cafoni, facevano comodo… la Patria perdonava anche quei reprobi che avevano osato combattere i padroni e la guerra, tutti tornavano utili, anche i galeotti e gli esiliati.

Paradossalmente, ogni volta che cercavano di rendere quel giovane sindacalista innocuo, chiudendolo in una cella o costringendolo a nascondersi, lo rendevano più forte. Era accaduto anche questa volta come nel carcere di Lucera. Nella solitudine del suo esilio svizzero, Di Vittorio era tornato a tuffarsi nei libri, e questa volta non erano I promessi sposi o le poesie di Leopardi, erano testi ben diversi. A Lugano leggerà Il manifesto dei comunisti, Il Capitale di Karl Marx, testi di Friedrich Engels e la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis.

Dopo quelle letture – dirà in seguito – ho avuto coscienza dell’immensità delle cose, delle opere, dei libri di cui non avevo mai sentito parlare. E mi sembrava che tra me e il mondo del sapere ci fosse un muro. Ogni libro letto, ogni cosa nuova imparata, mi aiutava a scalare quel muro.

Il ritorno a casa, a Cerignola, è trionfale. Peppino sarà ricevuto anche dal Sindaco la cui Amministrazione, dopo le elezioni comunali del 1913, era cambiata, era stata strappata dalle mani degli agrari. Ma la gioia, la felicità del ritorno dura poco. Qualche giorno dopo gli arriva la cartolina precetto. Deve partire. Benché antimilitarista e neutralista, Di Vittorio non ha scelta: o militare o disertore.

Era diventato un ragazzone alto e robusto e lo inviarono al 1° Reggimento bersaglieri a Napoli dove familiarizzò con tutte le reclute e si fece notare per intraprendenza e intelligenza tanto che fu scelto per frequentare il corso allievi ufficiali e spedito a Cividale del Friuli. Riuscì a classificarsi fra i primi e gli venne assegnato il comando di un plotone, ma all’ultimo momento ecco la cartella segnaletica dalla questura di Bari e Foggia… l’individuo oggetto della segnalazione è cattivo, ostile al rispetto delle leggi e della proprietà, sovversivo contro l’Esercito, elemento da vigilare. Immediatamente rimosso dal grado di sottotenente è spedito al fronte come soldato semplice.

Nel 1916, ferito seriamente sull’altopiano dei Sette Comuni, nel Trentino, viene curato, dichiarato inabile al fronte e trasferito a Roma dove rimase sotto stretta sorveglianza. Successivamente, dopo un breve periodo di convalescenza, è aggregato ad una compagnia di disciplina all’isola della Maddalena in Sardegna. Poi gli verrà concessa una licenza in attesa di nuova destinazione e lui, tornato a Cerignola, riprese la sua vita come se nulla fosse accaduto: riorganizzò le Leghe, vi fece entrare anche le donne che nei campi sostituivano i giovani sotto le armi, riorganizzò il circolo socialista e in breve tempo restituì al paese un clima di concordia costringendo gli agrari a rispettare i vecchi patti.

Il giorno dopo la manifestazione del 1° maggio 1917, scaduta la licenza, Di Vittorio torna in caserma dove le autorità militari continuano a tenerlo d’occhio, a trasferirlo continuamente fino a Palermo ed in ultimo a Porto Bardia al confine fra Libia e Egitto.

Sarà congedato solo dopo la fine delle ostilità, ma nel frattempo, nonostante la vittoria contro le potenze con cui ci eravamo alleati all’inizio della guerra, il Paese era diventato una landa di miserie e degrado senza prospettive. Bisognava rifare tutto. Ricostruire, riprendere le forze, tornare al lavoro, ma la borghesia agraria, specie nel Meridione, non voleva saperne d’investire su terreni ormai abbandonati, incolti e isteriliti a causa della guerra, preferiva i ricchi profitti che venivano dalla riconversione industriale in atto nel Nord del Paese.

Il primo gennaio 1919, il Corriere delle Puglie, l’ormai consolidato quotidiano barese, augura… che ogni soldato, tornando dopo anni a casa, trovi una famiglia senza miseria. Che ogni contadino riprenda il lavoro su di una terra cui possa affezionarsi e non maledire il suo sudore sfruttato da proprietari ignoranti, gretti e indegni di possedere quel tesoro inesauribile che è un campo. Che ogni operaio abbia lavoro. Che ogni bambino abbia una scuola. Che ogni orfano una casa.

Parole vane. Non avrà niente nessuno. L’inflazione è alle stelle, in molte famiglie manca il pane e agli scioperi per la disoccupazione si aggiungono scioperi e proteste per il caro vita. Scendono in sciopero proprio tutti: contadini, muratori, panettieri, impiegati, maestri, elettricisti e ferrovieri… non è il momento di incrociare le braccia ma di rimboccarsi le maniche e lavorare con vigore fisico e intellettuale, scrive il Corriere, ma subito dopo avrà parole di fuoco contro la borghesia agraria… si metta la proprietà terriera sotto il controllo dello Stato, che un comitato di tecnici li costringa a fare quello che meglio risponde all’interesse nazionale e quando si rifiutano, li espropri dei loro beni da affidarsi alle organizzazioni cooperative dei contadini.

Segretario della CdL di Bari
In questo clima Di Vittorio torna a Cerignola, al suo lavoro di bracciante e sindacalista. Nel 1919 assume l’incarico di Segretario della Camera del Lavoro di Bari, sposa dopo anni di fidanzamento, Carolina Morra, lei pure contadina di Cerignola e, nell’ottobre del 1920 nasce Baldina. Poi, si trasferiscono a Bari: andranno a vivere in un’unica stanza messa a disposizione dalla Camera del Lavoro, in via Palazzo di Città nel vecchio borgo, nella stessa sede dove Peppino è stato eletto Segretario.

Carolina non avrà una vita facile con lui. Gli darà due figli, ma vivrà sempre con il timore di subire attentati, violenze e nel 1934, a Parigi, cede lasciandolo vedovo.

Intanto, il nascente fascismo, che nel 1919 aveva tentato di strumentalizzare il malcontento e le lotte fra lavoratori e proprietari terrieri, s’insinua sempre più prepotentemente, fra le pieghe della lotta di classe organizzando reduci e sbandati all’inizio armati solo di manganelli e bastoni. Ci penserà poi la borghesia agraria reazionaria, specie nel Mezzogiorno, a fornire loro armi e mezzi formando veri e propri reparti autonomi, sempre pronti a menare le mani, al servizio dell’agrario di turno.

I loro obiettivi erano le Camere del Lavoro… dove sindacalisti socialisti educavano i giovani alla violenza. Ne furono incendiate centinaia.

All’inizio del 1921 il Paese è sull’orlo della guerra civile. Comunisti e socialisti si sono divisi, i disoccupati si contano a milioni, i prodotti di prima necessità, farina e pane, aumentano continuamente, i sindacati proclamano scioperi a catena, socialisti e comunisti infuocano le piazze e fra loro s’infiltrano bande autonome di fascisti che con le camicie nere vi sguazzano come pesci nel mare.

Gli scontri sono quotidiani e violenti, ma i duellanti non hanno gli stessi obiettivi. Al Nord la lotta è politica e sociale, al Sud è peggio, è una battaglia per la sopravvivenza. Braccianti socialisti e comunisti si scontrano sia con i fascisti sia con le bande armate degli agrari.

Prima delle elezioni generali del 1921, sarà un massacro: 166 morti, 500 feriti e 726 sedi di partito e sindacali incendiate e devastate. Molte in Puglia, soprattutto quella di Cerignola fulcro delle lotte bracciantili e feudo di Giuseppe Caradonna, un latifondista importante in Capitanata, un vero signore della guerra forte di un reparto di cavalleria armata e di centinaia di manutengoli che avevano perfino una divisa propria armati di fucili e pistole.

Neanche Giovanni Giolitti, richiamato al governo dopo le elezioni del 1919, riuscirà a mantenere l’ordine pubblico. Eppure, nonostante il caos, c’è chi crede ‘veramente’ che il fascismo e non il socialismo, sedizioso, velleitario e scissionista, avrebbe portato la pace sociale nel Paese. A parere dei nazionalisti, ed in Puglia ce n’erano molti, i fascisti non facevano altro che reagire… per legittima difesa, alle provocazioni con l’avanguardia combattiva e spregiudicata della borghesia compromessa e minacciata nella sua esistenza.

I fascisti erano diventati padroni delle piazze, ormai non temevano più nessun rivoluzionario politico o sindacale, anzi, erano loro i nuovi rivoluzionari, era il fascismo la forza risanatrice nazionale… che riesce a battere ovunque i socialisti con le fresche e battagliere avanguardie della borghesia.

In queste condizioni, Giovanni Giolitti, all’inizio di aprile si dimette, scioglie le Camere e indice nuove elezioni per il 15 maggio 1921.

A Cerignola però, la lotta sindacale e politica è più dura che in qualunque altro centro della Puglia proprio per la presenza di due irriducibili antagonisti, Giuseppe Caradonna e Giuseppe Di Vittorio, che bisognava fermare a tutti i costi. Non sarà difficile. Il 15 aprile, durante l’ennesimo scontro fra braccianti e fascisti, Di Vittorio, ancora una volta arrestato, insieme ad altri cento braccianti e accusato di attentato ai poteri dello Stato, è trasferito al noto carcere di Lucera.

Prima delle elezioni, il 5 maggio 1921, sarà arrestato anche Adolfo Salminci, il sindaco socialista di Cerignola.

Come fare per tirare fuori da quella cella Di Vittorio? Cera un solo modo, al punto in cui stavano le cose: candidarlo alla Camera dei deputati nel collegio Bari-Foggia. Gli scissionisti di Gramsci, che avevano appena fondato il Partito Comunista, nicchiarono. I socialisti accettarono la sua candidatura ma Di Vittorio pretese di scendere in lizza come socialista indipendente.

Il fascismo
Il giorno delle elezioni, 15 maggio 1921, Cerignola è praticamente assediata dagli uomini di Giuseppe Caradonna che stazionano davanti a tutti i seggi elettorali. Bisogna impedire che Di Vittorio venga eletto: chi non dichiara esplicitamente di votare per lui, Caradonna, o per il Blocco Nazionale è allontanato a manganellate. Comunisti e socialisti tentano di forzare l’ingresso ai seggi e, dai bastoni e manganelli, si passa alle armi. Il bilancio della giornata elettorale è di 9 morti e decine di feriti. Su 10.119 elettori solo 3.309 riescono a mettere la scheda nell’urna.

Il Blocco Nazionale vince le elezioni, ma i fascisti hanno ottenuto in tutto il Paese solo 35 seggi. Anche Giuseppe Caradonna sarà eletto ma non è riuscito ad impedire l’elezione di Giuseppe Di Vittorio e la rielezione di Giuseppe Di Vagno che il 26 settembre del 1921, a Mola di Bari, pagherà con la vita il suo impegno politico.

Dopo la convalida degli eletti Di Vittorio si trasferisce temporaneamente a Roma lasciando a Bari, in una stanza della Camera del Lavoro, la moglie e la figlia Baldina che lo seguiranno di li a poco.

Il Re, intanto, aveva affidato l’incarico di formare il nuovo governo al socialista riformista Ivanoe Bonomi ma gli scontri fra squadre rosse e nere continuavano senza soste. Vana la formazione di un fronte unico, fra socialisti. comunisti e sindacato in un’Alleanza del Lavoro la cui presidenza è affidata a Giuseppe Di Vittorio. Di fronte all’impossibilità di porre un argine al caos politico e sociale, al culmine di una crisi parlamentare, economica, sociale e morale del Paese i fascisti, frustrati per il magro bottino ottenuto alle elezioni, scatenano le formazioni dei fasci autonomi, aumentando così provocazioni e scontri.

Il 26 febbraio del 1922 Ivanoe Bonomi si dimette.

Gli succede Luigi Facta, ma gli scontri continuano, i fascisti sempre più imbaldanziti e armati, finiscono per intimorire anche il Parlamento, praticamente impotente difronte alle piazze e sempre più dilaniato da intransigenze politiche insanabili. I liberali non vogliono accordi con socialisti e tanto meno con i fascisti, i quali con una forza di soli 35 deputati, riescono a tenere in scacco l’intera Assemblea.

La guerra civile ormai divampa in tutta l’Italia. Il 1° maggio 1922 Di Vittorio celebra a Bari l’ultima festa del lavoro, l’ultima grande manifestazione popolare prima che inizi la ‘parentesi’ fascista nella storia del Paese.

Nella prima metà di ottobre la violenza fascista è al culmine. È ormai chiaro che nessun governo potrà porre fine alle violenze e a governare. Sono giorni drammatici. Città come Bologna, Firenze, Genova, Milano e Foggia sono alla mercé dei fascisti che occupano e devastano Municipi e Camere del Lavoro. Il 28 ottobre il Consiglio dei ministri proclama lo stato d’assedio ma il Re rifiuta di firmarlo. Luigi Facta si dimette. Roma è circondata da trentamila fascisti e il Re decide, alfine, di affidare a Mussolini l’incarico di formare un nuovo Governo.

Intanto, durante il mese di agosto del 1922, la Camera del Lavoro di Bari viene chiusa e i dirigenti arrestati. Di Vittorio apprende la notizia a Roma, torna a Bari con la figlia e la moglie, in avanzato stato di gravidanza e prende alloggio, in quella stessa stanza della Camera del Lavoro che li aveva già ospitati fino al 1921.

La voce che Peppino era a Bari, non tarda a spargersi per tutta la città. I lavoratori accorsero a salutarlo. Di Vittorio ebbe parole di conforto per tutti, strette di mano e promesse che presto avrebbe riaperto la Camera del Lavoro.

Il 21 ottobre 1922, Carolina è colta dalle doglie, soffre, ma è confortata da Peppino ch’è lì, accanto a lei. La moglie non sa che poche decine di metri dalla sede sindacale, c’erano anche i fascisti, tenuti a bada da un gruppo di Arditi del Popolo, che minacciavano di irrompere nella casa. Carolina, però, sentiva grida, tafferugli, poi spari. Il terrore che potessero irrompere nella sua stanza l’aiutò a ‘spingere’: quella sera nacque Vindice Di Vittorio.

Il 29 ottobre Mussolini, tronfio e soddisfatto, porta al Re la lista dei ministri e si accinge a presentarsi in Parlamento. Ha vinto… potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli… potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto. Lo farà presto.

La sera della Marcia su Roma la famiglia di Di Vittorio lascia la Camera del Lavoro di Bari. Il giorno dopo un gruppo di squadristi insieme ad un reparto dell’esercito occupano la sede sindacale.

Sembrava la fine di un incubo, sembrava fosse tornata la speranza che si ponesse fine alle gravi tensioni sociali, alla gravissima crisi economica. Invece, era solo l’inizio di un nuovo periodo oscuro, drammatico, di devastazione morale e materiale, di lutti.

In fuga da Bari con la moglie ancora debole, un neonato ed una bambina di due anni, Di Vittorio torna a Roma dove comuni amici e compagni gli hanno già trovato una sistemazione in una casina in campagna nei pressi di Castel Gandolfo riprendendo, lentamente e senza clamore, a riannodare le fila del sindacato mentre i fascisti, ‘i sempre pronti’, continuano ad intimidire, a seminare panico, ad occupare municipi e a provocare scontri con morti e feriti.

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Paradossalmente, è una situazione che neppure Mussolini può più tollerare. A tutti i costi bisogna fermare gli eccessi dello squadrismo, delle ‘camicie nere’. Il Partito è diventato un potere dello Stato ed è lo Stato, ora, che deve far osservare le leggi, mantenere l’ordine.

Ma i disordini, gli eccessi, non accennano a diminuire e, varare leggi restrittive senza una maggioranza in Parlamento è difficile. Dunque bisogna tornare a votare. Così, nel 1923 viene varata una nuova riforma elettorale che prevede un premio di maggioranza al partito più suffragato e il 6 aprile 1924, si torna alle urne.

Le elezioni si svolgono in un clima ancora più violento di quelle del 1921. Aggressioni e intimidazioni non si contano: sarà un plebiscito. Il Partito Nazionale Fascista ottiene la maggioranza assoluta anche senza il premio, ma non riescono a liberarsi né di Giuseppe Di Vittorio, eletto nella lista dei terzinternazionalisti, né di Giacomo Matteotti, oppositore socialista fra i più ostinati che il 12 giugno 1924 viene rapito e ucciso.

Lo sdegno per l’ennesimo, efferato delitto politico in tutto il Paese, è enorme. La stampa moderata, tiepida con il fascismo, chiede giustizia, altre testate prendono le distanze… molti fascisti hanno portato la mentalità di squadristi in alto senza comprendere che quella mentalità poteva stare solo all’opposizione, senza comprendere che il Partito, divenuto Stato, assumeva le responsabilità dello Stato. È una mentalità che Mussolini giustamente combatte e per noi coloro che hanno ucciso Matteotti rimangono sempre iene assetate di sangue non facenti parte di nessun partito né di alcuna nazione, scrive la Gazzetta di Puglia, il nuovo quotidiano pugliese fondato da Raffaele Gorjux e non ancora ‘allineato’.

È un momento drammatico per il fascismo e per il Paese, ma il 3 giugno Mussolini, in Parlamento, mette fine alle discussioni… dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io, io solo, assumo la responsabilità politica, morale e storica di tutto quanto è avvenuto. E mette fine al parlamentarismo, alla libertà di stampa, adotta una serie di provvedimenti restrittivi atti a limitare le libertà individuali e civili, vengono chiuse le organizzazioni politiche e sindacali non fasciste, sono arrestati molti antifascisti, ad altri vengono ritirati i passaporti e, sfumata la possibilità di una fusione socialcomunista, Di Vittorio aderisce al PCI. Nominato componente della Sezione Agraria prima di costituire l’Associazione Nazionale, è arrestato e il 13 settembre 1925 Di Vittorio torna nelle patrie galere

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Non sarà l’immunità parlamentare a tirarlo fuori da Regina Coeli, nel giugno del 1926, ma la sua qualifica di giornalista. Nel novembre successivo, con l’introduzione delle ‘leggi eccezionali’, Di Vittorio è ricercato, colpito da un nuovo ordine di arresto, è costretto, anzi sollecitato, a lasciare l’Italia. Riesce a riparare di nuovo in Svizzera, con la falsa identità di commerciante di vini, e da Lugano raggiunge la Francia.

Ogni opposizione al Regime ormai era diventata illegale. Chi non era fascista poteva scegliere fra la galera e l’esilio, chi non aveva la tessera del Partito non trovava lavoro e se qualche povero cristo riusciva a barcamenarsi senza mostrare il distintivo e la tessera, con una bella dose di olio di ricino finiva per adeguarsi.

Giuseppe Di Vittorio arriva a Parigi con la famiglia nel febbraio del 1927: sono dei fuorusciti, sono in esilio, sono illegali, devono nascondersi, per ora, solo dagli agenti dell’OVRA, i servizi segreti fascisti, e sono concretamente senza mezzi.

Vita grama, deve vivere con quel poco che gli mandano gli amici da Cerignola e con contributi periodici del sindacato mentre in Italia, il 7 maggio 1927, il Tribunale speciale lo condanna a 10 anni di carcere in contumacia e a due di confino. A Parigi Di Vittorio assume un nome di ‘battaglia’, Mario Nicoletti, dedicandosi al rafforzamento del movimento antifascista tra gli emigranti ed esuli italiani che cominciavano a diventare decine di migliaia.

Nasce il mito di Giuseppe Di Vittorio
Nella primavera del 1923 in un rapporto del prefetto di Bari, Ernesto Giobbe, al ministero degli Interni, si legge… nel disagio economico di cui le masse qui versano, per la disoccupazione e per il non soverchio interessamento dei dirigenti fascisti locali, vanno rafforzandosi nelle masse stesse, con un senso di nostalgia, l’affetto per l’on. Di vittorio, segretario dell’ex Camera sindacale del lavoro, affetto che si traduce, purtroppo, in danno al fascismo.

Il 5 maggio successivo il nuovo prefetto, Raffaele De Vita generale di brigata, torna a scrivere al Ministero sulla popolarità di Di Vittorio… la figura di costui sta ritornando in auge. Il 1° maggio venivano spedite all’on. Di Vittorio, dalle leghe operaie locali a titolo di regalo, 2000 lire raccolte tra spazzini, metallurgici, muratori, cooperativa cementisti, mugnai, pastai e cooperativa porto ora, dalle stesse, sono affannosamente ricercate cartoline-fotografie del Di Vittorio che sono acquistate a 2 lire la copia.

Il 15 giugno lo stesso Prefetto si reca personalmente nello studio fotografico di Michele Ficarelli, con un mandato di perquisizione e sequestra il negativo del ritratto di Di Vittorio ingiungendogli di non riprodurre altre cartoline… è inutile nasconderlo, il Di Vittorio ha nella massa operaia larghe simpatie.

Nel 1928 Di Vittorio è chiamato dalla sezione comunista di Mosca, i sovietici gli affidano la rappresentanza italiana dell’Internazionale contadina. Vi resta fino al 1930. Sarà un periodo fecondo e di relativo benessere. Anche la salute della moglie, Carolina è migliorata, ma tutti continuano ad avere una struggente nostalgia per l’Italia, per Cerignola, per la loro terra, per i genitori, gli amici. Per lenire la malinconia si nutrono di piatti il più vicino possibile alla cucina pugliese mentre Peppino si tuffa nella scrittura producendo due opuscoli importanti e di larga diffusione Il fascismo contro i contadini, e I contadini e la guerra.

Nel 1930 rientrano a Parigi: il PCI ha chiesto a Di Vittorio di organizzare l’attività clandestina della Confederazione del Lavoro in Italia e cercare, fra emigrati ed esuli che tornavano in Italia, d’infiltrarli fra le fila dei sindacati fascisti che tentavano di allargare e aumentare la confusione fra i lavoratori sostenendo che le loro difficoltà, la disoccupazione, l’inflazione, il predominio degli agrari nelle campagne, erano conseguenze della dissennata politica dei sindacati e dei socialisti fino all’avvento del fascismo.

Tornato a Parigi Di Vittorio viene incluso nel Comitato Centrale dell’ufficio politico del PCI all’estero dove fa la conoscenza dei vertici del Partito come lui in esilio. Poi, nel 1934, è colpito da un grande dolore. Si spegne a soli 34 anni, Carolina, moglie e madre straordinaria distrutta, non solo e non tanto dalle privazioni – spesso si cenava con un bicchiere di latte, dirà la figlia Baldina – ma dal continuo timore di mettere i loro figli in pericolo a causa della loro vita nomade, da un paese all’altro, da una città all’altra in una continua situazione di pericolo.

Il 18 luglio 1936, esplode la guerra civile in Spagna. Il generale Francisco Franco, avverso il governo repubblicano di sinistra eletto nel febbraio precedente, raccoglie un gruppo di generali fidati, si rivolta contro il governo democratico di Madrid e da inizio ad una lunga guerra fratricida di una violenza inaudita e sanguinosa, in cui Franco avrà l’apporto dall’aviazione di Hitler e di truppe fasciste volontarie italiane. Tre anni di atrocità che inasprite dal furore religioso, lasciarono sul terreno più di un milione di morti.

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Anche molti europei accorsero volontari in Spagna, nelle file dei repubblicani, insieme a tanti esuli italiani, compresa l’Unione Sovietica che inviò uomini e mezzi. Naturalmente non poteva mancare Mario Nicoletti-Di Vittorio che parteciperà alla carneficina come commissario politico nella XI brigata internazionale. Si distinse in diverse azioni, fu ferito a Guadalajara e quando nel 1937 torna in Francia inizia a collaborare attivamente e poi a dirigere il giornale antifascista La voce degli italiani. Lì, in quelle due stanze della redazione parigina, Di Vittorio incontra il secondo amore della sua vita, Anita Contini, che sposerà otto anni dopo, il 18 settembre del 1945 a Cerignola.

Intanto, nel 1933 Adolfo Hitler aveva preso il potere in Germania, più o meno allo stesso modo che aveva fatto Mussolini, aveva poi riarmato il Paese e nel 1939 si annette Austria, invade Cecoslovacchia e Polonia e si assicura che la frontiera dell’Est, l’Unione Sovietica, non ostacoli i suoi piani firmando, il 23 agosto 1939, un patto di ‘non aggressione’. Un mese dopo, la Germania dà inizio alla seconda guerra mondiale che stese un manto di gramaglie su tutta l’Europa.

Era il si salvi chi può.

I comunisti italiani, non tutti e non solo, si sentirono traditi da quel ‘patto’. Era inconcepibile: il Paese che fino a poco prima rappresentava un baluardo nella lotta contro il fascismo, aveva perfino mandato i suoi figli a morire in Spagna, all’improvviso firmava un ‘patto’ con il più fascista dei paesi europei. Molti non fecero mistero di quel loro risentimento e Stalin, che aveva già dato inizio a purghe indiscriminate contro gli odiati trozkisti, giacché c’era, se la prese anche con gli italiani ‘ospiti’ in Russia. Alcuni, non è noto quanti, furono accusati di scarso spirito bolscevico e fatti sparire senza lasciare traccia.

Ma l’URSS era Stalin e lui non chiedeva al partito e alle masse di partecipare alla politica del Paese.

Come conseguenza del patto Ribbentrop-Molotov, la Francia mette fuori legge il Partito Comunista francese e diffida i comunisti italiani ad operare in Francia. Questi, da un giorno all’altro, si trovarono nella condizione di clandestini, ricercati dalla polizia francese e accusati, dall’Unione Sovietica, di eccessiva autonomia e da Mosca inviarono Giuseppe Berti, un intellettuale dotato di grande personalità, con il compito di svolgere un’accurata indagine ed eventualmente esautorare Giuseppe Grieco, capo del PCI in Francia.

Berti s’impegnerà a fondo per evitare che fra i comunisti italiani in Francia ci fossero infiltrazioni trozkiste e salvaguardare la purezza ideologica del partito, ma si era innamorato della figlia di Di Vittorio, Baldina, conosciuta a Mosca ch’era una bambina.

Non di meno, in entrambe le occasioni Di Vittorio adotterà la formula ‘non capisco ma mi adeguo’ avallando sia le direttive che Berti portò da Mosca, sia la firma del patto Ribbentrop-Molotov.

Comunque, era troppo tardi per fare interventi radicali. Ormai bisognava pensare alla propria incolumità, i francesi prima chiusero il loro giornale, La voce degli italiani, poi cominciavano ad operare arresti indiscriminati fra le fila dei comunisti francesi e italiani arrestando Luigi Longo, Piero Montagnani, Pietro Secchia, Ruggero Grieco, il sindacalista Bruno Buozzi e Anita Contini la compagna di Di Vittorio.

Il 9 aprile 1940 la polizia francese arresta anche, Baldina, la figlia di Di Vittorio, che viene rinchiusa nel campo di concentramento di Rieucros per un breve periodo. Qualche mese dopo, liberata, raggiunge Marsiglia e, da qui, gli Stati Uniti attesa da Giuseppe Berti, ch’era arrivato a New York due mesi prima e dove si sposano nel giugno del 1944.

Anche Anita, con l’aiuto dei genitori che vivevano in Francia e con documenti falsi, è rilasciata appena prima di Baldina. Mentre Vindice già dal 1935 era stato affidato ad amici che vivevano sui Pirenei, al confine con la Spagna.

Di Vittorio, invece, scampato ai primi arresti, si diede alla macchia. Andò a trovare il figlio sui Pirenei e avuto notizie della scarcerazione di Anita, tornò a Parigi. Ma era troppo pericoloso, Anita era sorvegliata dalla polizia francese e dagli agenti fascisti dell’OVRA e non voleva mettere in pericolo lei e se stesso. Viveva come un fuggiasco, cambiava rifugio ogni notte. Molti, fra gli amici francesi, si offrivano ad ospitarlo, ma lui rifiutava, era pericoloso e, finalmente, il 10 febbraio 1941 quella vita assurda, da randagio, finisce. Arrestato dalla polizia francese è rinchiuso nel carcere della Santè a Parigi dove troverà un fraterno amico, il sindacalista Bruno Buozzi.

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Intanto, il 14 giugno 1940, i tedeschi arrivano a Parigi e naturalmente amministrano ogni cosa, compreso il carcere parigino. Ma nulla sapevano di Di Vittorio o di Bruno Buozzi che richiesti dalle autorità italiane se ne liberarono senza fare troppe domande. Trasferiti entrambi in Germania vennero poi tradotti in Italia dove arrivarono verso la metà di luglio del 1941.

Al confine di Vipiteno, le strade dei due sindacalisti si divisero. Di Vittorio fu trasferito a Foggia e dopo a Lucera, alla sua vecchia ‘dimora’ con la finestra a sbarre. Ma già da Vipiteno, l’atmosfera, la gente, funzionari e carabinieri erano cambiati. Di Vittorio, che pure aveva perso 25 chili, venne riconosciuto da tutti e trattato con riguardo. A Lucera le guardie carcerarie gli fecero avere sigarette e giornali, mentre all’improvviso si materializzarono misteriosi parenti, tutti acquisiti quell’estate, che gli facevano avere pane, formaggi, salumi e frutta.

Il 24 settembre 1941, il solito Tribunale speciale lo condanna a cinque anni di confino e lo mandano all’isola di Ventotene dove trova diversi suoi compagni di sventura, fra sindacalisti e politici antifascisti, compreso Sandro Pertini. I tre anni di soggiorno a Ventotene, furono relativamente tranquilli, scanditi da interminabili discussioni e progetti sul futuro del Paese: era ormai notorio che le cose andavano male per il fascismo e che presto o tardi qualcosa sarebbe successo.

Infatti, nella notte fra il 24 e 25 luglio del 1943, il Gran Consiglio presieduto dal Duce, approva l’Ordine del Giorno di Dino Grandi che mette Mussolini nella condizione di rassegnare le dimissioni al Re e, mentre il Duce si accinge a lasciare la residenza di Vittorio Emanuele, è arrestato.

Il 26, con grandi manifestazioni di giubilo di tutta la Nazione, crolla la dittatura fascista. Circa un mese dopo, il nuovo governo del Generale Badoglio ordina la liberazione dei detenuti politici in tutto il Paese.

Di Vittorio, lasciata Ventotene, raggiunge Roma, ancora nelle mani dei tedeschi dove, insieme a Bruno Buozzi e Giovanni Gronchi, tenta di riorganizzare il sindacato. Ma vivere a Roma in clandestinità era ancora più pericoloso che a Parigi. Se malauguratamente finivi nelle mani dei tedeschi, che erano accerchiati e spaventati a morte – dopo il 3 settembre 1943 eravamo diventati ‘nemici’ – rischiavi di essere fucilato senza processo.

Infatti, Il 3 giugno 1944, in uno dei tanti agguati e schermaglie nelle strade di Roma fra soldati tedeschi e civili italiani, Bruno Buozzi resta ucciso. Buozzi, insieme Di Vittorio, Giovanni Roveda, Achille Grandi, Emilio Canevari e altri, stavano partecipando all’estensione di un’intesa di massima, nota come il ‘Patto di Roma’, per la costituzione di un sindacato unitario. Un sogno da sempre accarezzato dal sindacalista di Cerignola. Doveva essere la ‘casa dei lavoratori’, il sindacato degli occupati, disoccupati, operai e impiegati. Presidio della libertà del popolo per la partecipazione diretta dei lavoratori alla politica sindacale, alle decisioni di lotte e all’indipendenza dai partiti politici.

L’indipendenza dei sindacati – sosteneva Di Vittorio – deve essere così reale ed effettiva che un lavoratore, sia esso comunista, liberale, del partito d’azione, cattolico, protestante, ebreo, deve sentirsi nel sindacato come a casa sua.

Ma era pura utopia in un Paese di individualisti che pretendevano un partito e un sindacato a propria immagine dove, gli ‘interessi della collettività’ si identificavano con quelli dei partiti politici, se non personali, che fin da subito cominciò a subire condizionamenti partitici.

Il ‘Patto di Roma’, infatti, avrà vita breve.

Il 4 giugno 1944, le truppe alleate della 5° armata, cacciano i tedeschi dalla Capitale che in fuga verso il Nord seminano morte e distruzione come già avevano fatto in Puglia dopo la firma dell’Armistizio con gli angloamericani a Cassibile in Sicilia.

Il 9 giugno Di Vittorio, Achille Grandi e Emilio Canevari firmano il ‘patto’ di Unità Sindacale e tornano nella vecchia sede della CGIL dove Grandi, Oreste Lizzadri e Di Vittorio assumono l’incarico di co-segretari del nuovo sindacato unitario. Il solo fatto di aver nominato tre segretari in rappresentanza di tre partiti, DC,PSI,PCI era un’incongruenza che prima o poi si sarebbe rivelata.

Il 17 giugno Di Vittorio si concede una pausa. Scende in Puglia per la prima volta dopo anni di carceri ed esilio per sfuggire ai fascisti. La sua prima tappa è a Cerignola dove si ferma tre giorni… accolto all’ingresso della cittadina da una gran folla che lo scorta trionfante fino alla piazza della stazione dove pronuncia parole di saluto e di fede, vivendo con loro intimamente per tre giorni, interessandosi delle condizioni di vita dei lavoratori, dei loro bisogni e visitando spesso le loro umili case porgendo a tutti parole d’affetto e di conforto, scrive il corrispondente della Gazzetta di Cerignola.

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Come sono lontane quelle note del corrispondente fascista di Cerignola, ZIZI, che definiva i discorsi del sindacalista… tronfio frasario tribunizio.

Il 20 giugno Di Vittorio è a Bari, atteso alla stazione da una folla enorme, per partecipare al consiglio generale della Camera Provinciale del Lavoro di Bari che si terrà l’indomani al Dopolavoro Ferroviario.

Le Leghe della Provincia di Bari sono di particolare importanza e rappresentano un atto cospicuo della nostra vecchia tradizione sindacale il quale riprende il suo cammino per una sempre maggiore emancipazione del lavoro, ha detto Di Vittorio al pubblico nella gremita sala del Dopolavoro Ferroviario. Poi, riferendosi alla realizzata unità sindacale, alle lotte sostenute per raggiungerla ed ai programma che s’impone il sindacalismo proletario, per combattere il capitalismo fascista ha concluso ricordando che… nell’esame dei problemi non bisogna mai perdere di vista la realtà della situazione, la quale, per altro, sarà risolta soltanto con la distruzione totale dei residui fascisti e hitleriani. I lavoratori italiani dovranno procedere con la serietà necessaria, la sola che potrà elevarli nella stima degli altri popoli per ricostruire un’Italia emancipata, la vera Italia, l’Italia del lavoro.

Prima di tornare a Roma, rilascia un’intervista al giovane Oronzo Valentini dove ricorda la tragica fine del fraterno amico Bruno Buozzi pochi giorni prima aver redatto la bozza del ‘Patto di Roma’ che… determinerà un nuovo costume politico e morale nella classe lavoratrice. Tutto il passato con le sue lotte disgraziate e spesso sanguinose, sarà liquidato. I lavoratori militeranno nella stessa organizzazione per la stessa causa generale e si abitueranno alla tolleranza, al rispetto delle idee altrui e delle religioni.

La domenica del 29 aprile 1945, nel Palazzo Reale di Caserta, il maresciallo britannico Arold Alexander e il colonnello tedesco Heinrich Scheel, firmano il protocollo della resa incondizionata delle truppe germaniche in Italia. Nel nostro Paese la guerra è finita.

Il primo maggio Di Vittorio è a Roma, in Piazza del Popolo, per celebrare la prima Festa dei Lavoratori dell’Italia libera dal 1923. In quegli anni partecipa a diversi convegni sindacali internazionali con gli Alleati che nutrivano molte riserve nei nostri confronti ma la statura morale di Di Vittorio era tale, nonostante i suoi abiti dimessi, che riusciva ad incutere rispetto mentre con la sua voce ed i suoi argomenti seminava dignità per i lavoratori italiani.

Ormai lo conoscevano ovunque, in Francia più che altrove, suo figlio, Vindice, si era battuto con la resistenza nelle file dei maquis restando gravemente ferito. Così, al primo Congresso della Federazione Sindacale Mondiale, tenutosi a Parigi nel settembre del 1945, riesce a farsi eleggere vice presidente. Verso la metà dello stesso mese andrà in Unione Sovietica con una delegazione di sindacalisti per uno scambio di esperienze, visiterà il campo di Krasne-Gorsk, zeppo di migliaia di prigionieri italiani, parlando con loro, pronunciando parole di conforto e raccogliendo tutte le lettere che gli vennero consegnate per portarle in Italia.

Il 2 e il 3 giugno 1946 si vota per eleggere i componenti dell’Assemblea Costituente e per determinare, con un Referendum, le forme istituzionali del Paese per il futuro prossimo, bisogna scegliere fra Monarchia e Repubblica. Il responso del Referendum è confermato ufficialmente l’11 giugno. Gli italiani, comprese le donne che votarono per la prima volta, scelsero la Repubblica. Il 14 giugno si svolge a Roma, dinanzi al Viminale una grande manifestazione pubblica. Sul balcone… erano riunite tutte le personalità democratiche più eminenti tra le quali il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi e Di Vittorio… racconta la moglie Anita nel suo libro La mia vita con Di Vittorio… dopo aver applaudito a lungo i capi politici che si erano affacciati al balcone e scandito il nome di Di Vittorio, la folla chiamò De Gasperi per acclamarlo quale presidente del Consiglio della nuova Repubblica. Egli tardava ad affacciarsi. Peppino, allora, dopo aver risposto alle effusioni calorose della folla, rientrò nella sala e disse a De Gasperi ‘vieni, i romani vogliono acclamare il Presidente del Consiglio’. De Gasperi distese il volto in uno strano sorriso e disse di rimando: ‘Caro Di Vittorio, il governo effettivo sei tu’.

Due mesi dopo vola a Washington per presenziare alla riunione del Comitato esecutivo della Federazione Sindacale Mondiale. Eppure, nel Sindacato unitario di recente costituzione, si era già ai ferri corti.

Nonostante tutti i buoni propositi e l’incrollabile volontà di Di Vittorio di voler costruire un organismo sindacale unico che fosse espressione di tutti i lavoratori, al primo Congresso di Firenze, nel giugno del 1947, non si riuscirà a ridurre la conflittualità interna al sindacato a causa del sostegno che ogni corrente politica dette al partito di appartenenza, specie dopo l’estromissione del PCI dal governo De Gasperi del maggio precedente. Poi, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche del 18 aprile 1948, le divergenze diverranno incolmabili.

L’attentato a Togliatti
Eletto deputato al Parlamento nella circoscrizione Bari-Foggia, il 30 giugno Di Vittorio torna negli Stati Uniti, a San Francisco, per partecipare alla Conferenza Internazionale del Lavoro. Dalla California andrà poi a Toronto dove il mattino del 14 luglio è raggiunto dalla notizia dell’attentato a Palmiro Togliatti da parte di un giovane esaltato, Antonio Pallante, 25 anni studente della facoltà di giurisprudenza all’università di Catania: riteneva che Togliatti fosse un agente sovietico che intendeva sovvertire le istituzioni nazionali.

Dal Canada Di Vittorio prese il primo volo per l’Italia, ma quando arrivò a Roma, in tarda serata, era troppo tardi per rivedere la decisione della segreteria del Sindacato Unitario che aveva indetto due giorni di sciopero nazionale.

Pallante aveva esploso tre colpi di pistola a Togliatti poco prima di mezzogiorno del 14 luglio e, nonostante tre pallottole in corpo, il leader del PCI rimase cosciente tanto da parlare con De Gasperi, giunto in ospedale cinquanta minuti dopo. Sottoposto ad intervento chirurgico, alle 17.45 dello stesso giorno Togliatti è già fuori pericolo. Ma il Paese, con il passare delle ore, si carica di una grave tensione.

Ancora prima che il Comitato esecutivo della CGIL dichiari lo sciopero generale, migliaia di lavoratori avevano spontaneamente abbandonato i loro posti di lavoro, le fabbriche per riversarsi nelle piazze paralizzando i grandi centri industriali del Nord. Molti vogliono solo esprimere la loro solidarietà, gente semplice, che chiede notizie più precise, vuole sapere di più sulla salute del grande leader comunista.

Ma ci sono anche agitatori, mestatori politici, facinorosi e l’improvviso, enorme spiegamento delle forze dell’ordine, insieme all’immediatezza con cui spuntavano grandi manifesti della CGIL denuncianti… il governo di perseguire una politica che non garantisce la libera e pacifica convivenza di tutti i cittadini, fecero scaturire la scintilla che provocherà l’incendio nelle piazze dei maggiori centri urbani del Paese.

Il primo a raccomandare la calma, esortazione poi ripetuta a Mauro Scoccimarro, è proprio Togliatti… per carità – disse subito – siate calmi, non perdete la testa, non facciamo sciocchezze. Ma di fronte allo sciopero generale, quelle ‘spontanee’ manifestazioni di solidarietà a Togliatti, si trasformano in atti di protesta politica violenta che Giulio Pastore, segretario per la DC nella CGIL, denuncia e invita i democristiani ad astenersi dallo sciopero.

Il 15 luglio, lo sciopero degenera. Si parla ormai apertamente di provocazione insurrezionale. Vengono occupate fabbriche, devastate decine di sedi di partito e si registrano le prime vittime. In Puglia, l’incidente più grave avviene a Taranto tre ore dopo l’attentato. La città è imbandierata e festante per la Fiera del Mare, ma le notizie apprese dalla radio producono un moto spontaneo di popolo che al primo incontro con la forza pubblica si incattivisce. Lo scontro inizia con il lancio di sassi e finisce a pistolettate: un agente ed un operaio rimangono uccisi. Lo stesso giorno, a Gravina in Puglia, un gruppo di dimostranti si reca ai mulini Divella ed invita i crumiri a scioperare. Interviene il direttore che chiama i carabinieri e, dalle parole, si passa ai fatti: viene ucciso un operaio mentre un carabiniere… catturato e portato alla locale Camera del Lavoro – scrive la Gazzetta – viene percosso, derubato, denudato e, ridotto in fin di vita. Muore il 17 luglio.

Di Vittorio, nel frattempo, non può che prendere atto della decisione del Comitato esecutivo della CGIL ma già dal mattino del 15, esercita tutta la sua influenza e la sua capacità di mediazione, per calmare gli animi.

Il Consiglio dei Ministri chiede la cessazione immediata dello sciopero e Di Vittorio, che non può sconfessare tutti, taglia corto e dichiara che lo sciopero cesserà venerdì 16 luglio alle 12.

Poco a poco dunque torna la calma, l’ordine. L’ordine del ministro degli Interni Mario Scelba, che ha dovuto sorbirsi le critiche da tutte le forze politiche: l’intervento della polizia durante il 14 e 15 luglio, è stato eccessivo, è costato al Paese, per ammissione dello stesso Ministro, 16 vittime: 7 fra i civili, 9 fra agenti e carabinieri e 204 feriti più o meno gravi.

La paura è passata ed è passata anche grazie a Gino Bartali.

Questa nota di colore durante i tragici avvenimenti di luglio, si trova in tutti i libri di storia. Pare che fra uno scontro e l’altro nelle piazze e in Parlamento, tutti erano attenti a seguire il Tour de France e le imprese di Bartali. Perfino Togliatti, in ospedale, chiedeva continuamente notizie.

Qualche tempo dopo infatti, Giulio Andreotti racconterà, con il suo solito tono fra il serio e il faceto, che quel 15 luglio, mentre De Gasperi svolgeva la relazione parlamentare in un’atmosfera tesissima, improvvisamente entra nell’emiciclo di Montecitorio il parlamentare contadino Matteo Tonengo che tutto concitato annuncia a gran voce lo strepitoso successo di Bartali nella tappa Cannes/Briancon.

Fu come se qualcuno avesse scoperto una pentola a pressione. Dalla destra alla sinistra dell’emiciclo apparvero sorrisi e mormorii di approvazione: il Gino nazionale, in quella difficile tappa montuosa, aveva recuperato quasi 21 minuti sulla maglia gialla Luison Bobet e dal settimo posto, in classifica generale, Bartali era balzato al secondo posto. Il giorno dopo, 16 luglio, vince di nuovo, conquista la maglia gialla e la conserva fino al definitivo trionfo, il 25 luglio a Parigi.

Molti anni dopo si è giunti perfino ad ipotizzare che fu proprio l’impresa di Bartali a far abortire un probabile moto insurrezionale. Ma Pietro Secchia e Pietro Longo hanno sempre respinto recisamente, perfino l’ipotesi, che il PCI avesse la preparazione e l’intenzione di sovvertire le istituzioni.

Si rompe l’Unità sindacale (Leggi anche)

Quel giorno, quel 15 luglio 1948, si consuma l’Unità Sindacale. Il 5 agosto il Consiglio direttivo dichiara decaduti i dirigenti sindacali democristiani e socialisti della CGIL. Nasce la Libera-CGIL che il 30 aprile 1950 diventa CISL ed elegge segretario Giulio Pastore. Un mese prima, il 5 marzo, nasceva la UIL, l’Unione Sindacale del Lavoro.

La scissione sindacale ebbe come conseguenza l’aumento delle tensioni sociali e la radicalizzazione politica: agitazioni, scioperi, scontri e violenze divennero la quotidianità con una differenza, mentre al Nord gli operai lottavano per migliorare il salario, al Sud i braccianti lottavano per avere il salario, la disoccupazione ormai era a livelli insopportabili con l’aggiunta di retribuzioni inferiori del 30% rispetto perfino al centro Italia. Il Sud era rimasto agricolo ed emarginato, migliaia di ettari di terreno restavano incolti e abbandonati. I contadini tenteranno di occuparle, di metterle in coltivazione, ma vengono scacciati con la forza. Restava, ancora una volta come nel primo dopoguerra, una sola strada da percorrere, la via dell’emigrazione verso il Nord, qualunque Nord: fu una fuga vera e propria verso il mondo intero. Partono a centinaia di migliaia. A Corato, in provincia di Bari, nel solo 1949, emigrarono duemila persone fra braccianti agricoli e manovali dell’edilizia.

Al secondo Congresso della Federazione mondiale dei sindacati, svoltosi a Milano il 29 giugno 1949, Di Vittorio è eletto Presidente, ma l’organismo si è già ridimensionato per il ritiro delle Trade Unions britanniche e della Federazione sindacale americana. La nuova Federazione mondiale diventa così un organismo internazionale d’osservanza sovietica. Era cominciata la ‘guerra fredda’, mentre con l’uscita dei dissidenti cattolici e laici dalla CGIL, la segreteria veniva affidata a Giuseppe Di Vittorio che la conserverà fino alla sua scomparsa.

Ormai, nessuno vede più le cose come sono. La faziosità, la fede politica le ideologie hanno fatto mettere una benda sugli occhi anche a uomini saggi, moderati, pacifisti: l’America è diventata il simbolo del capitalismo e dello sfruttamento, la Russia il paradiso dei lavoratori e della giustizia sociale, sostiene Di Vittorio che il 16 maggio 1949 di ritorno dal suo secondo viaggio in Russia dice:… l’Unione Sovietica è il paradiso terrestre dei lavoratori. L’alto livello di vita raggiunto dai lavoratori, l’assistenza di cui essi godono, l’assenza totale di analfabetismo, prostituzione e di miseria nelle fabbriche sovietiche dimostrano che la Russia è tutta presa dalle opere di pace… la Russia è il paese più libero e avanzato del mondo.

Abbiamo troppa stima per Di Vittorio – scrive Luigi de Secly – per pensare ch’egli sia in malafede. Di Vittorio, purtroppo, vede solo ciò che vuole vedere. La sua mente è obnubilata da tutto ciò ch’è sovietico. L’on. Di Vittorio ha chiesto ai milioni di uomini deportati in Siberia se si sentono liberi?

Queste le polemiche, questo il modus vivendi, il clima che si respira in questi anni in un Paese in cui la gente sta attraversando giorni terribili: la popolazione è stremata dalla miseria, milioni di persone sono senza lavoro, senza casa, senza prospettive per il futuro mentre i conflitti, per la faziosità politica in difesa dell’una o dell’altra ideologia, dei sistemi di governo, continuano. Ora le manifestazioni d’intolleranza non sono più fra rossi e neri, con la Repubblica sono diventati fra rossi e bianchi, fra comunisti da una parte e democristiani, liberali, repubblicani laici e cattolici dall’altra.

Sembra quasi di riviere i primi anni del nefasto Ventennio, che pure non erano molto lontani, per la frequenza degli scontri e delle vittime dove al centro delle due fazioni in lotta, allora, s’inserivano le ‘squadracce’ degli agrari e dei fascisti, qui e ora, ci sono i ‘celerini’ di Mario Scelba che aveva individuato nelle Camere del Lavoro i centri organizzativi dei presunti ‘moti’ insurrezionali e proceduto a settemila arresti fra attivisti sindacali. Era vero? Non c’è riscontro. Ma fu una stagione terribile di lotte, eccidi e di violente repressioni.

Fin dal dopoguerra, s’era formato un’imponente movimento popolare di braccianti e contadini che nel Mezzogiorno costituivano oltre il 40% della forza lavoro e che non riuscivano più a sfamare le loro famiglie, i loro figli. Migliaia di uomini e donne dilaniati dalla povertà, nel tentativo di uscire dalla loro miseria e servaggio, cominciarono ad occupare grandi estensioni di terre incolte affrontando la repressione della polizia… si andava ad occupare le terre e le camionette dei carabinieri venivano, ci prelevavano e ci riportavano in paese non prima di aver lasciato alcuni di noi in galera.

La lotta politica e sindacale del dopoguerra
Spesso finiva male e qualcuno ci rimetteva la vita. Dall’autunno del 1949 fino all’inverno del 1950, il bilancio delle vittime per gli scontri con le forze dell’ordine sarà spaventoso: 62 morti, 3.126 feriti e oltre 92mila arrestati.

Il 31 ottobre 1949 a Melissa, in Sicilia, verranno usate perfino le bombe a mano per scacciare i contadini, uomini e donne, da un terreno incolto che stavano dissodando: 3 morti, due uomini e una donna; qualche mese prima a Ferrara, erano rimasti uccisi altri tre braccianti. E poi altri morti a Torremaggiore, Montescaglioso e Bernalda, fino ai sei morti di Modena il 9 gennaio del 1950: gli operai vengono uccisi dal fuoco della polizia di fronte ai cancelli delle fonderie Orsi.

Il 1° dicembre 1949, Di Vittorio commemora alla Camera i morti di Torremaggiore… chi sono questi due italiani caduti a Torremaggiore? Due braccianti agricoli, due sconosciuti. Nemmeno io li ho conosciuti, eppure io, onorevoli colleghi, credo di conoscerli a fondo. Quei due uomini appartengono alla mia classe, alla mia gente, sono uomini continuamente in preda alla miseria, all’incertezza del lavoro, all’incertezza della vita. All’incertezza di assicurare almeno un pezzo di pane secco a se stessi e alle loro creature, sono uomini che si perdono in questa massa di affamati, di disperati che da secoli lottano per conquistarsi il diritto elementare a vivere onestamente. Sono in preda all’ignoranza, alla disperazione. Ma sono nostri fratelli, onorevoli colleghi, e si risponde massacrandoli.

Il due dicembre, egli stesso scende a Torremaggiore per seguire i feretri fino al cimitero.

L’ultimo, e forse il più fondamentale documento in tema di lavoro e occupazione, redatto dalla segreteria della CGIL è annunciato da Di Vittorio al Congresso Nazionale della CGIL di Genova il 4 ottobre 1949. Era il ‘Piano del Lavoro’, un elaborato prodotto dall’Ufficio Studi, allora diretto da Vittorio Foa e dal giovane Bruno Trentin, che aveva impegnato tecnici, accademici e sindacalisti per diversi mesi. Un lavoro capillare che verrà esposto in modo analitico nel febbraio del 1950 alla Conferenza Economica Nazionale.

Il documento poggiava su tre settori fondamentali: nazionalizzazione delle aziende elettriche monopolistiche; costituzione di un ente nazionale per la bonifica, irrigazione e trasformazione fondiaria e la costituzione di un ente nazionale dell’edilizia popolare per far fronte, nell’immediato, all’estrema carenza di abitazioni.

Il ‘Piano’, inoltre, proponeva un vasto programma di opere pubbliche… abbiamo circa due milioni di disoccupati – dirà Di Vittorio alla platea – almeno un altro milione di lavoratori ad orario ridotto e più di un milione di braccianti che lavorano solo saltuariamente… prevedo che il Piano si possa realizzare in tre, quattro anni e dare lavoro a 600, 700 mila disoccupati. Noi siamo disponibili a fare la nostra parte… dichiaro, qui, che i lavoratori italiani sono pronti a dare il proprio contributo alla realizzazione di questo Piano e che la CGIL è pronta ad appoggiare un governo che dia le dovute garanzie per la sua attuazione.

Il ‘Piano’ prevedeva anche le coperture finanziarie: alle classi abbienti, ai grandi gruppi monopolistici e alle grandi Società per Azioni si dovranno chiedere contributi fortemente progressivi; sarà indispensabile un diverso orientamento verso gli investimenti produttivi da parte del governo e si dovranno cercare prestiti esteri senza minare l’indipendenza economica e politica della Nazione.

Troppo tardi: l’indipendenza politica del Paese era stata compromessa con l’accettazione del Piano Marshall e, con le elezioni politiche del 1948, gli italiani avevano già scelto da che parte stare.

Eppure, c’era nella DC chi aveva visto le potenzialità di quel ‘Piano’. Uno fra tutti Amintore Fanfani che divenuto Ministro dell’Agricoltura nel VII governo De Gasperi, a partire dalla fine del 1951 dette corpo alla riforma agricola andando in giro per l’Italia, personalmente, a distribuire migliaia di ettari di terre incolte e demaniali.

Comunque: le Società per Azioni, i ricchi, i grandi gruppi monopolistici risposero negativamente; dal governo e dai politici per il solo fatto che il ‘Piano’, così ben articolato venisse dalla CGIL, ormai definita ‘cinghia di trasmissione del PCI’, si ottenne ‘attenzione’, ma niente di più. Dopotutto, gli obiettivi del ‘Piano’ non erano molto distanti da quelli previsti e formulati da e con i dollari del Piano Marshall. Non solo, ma per quanto la CGIL si dichiarasse disponibile alla collaborazione con il governo, ormai non era più possibile instaurare un dialogo costruttivo: era iniziata la ‘guerra fredda’ e gli americani facevano carte false per tenere la sinistra fuori da tutte le leve del potere.

Di Vittorio allora s’inventò lo ‘sciopero alla rovescia’: migliaia di contadini tornarono ad occupare le terre, a dissodarle, a fare lavori utili che i latifondisti rifiutavano di effettuare, ma venivano scacciati. E alle lotte per avere un pezzo di terra abbandonato, si aggiunsero le battaglie per il salario minimo a tutti, per gli aumenti salariati, sia pure differenziati, per il caro vita, per il conglobamento che metteva ordine nell’istituto delle retribuzioni.

Con il conglobamento si voleva normalizzare le buste-paga inserendo una serie di altre voci frutto di accordi e aumenti parziali, oltre all’assegno di carovita, e si chiedeva un aumento complessivo delle retribuzioni in un riassetto zonale preesistente di novanta diverse situazioni e che s’intendeva ridurre ad un numero di zone più ristrette.

La trattativa, fra CGIL, CISL e UIL da una parte e la Confindustria dall’altra durò tre anni. Iniziata nel 1952 venne firmata il 16 giugno del 1954 dai rappresentanti della CISL e della UIL, ma non da Di Vittorio che polemico con la Confindustria disse che non era difficile vendere a basso prezzo. Ancora una volta, durante la trattativa, emerse in modo drammatico il divario fra il Nord e il Sud.

Intanto, la CISL in particolare, aveva cominciato a fare una nuova politica all’interno delle aziende. Aveva cioè delegato, alle rappresentanze sindacali interne, maggior potere e autonomia sia per rispondere tempestivamente alla politica padronale, che tentava in ogni modo di creare divisioni, sia per poter affrontare con maggiore elasticità le richieste di ‘premi’ aziendali in ordine alla produttività, specie nei grandi complessi industriali come la FIAT.

Di Vittorio non condivise quella impostazione e alle elezioni aziendali della FIAT, il 29 marzo 1955, per eleggere i delegati sindacali nelle Commissioni Interne, la CGIL, per la prima volta non ottenne la maggioranza assoluta, furono addirittura sorpassati dalla CISL. Un dramma per la CGIL e per Di Vittorio che nel Comitato direttivo dell’aprile 1955 a Roma, svolge una memorabile autocritica ammettendo lealmente e con molta chiarezza che… abbiamo sbagliato, non abbiamo saputo cogliere le particolarità della situazione, non abbiamo saputo formulare le rivendicazioni più adeguate, non abbiamo saputo scoprire le rivendicazioni più sentite per condurre, in base ad esse, lotte concrete, azienda per azienda, sia pur inquadrandole in una linea di carattere generale, che legasse il tutto: ci siamo illusi di racchiudere la realtà entro i nostri schemi, ma la realtà è stata più forte di noi e il nostro schema è saltato in aria.

Quando morì Di Vittorio – ricorda Savina Barbarossa, bracciante di Cerignola, – due giorni andai a Roma. Sì, due giorni. Quanti pullman partirono, donne, bambini, tutti da Di Vittorio. Era come se tutta Cerignola si fosse trasferita a Roma e lui era lì, scoperto dalla vita in su, come se fosse che stava a dormire, con la testa a un lato, con la cravatta rossa.

Mi uccisi la vita mia, sempre a piangere. Mi dicevano: E che ti è? Mi è compagno, mi è compagno! E poi facemmo il corteo. Non finiva mai. Qua la bara e qua io. Andatevene, io devo andare appresso alla bara. Mi misi vicino alla carrozza e facemmo più di tre chilometri di strada. Tutto il percorso era pieno di fiori, la carrozza passava da sopra i fiori. C’erano ghirlande grosse quanto una casa. La carrozza camminava e quelli menavano fiori e Di Vittorio camminava sopra. All’estremo saluto i compagni mi dicevano: tu sei già passata una volta… adesso devo passare di nuovo. Non mi dite niente! Io devo passare. Lo devo vedere.

Nicola Mascellaro

Tratto da “Bari Dal Borgo alla Città – I protagonisti”, Di Marsico Libri, luglio 2018 pagg.119-160

La “LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO”  del 3 novembre 2020

«Nel ricordo di Di Vittorio continua la lotta per il lavoro e per i valori antifascisti»

di PINO GESMUNDO

Sessantatré anni fa moriva a Lecco Giuseppe Di Vittorio, figura fondamentale nella storia del sindacalismo moderno, antifascista e leader della Cgil. Per la nostra organizzazione ricordare l’azione da bracciante autodidatta di Cerignola che arrivò a guidare la Federazione Sindacale Mondiale, non è mai semplice atto rievocativo ma sguardo sempre calato nel presente, rappresenta l’occasione per una riflessione collettiva di attualizzazione del suo pensiero, legato certo al tempo che ha vissuto ma anche capace di grandi intuizioni ancora valide, circa orizzonti culturali e valoriali. Significa in buona sostanza discutere soprattutto della condizione del lavoro, in particolare qui al Sud, e del ruolo del sindacato per il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e dei cittadini tutti.

Nel bel mezzo di una crisi economica e sociale come quella che stiamo vivendo a causa della pandemia da Covid, non possiamo che richiamare le parole di Peppino sulla centralità del lavoro, la priorità di tenere unità la società, di anteporre l’interesse pubblico e delle persone all’interesse privato e ai profitti.

Quel di cui avremmo fatto a meno a distanza di 75 anni dalla Liberazione è essere costretti a ricordare anche il Di Vittorio antifascista, di fronte a un rialzare la testa di aggregati e movimenti che pubblicamente si richiamano alle idee antidemocratiche e razziste della dittatura. Alle infiltrazioni violente in numerose piazze italiane nei giorni delle proteste da parte di chi sta pagando in modo più drammatico la crisi economica, si è sommato solo nella giornata di ieri l’ignobile gesto di sporcare la nostra sede di Borgo Mezzanone con svastiche e scritte inneggiante al duce. Una scelta non casuale, quella di colpire una Camera del Lavoro aperta in un territorio di periferia, un simbolo di integrazione lì dove insiste il più grande insediamento spontaneo di immigrati, al servizio dei lavoratori stranieri come dei cittadini residenti nella borgata.

Di Vittorio è tra gli esponenti politici e sindacali che subì violenze e persecuzioni dal fascismo ben prima della sua piena affermazione, quando fu costretto. a difendersi dalle squadracce che nel 1921 già infestavano il nord della Puglia, che agivano al servizio degli agrari. Andrebbe studiata di più e meglio questa storia, (soprattutto dai più giovani che si lasciano affascinare da ideologie di morte e violenza. Anche per questa ragione non possiamo esimerci dal continuare e celebrare il nostro Peppino. Né possiamo farci intimorire da questi atti ignobili: la Cgil e il mondo del lavoro sono stati baluardo di democrazia durante il fascismo e gli anni dello stragismo e del terrorismo. Non saranno quattro vigliacchi che agiscono con il favore della notte a fermarci dalla nostra azione a favore degli ultimi, per unire le lotte di chi lavora, a prescindere da qualunque colore della pelle e provenienze, perché i diritti siano uguali per tutti. Per una società più giusta e solidale.

Segretario Generale Cgil Puglia

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