SALVEMINI GAETANO

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SALVEMINI GAETANO

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Molfetta, 8 settembre 1873 – Sorrento, 6 settembre 1957

Gaetano Salvemini nacque a Molfetta l’8 settembre 1873, figlio di Ilarione Salvemini, piccolo proprietario terriero non sempre in grado di tener testa alla gestione dei suoi poderi, ed Emanuela Turtur. Il rapporto col padre, a cui il maturo Salvemini non lesinò critiche per la gestione della famiglia e degli affari, fu abbastanza tormentato. Al contrario, verso sua madre Emanuela, Gaetano provò sempre profondo affetto e sincera considerazione, poiché donna forte e capace di tener testa alle temperie a cui veniva esposta la famiglia per responsabilità paterna. Salvemini era il secondo di ben dodici figli: la sua prima istruzione venne affidata alla cura di uno zio prete, fratello del padre, Mauro Giuseppe Salvemini. Il precettore non mancò nel tentativo di infondere nel giovane Salvemini idee filoclericali, contrastanti l’ideale unitario ormai diffuso nel Paese. Ma fu un tentativo abbastanza vano; di fatto, in precedenza, lo stesso Ilarione Salvemini aveva vissuto con entusiasmo le gesta garibaldine e aveva supportato la causa unitaria.

Lo zio chierico non istruì Salvemini soltanto ai suoi personalissimi ideali: ebbe gran merito nell’apprendimento giovanile del latino e di tutte le conoscenze utili alla formazione della cultura di base secondo i canoni dell’epoca. Dopo l’educazione casalinga, Salvemini optò per l’ingresso in Seminario, a Molfetta, dove frequentò il ginnasio e il liceo. Paradossalmente, è tra le mura seminariali che il giovane maturò i primi scetticismi verso le convinzioni religiose.  A diciassette anni, a inizio anni Novanta dell’Ottocento, Salvemini decise di lasciare Molfetta per specializzarsi negli studi universitari.

La grande passione per la Storia lo portò a Firenze, dove, nel giro di cinque anni, nel 1896, si laureò in Lettere con una tesi in Storia medievale sotto la guida del celebre storico Pasquale Villari, che, qualche anno prima, era stato Ministro dell’Istruzione. La stima nei confronti di Salvemini, da parte di Villari, fu molta, tanto da reputare il giovane storico uno dei migliori studenti di tutto l’istituto. Dal maestro, apprese il senso della storia come banco di prova della verità, e il valore nel tempo dell’impegno civile. Tre anni dopo la laurea, a soli ventisei anni, pubblicò il suo primo scritto – che ampliava le ricerche precedenti – su Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295. Con il testo del 1899 donava alla storiografia medievale un lavoro che si può reputare un piccolo classico.

Firenze non fu soltanto luogo di formazione professionale. Nella città bagnata dall’Arno Salvemini incontrò la politica e il marxismo. Si legò a un gruppo di giovani socialisti. Dopo gli studi e con una laurea in tasca, il giovane studioso si dedicò all’insegnamento liceale. Ciò causò diversi spostamenti in lungo e in largo per la Penisola: Palermo nel 1895, dove fu docente di Latino presso una scuola media; nel 1896 insegnò Storia e Geografia al Liceo “Torricelli” di Faenza per due anni; dal 1898, poi, migrò in Lombardia, a Lodi, al il Liceo Classico “Pietro Verri”. Un ultimo anno fu trascorso a Firenze, nel 1900, per la nomina presso il Liceo “Galilei”. Il lavoro storico sui magnati e popolani fiorentini del XIII secolo, insieme ad un’altra ricerca del 1896 (che riprendeva la sua tesi di laurea), La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, permisero, infine, il salto di qualità: nel 1901, a soli ventotto anni, Salvemini fu chiamato a Messina per insegnare Storia moderna nell’Università locale. Nella città siciliana si trasferì con sua moglie Maria Minervini, sposata nel 1897, e i cinque figli. Ma una tragedia colpì l’intera famiglia nel 1908: il terribile terremoto di Messina, di cui fu l’unico sopravvissuto. L’avvenimento segnò in maniera profonda il giovane storico che, a soli trentacinque anni, era costretto a dire addio ai suoi affetti più cari.

La forte tempra di Salvemini gli permise di non perdersi d’animo e proseguire, comunque, nella sua carriera e nell’adesione, del 1897, al Partito Socialista. Dopo i tragici anni messinesi, si trasferì a Pisa nel 1910, dove fu titolare della cattedra di Storia moderna. Il ritorno a Firenze, che ormai era una seconda patria dopo Molfetta, avvenne nel 1916, quando fu chiamato in Università. Il 1916, a otto anni dalla tragedia, fu anche l’anno in cui convolò a seconde nozze con la scrittrice Fernande Dauriac, ex moglie dello studioso Julien Luchaire.

Accanto a queste vicende, proseguiva il percorso politico all’interno del PSI, attraverso cui si faceva promotore del suffragio universale e rivendicava la lotta comune tra gli operai settentrionali e i braccianti meridionali. È in questi anni che si intensificò la riflessione attorno alla questione Meridionale. Salvemini profuse grande impegno, poi, nella moralizzazione dei costumi politici del Belpase: è celebre la polemica scagliata contro il Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti, che rinominò, con un saggio politico del 1910, Il ministro della mala vita. Salvemini, oltre che tramite scritti d’impatto, fece valere le sue idee, negli anni, tramite la pubblicistica: collaborò a lungo con quotidiani come l’Avanti e riviste quali Critica sociale, La Voce e il settimanale l’Unità, che fondò personalmente nel 1911.

Giunse intanto la Grande Guerra, a cui Salvemini partecipò come volontario. Si schierava tra gli interventisti democratici, convinto che la via militare potesse al contempo placare l’imperialismo delle nazioni dell’Europa centrale e garantire la definitiva unità del Paese. Deluso dai risultati del Congresso di Versailles, scelse di candidarsi tra gli ex combattenti nel 1919 e venne eletto deputato. Dai banchi parlamentari entrò in polemica con l’ex socialista Benito Mussolini e col gruppo fascista. Malgrado il trionfo del fascismo e l’arrivo al potere nel 1922, Salvemini rimase tenace voce di contrapposizione. È nel 1923 che si guadagnò l’odio della parte fascista con una conferenza tenuta a Londra, dopo la quale gli fu augurato persino di non tornare in Italia. Ma Salvemini tornò, e continuò a tenere le sue lezioni fiorentine, noncurante delle minacce. Nel 1924, con l’assassinio di Giacomo Matteotti, cambiò partito, per aderire al PSU di Filippo Turati, a cui era appartenuto il deputato ucciso. Libertà e democrazia continuavano a essere perseguiti come unici ideali possibili, anche attraverso il fitto rapporto con altri intellettuali politicamente coinvolti come Carlo Roselli ed Ernesto Rossi. Da accademico qual era, aderì senza timore al Manifesto degli intellettuali antifascisti proposto da Benedetto Croce nel 1925. Qualche tempo dopo, fu imprigionato.

La prigionia non fu lunga, ma rese necessaria una riflessione attorno al pericolo costante di una vita contro il regime nell’Italia dell’epoca. È per questo che nell’agosto del 1925 Salvemini di autoesilio in Francia, abbandonando l’attività universitaria fiorentina. Parigi divenne meta di altri rifugiati, come i fratelli Roselli, assieme ai quali nel 1929 fondò il movimento Giustizia e Libertà.

Fu, per certi versi, un primo nucleo di resistenza al regime, che propagandava in patria manifesti antifascisti e scritti “proibiti”. Il fascismo, per lo storico molfettese, divenne non solo motivo di contrasto ideologico, ma anche “materia” di studio. Fu per questo che nel 1934 Salvemini venne chiamato in USA per sede alla cattedra di Storia della Civiltà Italiana, istituita ad Harvard appositamente per lui. Nel ’34, tra l’altro, dagli Stati Uniti diede alle stampe il suo scritto Origini del fascismo in Italia, di cui aveva iniziato a divulgare le idee con le conferenze in giro per l’Europa a fine anni Venti. Ricevuta nel 1940 la cittadinanza (poi rinnegata in seguito), il molfettese rimase negli Stati Uniti per più di vent’anni, e visse a distanza l’avvicendarsi bellico che massacrava tutta l’Europa. Seppur distante fisicamente, non fu mai lontano idealmente, e dall’America proseguì la sua opera di critica al fascismo e di analisi storica dell’Italia mussoliniana.

A guerra conclusa, nel 1949, grazie alla battaglia politica di alcuni amici, tra cui Pietro Calamandrei e Ernesto Rossi, Salvemini si vide restituita la cattedra fiorentina. Tornò in Italia, e insegno all’Università di Firenze per altri due anni, dove chiuse la sua carriera ormai settantenne. Divenuto scettico verso ogni forma di regime, e legato a una visione laica e democratica del Paese, continuò a far sentire la sua voce tramite interventi pubblici. Fu critico verso i governi democristiani e nei confronti dei cattivi costumi che continuavano a perseguitare l’Italia anche dopo la fase bellica. Il 1955 fu un anno importante per la sua carriera intellettuale: L’Accademia dei Lincei lo insignì del premio internazionale Feltrinelli per la Storia, e l’Università di Oxford gli conferì una laurea honoris causa. Gli ultimi anni li visse a Sorrento – il cui giovevole clima contribuiva a dare forza alla salute – dove il 6 settembre 1957 si spense. Ma ormai fiorentino d’adozione, fu sepolto nel prato d’onore del Cimitero di Trespiano. Il segno del suo passaggio dalla costiera campana è ricordato dall’intitolazione in suo nome del liceo scientifico. Anche a Molfetta, che diede allo storico orgogliosa i natali, è presente un Istituto tecnico in suo nome. L’eredità di Salvemini fu poi di determinante impatto sulla storiografia italiana e mondiale tutta, e ancora oggi molti suoi scritti restano un punto di riferimento per studiose e studiosi.

ACCADDE OGGI

Ciclo di conferenze nel nome di Salvemini

L’iniziativa della casa editrice Laterza

26 Ottobre 2022

Annabella De Robertis

È il 26 ottobre 1958. Mentre i riflettori della stampa italiana, e non solo, sono puntati sul conclave insediatosi il giorno prima in Vaticano per l’elezione del nuovo pontefice, in seguito alla morte di Pio XII, nelle pagine interne de «La Gazzetta del Mezzogiorno» si ricorda lo storico Gaetano Salvemini.

Poco più di un anno dopo la sua scomparsa, avvenuta il 6 settembre 1957, a Molfetta si è tenuta, infatti, la prima lezione di un ciclo di conferenze organizzate dalla Casa editrice Laterza per onorare la memoria dell’illustre studioso. Il ricordo di Salvemini è affidato al prof. Ernesto Sestan, suo allievo all’Università di Firenze, alla presenza di un folto gruppo di professionisti, studiosi e amici, tra cui i professori Sansone, Rizzo e De Castris dell’Università di Bari, il socialista Beniamino Finocchiaro e il poeta e meridionalista Vittore Fiore.

Nato a Molfetta nel 1873, Salvemini si formò all’Università di Firenze grazie ad una borsa di studio: centrale nella sua formazione fu l’incontro con Pasquale Villari. Iscritto al Psi, fin da subito dedicò le sue ricerche alla questione meridionale, indagandola a fondo a partire proprio dal contesto molfettese. Polemico nei confronti del giolittismo e, in seguito, strenuo oppositore del fascismo, fu costretto nei primi anni di regime a espatriare in Francia, dove fu tra i fondatori del movimento clandestino di Giustizia e Libertà, e poi negli Stati Uniti. Tornò in Italia soltanto nel 1948. Queste le parole di Sestan riportate sulla «Gazzetta»: «Nonostante Gaetano Salvemini fosse andato via da Molfetta, appena diciassettenne, pur tuttavia le esperienze che egli aveva tratto sino ad allora dalla vita sociale ed economica del suo paese, non potettero non imprimere un’orma profonda sui suoi sentimenti e sul suo pensiero.

Anche se l’ambiente, o quella parte di esso poté conoscere, non rappresenta una conoscenza profonda della vita della Puglia, braccianti e pescatori rimasero indelebilmente fissi nella sua mente, sin da portarlo a farsi propugnatore di una riparatrice giustizia sociale. Serio e ponderato, come Salvemini è sempre stato, egli non disse mai quanto del suo socialismo si alimentasse delle esperienze della sua terra, ma è evidente il riferimento a questo, allorché egli in uno dei suoi scritti stigmatizzò i malanni dell’Italia del suo tempo».

«Qui nacque con cuor di ghiaccio e fede di Mazzini, maestro di vita morale e di dottrina per la redenzione del Mezzogiorno e le libertà democratiche», recita la lapide posta sulla facciata della casa natale di Salvemini, di cui la «Gazzetta» pubblica una foto, visibile ancora oggi a Molfetta in via Cifariello.

Gazzetta del Mezzogiorno, 26 ottobre 2022

Link:

https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/la-macchina-del-tempo/1364057/ciclo-di-conferenze-nel-nome-di-salvemini.html

“Mio figlio è un collaborazionista”

Nel libro della storica Fantarella la dolorosa storia della famiglia di Gaetano Salvemini, antifascista convinto il cui figlio aderirà al governo del maresciallo Pétain

SABATINO TRUPPI

03 Settembre 2018

Su Gaetano Salvemini è stato scritto molto, forse tutto. Nel corso dei decenni ogni anfratto, anche quello più remoto, del suo variegato pensiero è stato setacciato in lungo e in largo da studiosi attenti, scrupolosi e di gran nome. Eppure, è sempre restato in ombra un capitolo “apparentemente” marginale della sua lunga e tortuosa esistenza, quello relativo alle seconde, travagliate, nozze con Fernande Dauriac. Ora questa lacuna è stata meritoriamente colmata da Filomena Fantarella, una giovane ricercatrice campana oggi in forza (a proposito di cervelli in fuga) alla Brown University di Providence (Ivy League), che, dopo anni di meticolose ricerche negli archivi di mezzo mondo, ha riportato alla luce questo dramma familiare, dando alle stampe per i tipi della Donzelli un saggio che senza ombra di dubbio merita di entrare nel pantheon degli studi salveminiani (Un Figlio per nemico, pp. 165, € 25,00).

Cominciamo dal principio. La vicenda ricostruita dalla nostra giovane studiosa ha come prologo la Messina devastata dal terremoto del 1908; Salvemini (che allora insegnava lì) in pochi attimi fu privato dell’intera famiglia, la moglie, la sorella e i suoi cinque figli: tutti inghiottiti dalla forza devastante di quelle violentissime scosse. Fu un dolore terribile per lui. Tanti amici accorsero pr offrirgli il conforto di un affetto partecipe e operoso. Tra questi Fernande Dauriac e suo marito, lo storiografo francese Julien Luchaire; e Fernande – forte della reciproca compenetrazione ideale, della comunanza di progetti (pensiamo, ad esempio, al comune impegno in favore del suffragio universale) – non impiegò molto a diventare confidente dell’insigne meridionalista.

Col tempo, quella presenza che discretamente s’insinuava nella sua vita dette a Salvemini, complice anche la sbarazzina presenza dei figli di primo letto della donna (Jean e Marguerite), l’illusione di poter contare nuovamente sul calore d’un nido familiare. Fu così che all’alba del primo conflitto mondiale, quando Fernande divorziò, i due decisero di formare insieme una nuova famiglia e di stabilirsi a Firenze. La loro casa divenne presto il cenacolo dove alcuni dei più colti e illuminati fiorentini dell’epoca (Guglielmo Ferrero, Gina Lombroso, Amalia Pincherle, mamma di Carlo e Nello Rosselli) discutevano di cultura, di storia, di economia e soprattutto di politica. Fu in questo effervescente contesto intellettuale, spiega Fantarella, che Salvemini si affezionò a Jean (detto affettuosamente Giovannino), un adolescente col quale trascorreva lunghi pomeriggi a discutere animatamente della drammatica situazione europea. Una storia apparentemente dal lieto fine… Se non fosse che sul futuro di questo ritrovato idillio affettivo si addensava minacciosa la scure del fascio littorio, che, come un terremoto, (un secondo terremoto!) avrebbe travolto di nuovo quella serenità familiare che Salvemini tanto faticosamente aveva ritrovato.

Salvemini, com’è noto, quasi fin da subito fu un antifascista implacabile. Questa scelta lo costrinse prima agli arresti, poi alle dimissioni da professore all’Università di Firenze, infine a fuoriuscire dal suolo natio per continuare quella resistenza che era ormai impossibile in Italia, dove ogni alito di libertà, ogni voce di dissenso veniva repressa con brutale spietatezza dalla violenza delle camicie nere. Ma non fu la distanza; non furono le decennali peregrinazioni tra la Francia, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti a spezzare il suo secondo vincolo familiare. Furono le scelte politiche di Jean.

Cos’era accaduto? Cos’era accaduto a quel ragazzo che abbiamo visto crescere, muovere i primi passi nella vita pubblica insieme con alcuni di coloro (i fratelli Rosselli, Gobetti, ecc.) che poi sarebbero diventati l’emblema della resistenza alla dittatura? Cresciuto, si era trasferito in Francia dove, con alterne fortune, si era dato animo e corpo al giornalismo.

Ma era cambiato. Quel giovane animato da un pacifismo appassionato, che era stato educato ai valori del più squisito riformismo socialista, era diventato un ambizioso, disposto a tutto pur di ottenere potere e denaro. Fu così che all’indomani dell’occupazione tedesca della Francia, decise di giurare fedeltà al nazismo e al governo collaborazionista del maresciallo Pétain. Lo fece più per opportunismo, per risentimento politico, che per convinzione ideale. Tuttavia, ciò non gli impedì di tramutarsi nello stentoreo megafono della propaganda di regime, al punto da essere additato come «le plus hitlérien des journalistes francais».

Queste posizioni, inutile dirlo, tracciarono un solco incolmabile tra lui e Salvemini. Accadde così che l’inflessibile resistenza al fascismo, quella lotta coerente, risoluta che già in passato aveva portato Salvemini a troncare molte delle amicizie che si erano macchiante anche solo d’indulgenza nei confronti di Mussolini (pensiamo alla rottura del rapporto con Prezzolini, il cui atteggiamento di distaccata neutralità fu interpretato da Salvemini come una «malcelata complicità con la dittatura»), quella stessa «linea durissima con chiunque gli sembrava tradire la causa della libertà», lo portava ora a prendere le distanze da Giovannino : «per me – scrisse Salvemini – è come se non fosse mai esistito».

A guerra terminata, Jean fu catturato e condannato a morte per alto tradimento. Furono pena e dolore per Salvemini. Ma questi sentimenti non incrinano in alcun modo la sua dirittura morale. Seppur implorato dalla moglie Fernande d’intercedere con gli americani per salvare la vita del figlio, Salvemini non fece nulla. «I traditori – disse con gli occhi velati dalle lacrime – vanno puniti». Così fu. Jean Luchaire venne fucilato il 22 Febbraio 1946. E con la sua morte anche la storia tra Salvemini e Fernande giunse al capolinea.

Solo un «eroe» (proprio così lo definisce Massimo L. Salvadori nella prefazione che impreziosisce il volume) solo un eroe, dicevamo, poteva comportarsi in questo modo. Perché solo un eroe temprato e coraggioso è capace di immolare tutto, perfino i suoi affetti più cari, sull’altare di una cristallina fedeltà ideale.

E forse anche per questo, al termine della lettura, cade addosso al lettore come un’ombra di malinconia: è così grande la distanza tra le vicende rievocate in questo saggio e la pochezza, la debordante pochezza, che circonda oggi la nostra vita pubblica.

La Stampa, 3 settembre 2018

Link:

https://www.lastampa.it/cultura/2018/09/03/news/mio-figlio-e-un-collaborazionista-1.34042610/

Le lezioni americane di Gaetano Salvemini

NEL 1925 Gaetano Salvemini espatriò dall’Italia, dove sarebbe tornato solo nel 1949. Dopo aver fatto la spola tra Londra, Parigi e gli Stati Uniti, approdò in questi ultimi nel 1934. Quando lasciò l’Italia, era da tempo emerso quale uno dei maggiori intellettuali italiani: non solo grande storico, anche personalità politica di primo piano. Mentre Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe erano diventati apologeti del regime fascista, Benedetto Croce veniva lasciato sostanzialmente tranquillo e Luigi Einaudi continuava a fare il professore, Salvemini, privato della cittadinanza italiana, colpito dalla confisca dei propri beni, votatosi alla lotta senza quartiere contro la dittatura, nel suo esilio divenne il Mazzini del XX secolo.

Con una coraggiosa iniziativa, l’editore Donzelli ha pubblicato le sue Lettere americane 1927-1-949 (a cura di Renato Camurri e con una presentazione di Paolo Marzotto). Camurri inquadra bene il contesto in cui Salvemini visse e operò in quegli anni, che furono per lui felici allorché poté trovare all’università di Harvard una cattedra e una splendida biblioteca che gli consentì di stendere le opere sul fascismo diventate classici della storiografia.

Salvemini era un infaticabile scrittore di lettere, dirette a una quantità di personaggi, tra i quali mi limito a menzionare Giorgio La Piana, Enzo Tagliacozzo, Max Ascoli, Lionello Venturi, Alberto Tarchiani, Giuseppe Antonio Borgese, Carlo Sforza, Leo Valiani, Niccolò Tucci. Tre gli aspetti dominanti: la calda ma anche severa umanità della persona, l’infaticabile azione per promuovere la lotta contro il fascismo, l’incessante vis polemica diretta contro le forze interne e internazionali complici del regime e, caduto questo, contro i comunisti, i clerico-moderati e le destre monarchiche e neofasciste. Si preoccupava di procurare aiuti materiali agli antifascisti esuli. Valga ricordare il caso di Emilio Lussu, che stimava enormemente anche come scrittore. Lo addolorò molto e criticò senza mezzi termini la svolta in senso socialista non esente da filocomunismo di “Giustizia e Libertà”.

Nelle faccende italiane, era desolato dalla presa che il fascismo aveva sugli italo-americani caduti nella trappola che Mussolini avesse riportato l’Italia all’onore del mondo; dopo il luglio 1943, diresse i suoi strali verso il re-Badoglio- Croce-Sforza-Togliatti e compagnia che, manovrati soprattutto da Churchill e da Stalin, preparavano per il nostro paese un dopoguerra che smentiva le sue speranze.

In molti casi mostrò di avere la vista acuta, come quando negli anni ’30 ammonì coloro che si illudevano che il regime fosse prossimo a cadere da un momento all’altro; come quando comprese fin dal 1937 che Franco avrebbe vinto in Spagna; come quando dopo il 1945 previde che in Italia la vittoria politica sarebbe andata non ai socialcomunisti ma ai democristiani (soluzione da lui, laico inveterato, auspicata obtorto collo). In altri casi, prese abbagli clamorosi: valga per tutti ciò che scrisse a La Piana il 7 gennaio 1932: «Anche se Hitler va al potere in Germania, che cosa vuoi che faccia, se non far baccano?».

 

IL LIBRO

Gaetano Salvemini,

Lettere americane. 1927-1949 (Donzelli, pagg. LIII-592, euro 35)

 

La Repubblica, 25 aprile 2014

Link:

https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/04/25/le-lezioni-americane-di-gaetano-salvemini50.html

Fondazione Di Vagno, tornano le Lezioni Salvemini con Chiantera, Ricciardi e Quagliarello

DOVE Aula “Vincenzo Starace Piazza Cesare Battisti, 1

QUANDO 22/11/2022

L’attualità del pensiero politico di Gaetano Salvemini torna con la Fondazione “Giuseppe Di Vagno (1889-1921)” organizzatrice de le “Lezioni Salvemini” che dal 2017, grazie a un’idea dello scrittore e giornalista Alessandro Leogrande, valorizza l’attualità del pensiero di un grande studioso e intellettuale italiano del ‘900 con l’aiuto di storici, docenti e giornalisti.

Domani martedì 22 novembre 2022, a partire dalle 11.00, nell’Aula “Vincenzo Starace del dipartimento di scienze politiche dell’Università degli Studi “Aldo Moro” in Piazza Cesare Battisti a Bari, la memoria tornerà attuale sul tema di “Gaetano Salvemini e l’Italia nuova” in un appuntamento curato dal giornalista Luigi Quaranta, anche componente del Consiglio d’Amministrazione della Fondazione Di Vagno.

Attraverso le parole di studiosi, politici ed esperti, si parlerà della figura di Salvemini come punto di riferimento per filosofi e storici, ma anche del suo ruolo di osservatore della nascita dell’Italia repubblicana

A parlarne, dopo i saluti del prof. Giuseppe Moro direttore del Dipartimento di Scienze Politiche, saranno Patricia Chiantera docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, Gaetano Quagliariello docente di Storia Contemporanea all’Università Luiss “Guido Carli” di Roma, Andrea Ricciardi storico e socio della Fondazione “Ernesto Rossi e Gaetano Salvemini” di Firenze.

BariToday

Link: https://www.baritoday.it/eventi/incontri-salvemini-fondazione-di-vagno-bari-22-novembre-2022.html

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