DIOGUARDI SAVERIO

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DIOGUARDI SAVERIO

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Rutigliano 5 novembre 1888 – Bari 22 novembre 1961

L’architetto

Ultimo dei tre figli maschi di Nicola e Donata Romito. Il padre gestisce insieme al fratello Domenico una piccola impresa di costruzioni fondata dal nonno Giuseppe. Per i Dioguardi l’azienda di famiglia è tutta la loro vita e Saverio passa la sua adolescenza fra la scuola e i cantieri edili.
Nel 1893 suo padre Nicola si traferisce a Bari, una città di circa 80 mila abitanti, dieci volte più grande di Rutigliano. L’azienda è cresciuta e la città dell’uva è diventata troppo piccola per le ambizioni di Nicola che, staccatosi dal fratello Domenico, fonda l’impresa di costruzioni ‘Nicola Dioguardi & Figli’.
A Bari Saverio, con i fratelli Giuseppe e Domenico, è sempre più coinvolto nell’azienda di famiglia. Frequenta assiduamente i cantieri dove apprende e affina il ‘mestiere’,osserva capimastri, operai ferrieri, muratori, ebanisti e s’interessa dei materiali da costruzione. Più spesso si sofferma ai tavoli dei geometri, ingegneri e architetti scoprendo di avere una propensione per il disegno monumentale, palazzi complessi ed elaborati che lui tratteggia in modo del tutto personale. E,da autodidatta, si avvia all’architettura.
Nel frattempo, la crisi economica che ha colpito soprattutto il Mezzogiorno, per il blocco delle esportazioni dei vini da taglio a causa dell’insensata guerra doganale con la Francia, lascia decine di migliaia di contadini senza lavoro che si riversano in città con le loro famiglie aumentando in modo sproporzionato gli abitanti di Bari con conseguente aumento delle esigenze abitative.
Ma la città non è cambiata molto rispetto a quel ‘nuovo borgo’ a scacchiera disegnato dall’ingegnere/architetto di Polignano Giuseppe Gimma a partire dal secondo decennio dell’Ottocento. Tanto che, ancora nel 1905, l’ingegnere Pietro Nencha, nel numero di gennaio della Rassegna Tecnica Pugliese, scrive che in Bari…non esiste una questione edilizia barese… tutte le costruzioni di questa città dal punto di vista artistico sono un orrore e dal punto di vista igienico un mezzo delitto.
Ecco dunque che, fra l’aumento della popolazione cittadina e la necessità di fornire nuove abitazioni e servizi, l’azienda di Nicola Dioguardi & Figli diventa la più importante del settore e all’inizio del Novecento conta già oltre cento dipendenti. Attrezzati ed esperti del mestiere, l’attenzione dei Dioguardi è rivolta verso l’edilizia residenziale. Il fenomeno migratorio ha coinvolto anche i ricchi borghesi di tutta la regione,che diventa la nuova borghesia cittadina. Sono per lo più latifondisti, commercianti all’ingrosso di olii, vini e di molte altre derrate alimentari. Né mancano professionisti, piccoli industriali, qualche banchiere e naturalmente i ricchi proprietari di botteghe tipiche della città – telerie, seterie,materassai, ricamatrici e altri artigiani di generi di lusso-tutta gente che chiede abitazioni signorili… e non ve ne sono affatto – scrive l’urbanista Antonio Vinaccia nel 1904 – la città di Bari, salvo per qualche rara eccezione, non ha nessuna impronta di città nuova. Le case sono ancora quelle di cinquant’anni addietro, uniformi e troppo bottegaie nell’aspetto.
E sono proprio i bottegai i maggiori proprietari delle case nel borgo murattiano. Case spesso tirate su con grettezza, ma che dovevano essere funzionali al loro mestiere: la bottega dell’artigiano, i mestieranti, il fabbro, il falegname o il deposito di derrate del commerciante al piano strada, l’abitazione al primo piano.
Così, l’azienda di Nicola Dioguardi con i suoi ragazzi, cresce. Saverio ha imparato molto ed è già in età per il servizio militare. Chiamato nel 1909 è assegnato,prima ad un presidio di Roma, poi a Verona dove non manca di frequentare noti architetti dell’epoca. Prende parte a qualche concorso pubblico e pur privo di diploma professionale, nel 1911 partecipa al concorso per il monumento allo Zar di Russia, Alessandro II, a San Pietroburgo. Unico italiano in gara si aggiudica un prestigioso terzo premio per l’Architettura.
Finita la ferma dell’obbligo Saverio torna a casa dove l’Azienda gode di ottima salute. La Nicola Dioguardi & Figli prospera soprattutto nel sopraelevare le abitazioni del murattiano di agenti commerciali e commercianti loro pure con affari e famiglie in crescita.
La politica aziendale della Dioguardi è molto semplice: investire per crescere. Con i profitti, infatti, acquistano terreni per iniziare a costruire edifici signorili, moderni con qualità architettoniche degne di pregio.
Il primo di questi palazzi, costruito fra il 1913/14, è Casa Dioguardi, un immobile di quattro piani in via Crisanzio angolo Sagarriga Visconti, edificato con soluzioni davvero innovative, ricco di ‘maschere’ esterne e decorazioni allegoriche di notevole impatto.

Architetto autodidatta

Proprio in quel 1913 poi, in occasione delle celebrazioni per il centenario della visita di Re Gioacchino Murat, il Municipio di Bari, guidato dal sindaco Sabino Fiorese, economista e professore di statistica, pubblica il progetto di ampliamento del piano regolatore, compilato due anni prima dall’ingegnere Capo del Comune, Arrigo Veccia: riguarda la zona a Sud del lungomare partendo dal molo di San Nicola e dalla spiaggetta del ‘filoscene’.Tutto il tratto di mare ancora libero e frastagliato sarebbe stato colmato per centinaia di metri fino all’odierna zona di piazza Gramsci, modificando quindi totalmente l’aspetto dell’intero lungo tratto di mare. L’enorme cubatura colmata sarebbe stata attraversata da una grande arteria, la passeggiata a mare, e da altre tre strade parallele. Queste ultime verrebbero separate, di volta in volta, da una fitta pineta, da palazzi e da esercizi commerciali. Alla confluenza delle strade, una grande rotonda d’acqua di mare, avrebbe formato un lago artificiale per la coltivazione delle ostriche.
Un progetto grandioso… mai realizzato. Il piano regolatore Veccia si trascinerà di rinvio in rinvio fino al 9 luglio 1926 quando sarà approvato ma, a forza di modifiche, varianti e stralci era già svuotato, snaturato e inutile a causa dei nuovi eventi storici del Paese.
L’idea del piano Veccia, era di colmare il lungo tratto di mare, alienare le aree bonificate e metterle in vendita a imprenditori privati allo scopo di rinsanguare le sempre prosciugate casse del Comune. Ma il Municipio non aveva la possibilità di far fronte alla spesa, anzi, Sabino Fiorese, accusato di aver ulteriormente indebitato l’Amministrazione cittadina per le celebrazioni a Gioacchino Murat, si dimette!
Quei suoli, invece, di proprietà del Comune che non necessitavano di bonifica, alle spalle di Palazzo Atti e dell’albergo Oriente, cioè da corso Cavour fino a via Abbrescia, sono messi in vendita al miglior offerente dove sorgono ricchi palazzi privati in via De Giosa, via Bozzi, via Abbrescia, i prolungamenti fino al mare di via Cognetti, via Imbriani e via Cardassi, dove sorgerà il cosiddetto ‘Quartiere Umbertino’ ricco di una molteplicità di stili con prevalenza del Liberty. Alcuni di quei suoli sono acquistati dai Dioguardi in cui Saverio, già da qualche anno, dirige il settore di progettazione.
Ma l’Europa è in armi fin dal 1914 mentre l’Italia, indecisa con chi allearsi, è in ‘vigile attesa’. Il 22 maggio 1915 il governo di Antonio Salandra rompe gli indugi e sceglie di intervenire nel conflitto mondiale a fianco della Francia. Così Saverio, insieme al fratello Giuseppe, sono chiamati a servire la Patria e inviati sul Carso nei reparti del Genio.
Nel corso della guerra il giovane Saverio conosce la sua futura moglie, Maria Blasutigh, sfollata a Udine dalla piccola cittadina di San Daniele. Finito il conflitto Maria si trasferisce a Milano, per frequentare l’Accademia di Belle Arti, seguita da Saverio. Il soggiorno nella città lombarda amplia e arricchisce la sua propensione per l’architettura monumentale. Milano è ricca di palazzi signorili, caratterizzata da massicce costruzionitipiche di fine Ottocento, tanto apprezzate dal giovane autodidatta, con accurati disegni di elementi eterogenei che finiscono per influenzare l’attività futura di Dioguardi cui aggiunge il suo estro personale.
Già nel 1914 l’azienda di famiglia aveva acquistato un suolo in corso Cavour angolo via Cardassi per costruirvi un palazzo con una chiesa del pastore metodista Ferreri. Il progetto, firmato da Dioguardi, è un ottimo esempio di architettura eclettica, ma presentato alla Commissione edilizia del Municipio nel novembre 1914 è respinto. Qualche mese dopo Dioguardi presenta un secondo progetto, leggermente modificato, ma a firma dell’ing. Pasquale Lofoco. Un sotterfugio insomma per avere l’approvazione della Commissione edilizia. Infatti, il progetto è approvato, ma lo scoppio della prima guerra mondiale rinvia la consegna dell’immobile al 1922.
Stessa sorte tocca al progetto dell’edificio Scianatico, adiacente a palazzo Ferreri in corso Cavour. Redatto nel 1917, ‘in zona di guerra’, si legge in una nota a margine del disegno firmato da Dioguardi, viene respinto dalla solita Commissione edilizia.
Per farla breve, i funzionari titolati della Commissione hanno sempre guardato con sospetto gli autodidatti, sia pure noti per le loro capacità: un progetto doveva essere necessariamente firmato da professionisti riconosciuti, altrimenti si correva il rischio, come accade a Saverio Dioguardi, di vederseli respingere.
Diventa dunque urgente conseguire i necessari diplomi professionali per espletare compiutamente il proprio lavoro senza dover ricorrere a un prestanome qualificato. Dioguardi consegue il diploma di professore di disegno architettonico presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 1919. L’anno successivo sposa Maria Blasutigh che gli darà quattro figli.
Ma deve interrompere gli studi e tornare a Bari. Il fratello Domenico non gode di buona salute, si spegne nel 1924, e l’Azienda necessita del suo supporto tecnico e manageriale.
Tornato a casa, lavora alacremente: nel 1921 consegna i villini Durante nella zona di espansione della città in via Michelangelo Signorile; nel 1923-24 vengono approvati progetti per abitazioni signorili in via Tanzi e per casa Salvemini-Dioguardi; per un’altra casa ancora in via Signorile, per la sopraelevazione di casa Fumai in via Ragusa e per casa Barbone in piazza S. Antonio successivamente demolita. E ancora: palazzo Dioguardi-Durante in piazza Eroi del Mare, un altro palazzo Dioguardi in via Fiume. Il palazzo Labianca, in via Abate Gimma angolo via Melo, nel1926 e palazzo Giannelli nel 1929, in via Principe Amedeo angolo via Argiro, oltre ad altri edifici in via Abbrescia e corso Sonnino.
Quasi tutte le altre sue costruzioni degli anni Venti sono ancora oggi riconoscibili per caratteristiche loggette e balconi, finestre a doppia anta divise da eleganti colonnine, decorazioni, capitelli medievali e bugnati ora rustici ora lisci. Un insieme gradevole specie nel palazzo acquisito dalle suore del Sacro Cuore, in via Crisanzio, dove l’arte e la mano di Saverio Dioguardi è evidente!
Ma il suo primo, grande progetto, elaborato con l’ingegnere Luigi De Paolis, è il monumentale palazzo degli impiegati statali in via De Giosa angolo via Cognetti realizzato solo parzialmente. L’idea originaria era quella di edificare due grandi immobili sugli ultimi due isolati di via De Giosa comprendente anche via Bozzi. I due immobili, divisi dalla stradina di via Montenegro, sarebbero stati uniti da un enorme lucernario in ferro e vetro in modo da coprire interamente via Montenegro dando l’impressione di un blocco unico. Purtroppo verrà costruito uno solo dei due palazzi, quello di via De Giosa angolo con via Cognetti…ma resta una godibilissima articolazione degli esterni con accentuati contrasti materici, con raffinati geometrismi déco e citazioni liberamente interpretate,ha scritto il prof. Fabio Mangone in un volume dedicato a Saverio Dioguardi.

Il concorso internazionale

Anche i lavori minori, comprese le sopraelevazioni, conservano la sua impronta tendente a migliorare l’immagine esterna degli immobili con spunti di varie epoche.
Sempre negli anni Venti Dioguardi partecipa ad un concorso internazionale per il progetto di una nuova sede, un grattacielo, del quotidiano americano The Chicago Tribune. L’organizzazione del concorso, al fine di stimolare l’estro degli architetti, stanzia un premio di cento milioni di dollari: saranno premiati i primi tre progetti vincitori che propongono un’architettura moderna con soluzioni avanzate e innovative.
Dei 189 progetti presentati, 54 arrivano da paesi europei, 4 sono italiani. Fra questi c’è anche quello di Saverio Dioguardi benché privo del titolo di Architetto. Il 3 dicembre 1922 una giuria di esperti annuncia i vincitori: il primo premio è assegnato ad uno studio di architetti di New York; il secondo ad un architetto finlandese, il terzo ad uno studio di Chicago. Avviene tutto come nelle previsioni dell’organizzazione: gli americani non hanno mai avuto l’intenzione di assegnare un progetto ed una commessa così importante a imprese fuori dal suolo degli Stati Uniti.
Lo splendido, spettacolare, maestoso progetto di Dioguardi è inserito fra i cinquanta progetti particolarmente meritevoli di menzione. Ecco come egli stesso lo descrive nel volume Architettura Monumentale stampato nel 1927: il progetto fu ideato con lo scopo di ottenere non uno dei soliti grattacieli, bensì un palazzo eminentemente monumentale, con tutta la glorificazione simbolica della stampa e sopra ogni altro del giornale di cui esso dovrà essere sede.
Il grattacielo si compone di tre singole parti, il basamento, con grandi sale per il pubblico e la Direzione; un grande arco trionfale, nei due piloni laterali del quale si svolgono una serie di piani e uffici secondari e, sulla sommità, un globo terrestre di cristallo sorretto da quattro gruppi scultorei simboleggianti le quattro parti del mondo, di dimensioni grandiose, faro luminosissimo di effetto meraviglioso e unico.
Al limitare della scalinata d’accesso, due figure rappresentano i maggiori uomini della stampa; addossati ai pilastri esterni due gruppi raffigurano la fratellanza dei popoli; nel centro dell’arco campeggia una quadriga guidata dalla figura della stampa, che porta luce e progresso nel mondo. Sul cuneo del maestoso arco una grande statua rappresenta l’America che irradia la luce della civiltà nuova.
E poi tante altre decorazioni all’interno studiate con lusso e fasto di ornamenti.
Intanto, proprio nell’anno in cui Dioguardi presenta il suo progetto per il quotidiano statunitense, l’Italia è sull’orlo di una guerra civile. Alla mercé di squadracce ‘rosse e nere’, fascisti da una parte e socialcomunisti dall’altra, se le danno di santa ragione nell’ignavia più totale dei governi che sono riusciti a portare il Paese allo sbando. Il 28 ottobre 1922 Mussolini, con la sua ‘marcia su Roma’, mette temporaneamente fine alle violenze e riceve dal Re il mandato di costituire il nuovo governo destituendo, di fatto, il presidente del Consiglio in carica Luigi Facta ‘uomo di fiducia’, il ‘cappello’ di Giovanni Giolitti l’uomo che ha dominato la politica italiana per un trentennio, contribuendo non poco allo sfascio e all’avvento del fascismo.
Apparentemente l’impresa Dioguardi non sembra accusare contraccolpi. Il giovane Saverio è ormai totalmente assorbito nell’azienda familiare e il flusso migratorio dai paesi interni della provincia e della regione verso la città, è inarrestabile. Migliaia di braccianti agricoli affamati e di latifondisti arricchiti, hanno deciso di abbandonare le terre aride che nessuno vuole più coltivare. Anche il Mezzogiorno, sia pure più lentamente, comincia ad allungare il passo verso l’industrializzazione.
Nel 1922 Bari conta già 120mila abitanti e ha fame di case modeste e signorili allo stesso tempo. Solo che, mentre la richiesta delle prime è crescente, quella delle seconde è minore e altrettanto spesso i molti progetti elaborati restano sulla carta.
Il fascismo però, se da un lato mortifica la vita di tutti i giorni con le sue assurde restrizioni e innovazioni, con i tanti incredibili ‘fogli d’ordine’ – abolito il Lei, la stretta di mano, ecc. – dall’altro alimenta l’idea di voler riportare il Paese ai fasti di un tempo, alla ‘grandezza’ di Roma e dell’Italia rinascimentale, che trovano rispondenza nelle idee architettoniche di Saverio Dioguardi.
In questi anni di revanscismo politico infatti, l’idea di riscattare il Paese dal mefitico, corrotto trentennio giolittiamo si tramuta in opere grandiose a cominciare dai monumenti agli Eroi che hanno perso la vita nella Grande Guerra. Il tema, commemorativo e celebrativo allo stesso tempo, è congeniale a Dioguardi, solo che doveva adattarsi alle esigenze del Regime che le rovinava esigendo i suoi simboli: fascio, aquile, vittorie alate!
Verso la fine del 1922 l’Associazione cittadina fra i congiunti dei caduti nel conflitto mondiale, organizza una sottoscrizione e, raccolta la somma di 150 mila lire, commissiona all’Architetto Dioguardi e all’Azienda di famiglia, il progetto e la costruzione di un monumento dei loro congiunti, da collocarsi nel cimitero cittadino. Il mausoleo viene consegnato il 16 dicembre 1923…un’eccellente opera d’arte ispirata a quelle linee di armoniosa semplicità e severità che trova un caratteristico riflesso nell’architettura assira. L’Autore volle comporre un’opera di carattere architettonico evitando ogni accenno a minuzie, in modo che l’aspetto semplice, solenne ed austero ricordasse la severa e grandiosa figura dei nostri Eroi, scrive La Gazzetta di Puglia.
Completato in quattro mesi, per una spesa totale di 275 mila lire, la consegna è accompagnata da una nobile lettera della Ditta N. Dioguardi e Figli in cui si legge: non intendiamo derogare al nostro contratto. Perciò, devolviamo a beneficio del monumento stesso la rimanente somma di 125 mila lire ben lieti dell’occasione che si è presentata a noi, che viviamo del nostro assiduo lavoro, di dare un modesto segno di venerazione per gli Eroi e di attaccamento alla nostra città.
Meno di un mese dopo, il 19 gennaio 1924, il re Vittorio Emanuele III, in una cerimonia semplice e commovente, presenzia alla consegna del Monumento ai Caduti all’Associazione e alla cittadinanza.
La volontà di celebrare la Vittoria e glorificare i Caduti diventa una sorta di esigenza del Regime che sollecita Comuni e Province a promuovere gare e concorsi per riempire le piazze d’Italia di monumenti e mausolei dedicati ai Caduti per ottenere il favore della popolazione. È l’inizio della stagione dei concorsi di architettura in cui si sperimentano i temi dello ‘stile nazionale’ fascista.
Saverio Dioguardi partecipa al concorso per il monumento ai marinai a Brindisi, per l’Arco di Trionfo a Genova e per i Caduti a Milano ricevendo, per quest’ultimo, non poche lodi… il progetto del giovane pugliese presenta una linea di purezza classica e un’armonia di massa meravigliosa, scrive il Giornale d’Italia il 29 marzo 1925. Il progetto milanese non è premiato né ottiene la commessa per la costruzione del progetto vincitore pur essendo, l’impresa di Dioguardi, una fra le pochissime aziende integrate e d’avanguardia del Paese. Vince e realizza, invece, il monumento ai Caduti di Polignano, nel 1923 e quello per Sannicandro nel 1928.
Intanto, nel 1923, Dioguardi presenta un altro progetto per l’abitazione privata, destinata ai fratelli Domenico e Giuseppe su un suolo di proprietà dell’Azienda in via Crisanzio. Sfortunatamente Domenico, colpito da un ‘fiero morbo’, si spegne l’11 febbraio 1924 a soli 37 anni. Esattamente un mese dopo l’approvazione del progetto. Profondamente segnati dall’infausto evento, l’immobile è ceduto in corso d’opera alle suore del Sacro Cuore. In questa costruzione, che nel corso degli anni è stata sopraelevata e ampliata, si può notare la massima espressione di eclettismo operata da Dioguardi.

Il Palazzo del Giornale a Bari

Qualche mese dopo, Raffaele Gorjux, fondatore della Gazzetta di Puglia, sorta nel 1922 da una costola del Corriere delle Puglie, chiede al nostro architetto di progettare e costruire in piazza Roma angolo via Zuppetta, un ‘palazzo del giornale’. Era tempo che il quotidiano barese uscisse dal vecchio palazzotto situato al civico 18 della stessa piazza e da una serie di altri locali affittati per la composizione, impaginazione e stampa sotto i portici della Bari-Matera.
La nuova sede, un palazzo di quattro piani situato dalla parte opposta del vecchio edificio, completa il ciclo produttivo del giornale: agli spedizionieri bastava attraversare la strada e i giornali erano in stazione pronti, fascettati e legati per caricarli sui treni in partenza per Napoli, Roma e per le province pugliesi.
L’edificio era a forma di L maiuscola rovesciata: la parte più stretta aveva il portone d’ingresso su piazza Roma, la parte più lunga su via Zuppetta. La più vistosa caratteristica dell’immobile, in stile eclettico, erano quattro cariatidi inserite nelle due finestre ad angolo del piano terra: davano l’impressione di sorreggere tutto il peso del palazzo. Sulla sommità, una grandiosa cupola reggeva un mappamondo luminoso che non aveva la dimensione di quello progettato per il Chicago Tribune ma dava l’idea del ruolo di quel palazzo. All’ultimo piano era stato ricavato un appartamento per la famiglia di Raffaele Gorjux.
La nuova sede della Gazzetta di Puglia era già pronta e occupata dalle maestranze, insieme a tutte le attrezzature dello stabilimento tipografico fin dal 13 aprile 1926, ma sarà inaugurata il 29 dicembre 1927: Mussolini aveva promesso di venire ad inaugurarlo il 21 aprile o 22 ottobre, date storiche per il fascismo, ma s’era fatto attendere invano. Chissà che non sia stata quella mancata ‘benedizione’ a segnare il destino del Palazzo del Giornale. Verrà abbattuto il 17 agosto 1982, con il silenzio-assenso della Soprintendenza dei Beni architettonici, per costruirvi un nuovo, grande palazzo in vetro cemento. Le quattro cariatidi però, scamparono alla demolizione e oggi sono esposte nell’androne del Municipio.
Nel 2016 quel ‘destino’ torna sui suoi passi e si prende la rivincita: la Gazzetta torna nello stesso sito e nel medesimo luogo della sua storica sede, all’ottavo e al nono piano del palazzo scintillante dove, nel frattempo, piazza e strada hanno cambiato nome: la prima è diventata piazza Moro, la seconda via dei Caduti di via Fani.
La pomposa cerimonia dell’inaugurazione del Palazzo del Giornale è consumata… con austerità fascista al cospetto delle gerarchie del Regime…e Raffaele Gorjux ha voluto dedicare poche parole all’indirizzo del giovane architetto che… nell’ideazione e nella costruzione di questa nostra Casa, ha superato se stesso. Egli ha portato in ogni cosa, perché tutto fosse perfetto, la sua passione, la sua fede, il suo amore e la competenza perché tutto rispondesse perfettamente alle esigenza ed ai bisogni di un grande giornale.
Non solo, ma creata e attuata la mole architettonica, egli ha saputo dimenticare l’architetto per dedicarsi al dettaglio, per curarlo e crearlo anche là dove pareva non fosse utile e necessario così che tutto risultasse secondo la sua volontà e rispondesse al più raffinato buon gusto e alla più perfetta tecnica delle moderne costruzioni.
Saverio Dioguardi è un artefice compiuto e completo, uno di quelli che sa dare espressione di arte e di vita alle cose, contemperando mirabilmente gli elementi dei quali si serve e fondendo in un insieme unico e magnifico la tecnica con l’estro creativo.
Dopo aver consegnato il Palazzo del Giornale, Saverio Dioguardi si iscrive all’Albo degli Architetti della provincia di Bari e comincia a dare corpo ad un progetto ben più ambizioso: disegnare la futura ‘Grande Bari’.
Proprio nel 1926 si verifica una di quelle coincidenze storiche che recide con un taglio netto le concezioni architettoniche e urbanistiche del recente passato. Gli organi elettivi dei comuni vengono aboliti e i sindaci sono sostituiti da un Podestà direttamente designato e dipendente dal governo centrale. Così, la vita professionale di Saverio Dioguardi s’interseca con quella politica del primo Podestà cittadino, Araldo Di Crollalanza, personaggio che lascia un segno indelebile nella storia di Bari, un innovatore, un ricostruttore ma anche un severo esecutore di quella tozza, appariscente, nonché imponente architettura voluta dal fascismo che aveva un concetto sproporzionato dello Stato e del Regno che si accinge a diventare Impero.
Edilizia pubblica austera dunque, grandiosa, monumentale in contrapposizione con l’architettura di Saverio Dioguardi, che pure ama il monumentale, è inserita in un contesto ‘artistico’ ricco di decorazioni orientaleggianti e medievali. In definitiva, però, entrambi vogliono la stessa cosa: una ‘Grande Bari’. E in qualche modo il Podestà e l’architetto finiscono per convivere poiché Dioguardi progetta, e spesso costruisce, anche palazzi pubblici in puro stile fascista come il Palazzo del Comando della quarta Zona Aerea, 1933/1935 insieme all’architetto Aldo Forcignanò; la Caserma del Comando di presidio dell’Esercito in via Vittorio Veneto, odierna sede del Comando di brigata corazzata Pinerolo, la Caserma della Milizia Volontaria, le decorazioni alla Caserma G. Macchi e molto altro.
Solo il lungomare si salva dal grigiore dell’architettura fascista.
La linea semplice ed elegante del lungomare di Bari, vanto cittadino ancora oggi ammirato dai baresi e dai visitatori, è voluta e realizzata durante il breve mandato di Podestà di Araldo Di Crollalanza che ottiene uno stralcio dal piano regolare di Arrigo Veccia, prima di essere chiamato al ministero dei Lavori Pubblici come sottosegretario. Tuttavia, nel breve periodo, 1926/1928, in cui Di Crollalanza esercita il podestariato a Palazzo di città, non ha ancora assimilato i canoni urbanistici ed estetici che in seguito impone la politica del Regime e del suo stesso dicastero quando viene nominato Ministro dei Lavori Pubblici.
Tant’è che fino alla fine degli anni Venti lo stesso Dioguardi continua ad elaborare e disegnare progetti di case signorili arricchendoli di stilemi eterogenei e decorazioni fantastiche…e non stupisce – scrive ancora Fabio Mangone – che le proposte urbanistiche di Dioguardi restino per lo più sulla carta… dato il momento di grandi incertezze quanto allo sviluppo della città e data l’incapacità di gestire tali incertezze da parte degli organismi pubblici. Mirabile resta il progetto di un grande palazzo destinato a contemperare le esigenze commerciali con quelle abitative del committente che purtroppo non sarà realizzato.
L’immobile prevedeva un sontuoso ingresso per la parte commerciale, al centro dell’edificio angolare, l’ingresso ad angolo è una costante nei progetti di Dioguardi, con grandi colonne decorative oltre ad un ingresso privato secondario non meno elegante; ampie vetrate a piano terra per l’esposizione delle merci delimitate, anche queste, da lesene; soppalchi al mezzanino e, subito dopo, tre piani maestosi. Al primo piano un terrazzino balaustrato con ampie finestre corre su tutte e due le facciate. Finestre con ricchi balconi al secondo piano e finestre con bifore romaniche al terzo piano sormontate, queste ultime, da un lungo cornicione sul quale poggia una copertura a mansarda alla francese.
Al centro del tetto, in corrispondenza dell’ingresso commerciale, una grande cupola quadrangolare completa l’edificio che presenta un insieme armonioso ed elegante.
Il progetto di ‘palazzo signorile’ di Dioguardi, è molto simile al palazzo successivamente realizzato in via Sparano dall’architetto Aldo Forcignanò e dall’ingegnere Gaetano Palmiotto nel 1928 per l’esercizio commerciale e abitazione privata della famiglia Mincuzzi.
Più ricco e più elaborato del primo, specie nella facciata, l’edificio di Forcignanò celebra la fantasia della baresità insieme alla sempre nascosta opulenza commerciale cittadina. Magnifico sia il frontale ad angolo, con due monumentali colonne che lasciano spazio a grandi finestre per illuminare l’interno che libero e vuoto al centro dell’edificio di quattro piani è reso godibile da un ballatoio con banchi espositivi e da un corrimano, con un’elaborata ringhiera in ferro battuto, dove gli acquirenti possono affacciarsi e ammirare il vasto ‘open space’ del piano terra pavimentato con terra di graniglia e mattonelle di vetro. Un po’ discosto dal centro del piano terra, una scalinata in marmo, delimitata dallo stesso tipo di ringhiera, conduce ai reparti commerciali del piano interrato.

Bari, metropoli mediterranea

Nel 1922 in un raduno fascista a Napoli, Mussolini, avvicinato da una delegazione di baresi desiderosi di avere notizie sui programmi futuri del Regime in Puglia, dirà: faremo della Puglia il Ponte ideale del commercio per l’Oriente e, due anni dopo, ribadisce… voglio fare di Bari una delle prime città d’Italia… degna della sua storia e della sua posizione in Adriatico.
Dunque indicata la meta e il ruolo di Bari – metropoli mediterranea, porta verso l’Oriente e centro amministrativo della regione – Araldo Di Crollalanza, s’impegna ad attuare le aspirazioni del Regime e della cittadinanza vogliosa di fare quel salto di qualità in termini di crescita sociale ed economica sempre promessa e mai attuata dai regimi liberali. Per tali ambiziosi programmi nel 1926 Saverio Dioguardi elabora tre progetti in cui disegna la futura ‘Grande Bari’, mentre l’anno successivo il Regime inizia una politica di Opere Pubbliche che apporta ingenti capitali.
In questo contesto, naturalmente, anche i servizi igienici pubblici sono oggetto dell’attenzione del Podestà. Quei servizi che, colpevolmente trascurati dalle precedenti amministrazioni, oltre ad essere necessari sono anche ‘utili alla causa’.
Il 15 febbraio 1928 l’ufficio stampa del Podestà Araldo Di Crollalanza comunica che… oltre a diversi vespasiani da distribuire in vari punti della città, si è riesaminato l’atto di concessione del 2 dicembre 1925 riguardante l’impianto di un nuovo Albergo Diurno e di gabinetti di decenza alla ditta Lauretti, il Podestà ha constatato l’inopportunità di adattare a sede di diurno i locali a tergo della Chiesa di San Ferdinando, com’era previsto, trattandosi di locali annessi ad edificio di culto. Pertanto, il Podestà, con atto del 23 gennaio scorso, ha apportato una rilevante innovazione per effetto della quale l’Albergo Diurno sarà costruito nel sottosuolo del passeggiatoio di corso Vittorio Emanuele sull’asse di via Andrea da Bari.
Ecco dunque il primo, moderno Albergo Diurno di Bari dopo quello appena decente a piazza Roma.
Il progetto è affidato alla matita esperta di Saverio Dioguardi e all’impresa di costruzione Vito Ricco che si avvale del decoratore veneziano Mario Prayer, ormai stabilmente residente a Bari, e all’ebanista barese Francesco Rega… che ha creato in piena esaltazione spirituale il magnifico mobilio… inserito in un ambiente con profusione di specchi, marmo verde e bianco e la dura pietra di Trani.
Un locale lussuoso… non un asilo di comodità, un angolo di paradiso in cui una celeste sinfonia di colori e di delizie può assecondare le esigenze di un pubblico vario ed eterogeneo… scrive il cronista con la retorica poetica in uso all’epoca anche per descrivere un gabinetto pubblico.
Meno di un anno dopo la concessione, uno scavo non da poco, il 20 gennaio 1929 l’Albergo Diurno è inaugurato da una pletora di personalità fasciste cittadine e dalla benedizione dell’Arcivescovo di Bari, mons. Augusto Curi.
Non è il caso di insistere su quelle che sono le peculiari seduzioni dell’albergo – scrive ancora il cronista – basti dire che ogni reparto ha il suo salottino d’attesa pieno di ‘chinoiseries’ e servito da personale di primordine. L’albergo è fornito di cabina telefonica, sala di scrittura, servizio di stiratura a vapore, manicure, pedicure, custodie di valori e bagagli, recapito di corrispondenza, noleggio di ombrelli, cure estetiche, massaggi e naturalmente bagni, docce, barbieri e parrucchiere per signora. Insomma, tutto il bagaglio delle necessità della vita che in questo ambiente si alleggerisce del suo peso in una dolcezza serena e confortante. Un piccolo gioiello dell’era moderna che ha appreso nelle metropoli tentacolari l’arte di confortare l’umanità.
Già, nelle ‘metropoli tentacolari’, ma Bari verso la fine degli anni Venti è poco più di una città di provincia dove il parrucchiere per signora del diurno… non ha mai visto una signora. Le nostre donne non andavano in locali prevalentemente frequentati dai maschietti. Era già tanto se riuscivano ad andare in un cinematografo accompagnate da un marito o da un componente maschio di famiglia.
Frequentato fino agli anni del boom economico, il diurno riuscì a restare aperto fino al 1971. Nel 1983 venne ristrutturato e riaperto ma con poca fortuna. Nuova chiusura e nuovo abbandono alla mercé dei vandali. Finché, verso la fine degli anni Novanta, è ‘affogato’, riempito di pietre e macerie e, ripristinata la pavimentazione, sopra al ‘buco’ del diurno viene ‘parcheggiata’ l’enorme scultura del cavallo con gualdrappa di Mario Ceroli.
Torniamo dunque ai disegni di architetti e politici per costruire la ‘Grande Bari’.
Il primo progetto di Dioguardi riguarda il prolungamento di corso Vittorio Emanuele sul raccordo del lungomare di levante in fase di attuazione per volontà del Podestà Araldo Di Crollalanza. Il progetto prevede l’abbattimento, anche parziale, del teatro Margherita – un’annosa questione cittadina che divide le parti fra chi lo vuole abbattere e chi intende preservarlo – in modo da restituire alla città la vista a mare prolungando corso Vittorio Emanuele fino all’estremità del molo S. Nicola che diverrebbe una rotonda su cui innalzare un faro-monumento dedicato ai Caduti della grande guerra.
In questo modo, da corso Vittorio Emanuele fino al molo S. Nicola, si ricaverebbe uno spazio enorme, quasi il doppio di piazza della Prefettura, derivante dall’interramento del vecchio porto di n-dèrrea la lanze,e formare così una grande insenatura a ferro di cavallo proprio sotto le mura di via Venezia dove verrebbe attrezzata un’ampia banchina per le attività dei pescatori.

I progetti per la ‘grande Bari’

Su tutta l’area ricavata dall’interramento, quasi nel mezzo della grande spianata, in linea con la Camera di Commercio, Dioguardi intendeva costruire il Palazzo del Littorio, un grande parco e un nuovo teatro alle spalle del mercato del pesce. Infine dietro alla Camera di Commercio un circolo del tennis.
Il 9 agosto 1926 la Gazzetta di Puglia pubblica un secondo progetto dell’architetto-artista che torna a sollecitare il dibattito sulla ‘Grande Bari’.
Si tratta della sistemazione della stazione centrale: un enorme, massiccio palazzo di tre piani sopra ad un porticato che corre per tutta la lunghezza dell’edificio, costruito sopra la struttura della stazione esistente in asse con via Sparano. Ad abbellire la piazza, al posto di una piccola rotonda di verde, senz’alberi, com’è sempre stata, Dioguardi disegna una splendida fontana che lascia vedere la prospettiva di via Sparano divenuta, con il fascismo, via Vittorio Veneto.
La fontana, la seconda dopo il vascone di piazza Umberto, è un’innovazione, un lusso che la città può consentirsi ormai. La Puglia non è più ‘sitibonda’, per usare un termine di Matteo Renato Imbriani, grazie all’impegno eccezionale e costante dell’ingegnere foggiano Gaetano Postiglione che nel 1923, nominato Commissario Regio dell’Acquedotto, in soli quattro anni farà arrivare l’acqua prima in quasi tutti i centri della provincia di Bari, poi nel foggiano ed infine a Lecce.
Ma questa, come si dice, è un’altra storia. Resta il fatto che il secondo progetto di Dioguardi, della stazione e della fontana, resta sulla carta: piazza Roma rimarrà tale e quale è sempre stata e avrà la sua prima fontana nel 1939. Il solito, imponente mausoleo fascista abbattuto negli anni Cinquanta per fare spazio all’elegante fontana odierna.
Il progetto della stazione prevedeva anche la sistemazione di via Sparano. Dioguardi intendeva fare della via più elegante della città, l’asse centrale della ‘nuova Bari’. Questa avrebbe oltrepassato corso Vittorio Emanuele e, attraverso un parziale sventramento della città vecchia, si sarebbe collegata alla Cattedrale. Ma nessuno intendeva avallare l’ipotesi di abbattere pezzi della città vecchia. C’era stata, prima del progetto di Dioguardi, un’ipotesi Forcignanò-Palmiotto che prevedeva un intervento ben più radicale sul vecchio borgo ma, aspramente contestata, rimase lettera morta.
Nel percorso verso corso Vittorio Emanuele, Dioguardi inserisce anche la sistemazione della vecchia e modesta costruzione della Chiesa di San Ferdinando. Egli l’avrebbe trasformata in uno sfarzoso Pantheon dedicato ai Caduti. L’intento era di costruire, sulla struttura preesistente, una massiccia cupola in modo da ottenere un complesso architettonico in linea con la monumentalità urbanistica, alla stregua dell’arte romana, specie con gli archi di trionfo e… con lo stesso spirito rinnovatore dei tempi nostri. Si ha fiducia di aver raggiunto una fusione d’arte che può ben definirsi fascista! Scrive lo stesso Dioguardi su Architettura Monumentale.
Era, invece, una ‘fusione d’arte’ che apparteneva solo all’Architetto perché quella realizzata successivamente, dallo stesso Dioguardi – una costruzione tozza, con tre archi imponenti, sfacciatamente vistosa anche nel colore e nei simboli del Regime – era tipicamente fascista. Quella del Regime, insomma, era un’architettura che non faceva più riferimento a modelli artistici e culturali dei Borbone e di Napoli, ma doveva adeguarsi a quella politica di opere pubbliche che dettava Roma e il governo centrale il quale ‘suggeriva’ anche le linee architettoniche della ‘nuova’ Italia
La crisi economica, intanto, comincia a farsi sentire con la carenza di commesse private, ma non manca la committenza pubblica, Dioguardi comincia a partecipare ai concorsi. Egli, più di altri, è avvantaggiato dall’essere architetto e imprenditore. Spesso, infatti, le commesse dell’Amministrazione statale vengono affidate a quelle aziende che sono in grado di garantire un progetto… chiavi in mano, come si direbbe oggi.

Lo stadio della Vittoria (Leggi anche)

Nel 1927, dunque, partecipa sia al concorso per il campo sportivo del Littorio a Grumo Appula, poi realizzato, sia al concorso per il nuovo stadio di Bari in sostituzione del Campo degli Sport, a ridosso del nuovo carcere di Carrassi,divenuto inadeguato alle confermate aspettative e alle esigenze della Bari che, proprio con il campionato 1927/28 è promossa nella divisione nazionale e indossa, per la prima volta, la maglia bianco/rossa: i colori della città.
Il progetto del nuovo stadio di Dioguardi è ancora una volta dedicato ai Caduti ma, sebbene apprezzato dalla giuria degli ingegneri non è approvato perché… non rispondente al concorso. Il progetto prevedeva un ingresso monumentale in asse con il futuro prolungamento di corso Mazzini, in continuità con corso Vittorio Emanuele, mediante l’abbattimento della chiesa di San Francesco, costruita tre secoli prima l’arrivo di Gioacchino Murat…ed è ancora lì.
Lo stadio, poi realizzato e costruito in fretta e furia su progetto degli architetti Angelo Guazzaroni e Vincenzo Fasolo, sarà inaugurato il 6 settembre 1934 da Benito Mussolini in occasione della sua visita per la V edizione della Fiera del Levante.
Intitolato alla Vittoria del primo conflitto mondiale, quando venne il Duce lo stadio era ancora incompleto. Né, dopo la costruzione della torre Maratona,migliorerà il suo aspetto. Rimasto spoglio e disadorno fino al 1991, quando sarà inaugurato lo stadio di San Nicola, il Della Vittoria prima subirà la furia degli albanesi, arrivati in massa a Bari proprio in quel 1991, poi resterà in disuso per anni. Ristrutturato, restaurato e ammodernato per farne un contenitore di attività sportive e culturali di vario genere oltre che per eventi artistico-musicali,in realtà si farà bene poco, eancora oggi è lì che campicchia in attesa di tempi migliori.
Il 1° aprile 1927, Natale di Roma, nuova festa nazionale fascista in sostituzione dell’abrogato 1° maggio, l’odiata festa del proletariato ‘rosso’, il Podestà Araldo Di Crollalanza inaugura il primo tratto del lungomare con il toponimo di Nazario Sauro, successivamente divenuto lungomare Di Crollalanza.
Quel primo tratto, che in pratica è il prolungamento di Corso Vittorio Emanuele, si ferma nella piccola piazza Armando Diaz e lascia, sul ciglio di terra che porta al molo San Nicola, un’elegante palazzina in stile Liberty, sede del Circolo Canottieri Barion. Più in là del Barion segue una striscia di sabbia, nota come la spiaggia del ‘filoscene’ e, ancora,alla punta della spiaggetta, c’è il rinomato ristorante Posillipo.
Con il nuovo lungomare e il nuovo assetto urbanistico che si voleva dare a tutta la zona, non ci sarebbe stato più posto per la palazzina del Circolo, il molo di San Nicola, la spiaggia e il ristorante. Non così com’erano… la spiaggia e il ristorante sono ormai sepolte e inghiottite per sempre dalla magnifica via litoranea che il primo Podestà di Bari volle armoniosamente creare secondo una disposizione topografica quanto mai originale e leggiadra – scrivela Gazzetta – la vecchia denominazione di una riva orrenda, asilo di rifiuti e miasmi… non sarebbe sopravvissuta ma riordinata e sistemataadeguatamente alle esigenza della ‘Grande Bari’.
L’incarico di progettare quei nuovi spazi è affidato a Saverio Dioguardi che presenta un primo progetto nel 1930. Ma la Commissione Edilizia del Comune vorrebbe un progettoche…abbia un respiro più ampio… e propone alcune modifiche:la struttura in cemento armato deve essere più aperta al mare con l’aggiunta di altre finestre magari allargando quelle sulla carta. Il nuovo progetto è approvato nel 1933. Subito dopo il Comune bandisce un concorso-appalto per la costruzione, ma l’Azienda di Dioguardi ne resta fuori.
Vince il concorso la ditta Ceci-Nigro per la parte sopraelevata in cemento armato e, per la struttura subacquea, la ditta Sassanelli. Il nuovo ‘braccio’ nel mare, che sembra una nave protesa nel bacino del molo Sant’Antonio, il nuovo piccolo molo di San Nicola, la massiccia costruzione del Barion con torrette e finestre simili ad oblò, e il ristorante, che non sarà più Posillipo ma Adriatico, è inaugurato il 21 ottobre 1934 alla presenza di Araldo Di Crollalanza divenuto nel frattempo ministro dei Lavori Pubblici.
Fra il 1929 e il 1935 Bari conosce un rigoglio edilizio pubblico e privato senza precedenti, tale da cambiare e arricchire l’aspetto urbanistico della città edificata oltre il borgo murattiano. Sono anni di grande entusiasmo e di sostanziosa ripresa economica che porta a Bari migliaia di addetti all’edilizia, manodopera anche specializzata. La città è un grandecantiere, svettano un po’ ovunque eleganti edifici per civile abitazione specie in corso Cavour,via Sparano, via Melo, via Piccinni e De Giosa, in via San Francesco d’Assisi e nella zona detta ‘umbertina’ alle spalle del tratto di corso Cavour dopo il Petruzzelli.
Non sono da meno gli splendidi edifici sul lungomare, sia a levante che a ponente con i tanti palazzi pubblici per fare della città il centro amministrativo della regione,in ossequio ai propositi fascisti per la ‘Grande Bari’ che danno,altresì, un volto totalmente diverso alla città: Bari marcia in tutti i campi, aggredisce l’avvenire con vorace brama di vita.
Il comparto dell’industria edile locale è molto richiesto e i committenti trovano nell’impresa Dioguardi e nell’architetto Saverio, un realizzatore ideale.
Nel 1929 intanto si concretizza l’idea di fare a Bari una grande Fiera nazionale: la Fiera del Levante. Ne sono convinti fautori da anni, Araldo Di Crollalanza, Antonio De Tullio, per lungo tempo presidente della Camera di Commercio,e la Gazzettache ospita chiunque voglia parlarne fin dalla prima fiera provinciale del 1900.
Dioguardi prepara diversi progetti: per l’ingresso monumentale, per padiglioni di aziende private e istituzioni, la Casa del Fascio,l’ingresso secondario e tanto altro ancora, ma realizza poco. Sarà l’architetto Cesare Augusto Corradini a prendersi la commessa dell’Ente Fiera con un progetto, ancora una volta, molto simile a quello dell’architetto Dioguardi,il quale realizza solo qualche padiglione e l’ingresso secondario che poi è quello sempre usato anche nelle cerimonie ufficiali.
Ma le commesse non gli mancano: sopraelevazioni, ristrutturazioni – del Banco di Napoli in via Abate Gimma, di alcune abitazioni private nel centro murattiano – è chiamato perfino per edificare cappelle e tombe per la borghesia cittadina e ricchi commercianti.
Un passo indietro. Nel 1928 con la realizzazione del secondo tratto del lungomare, dalla rotonda a piazza Gramsci, si apre la gara per ‘colonizzare’ la costa a Sud della città.

Il Palazzo della Provincia (Leggi anche)

Nel 1932 sono già pronti cinque progetti: il Grande Albergo delle Nazioni, dell’architetto Alberto Calza Bini, di proprietà del Comune, inaugurato il 1° settembre del 1935; la possente costruzione della Caserma dei Carabinieri Chiaffredo Bergia… dovuta alla genialità creativa dell’Accademico Cesare Bazzani, prima di piazza Gramsci; il complesso residenziale ancora di Calza Bini accanto all’Albergo delle Nazioni, di proprietà dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, che al piano stradale ospita il Gran Caffè Riviera e, subito dopo, il Palazzo della Provincia,capolavoro dell’architettura eclettica il cui progetto è comunemente attribuito a Saverio Dioguardi che fin dal 1930 propone bozzetti di palazzi pubblici.
Al Palazzo della Provincia segue il Palazzo delle Opere Pubbliche, odierna sede della Presidenza e della Giunta regionale pugliese, un’opera degli architetti Domenico Minchilli e Cesare Vanonio, il primo ad essere inaugurato nel 1934. Infine, nel 1933, inizia la costruzione del Palazzo della IV zona aeronautica su progetto di Saverio Dioguardi e Aldo Forcignanò, l’architetto del Palazzo Mincuzzi,inaugurato nel 1935.
Uno dei tantibozzetti di palazzi pubblici proposti da Saverio Dioguardi somiglia molto al palazzo della Provincia. Nel 1933 la Gazzetta, nel fare la cronaca della visita barese di Araldo Di Crollalanza per il primo colpo di piccone sul luogo in cui sorgerà il Policlinico, scrive che… a seguito il ministro dei Lavori Pubblici volle visitare il cantiere del Palazzo della Provincia dove è ricevuto, fra gli altri, dal Capo dell’ufficio tecnico dell’Ente, l’ing. Luigi Baffa, nonché dall’architetto Saverio Dioguardi autore del progetto.
Eppure, sembra non ci sia un documento che affermi con chiarezza inequivocabile che l’Ente Provincia abbia chiesto a Saverio Dioguardi un progetto in tal senso, ma è comunque fuori discussione che Dioguardi e Baffa abbiano operato di concerto per la realizzazione dell’opera testimoniatoda un disegno con la firma di entrambi.
L’edificio,non ancora completato, è inaugurato il 6 settembre 1934 da Benito Mussolini giunto a Bari per aprire al pubblicola V edizione della Fiera del Levante. Il 16 ottobre l’esperto d’arte e architettura della Gazzetta Domenico Maselli illustra ai lettori la meraviglia dell’opera… testé conclusa grazie al fiorire degli animi ostinati di questa città. L’abbiamo vista nascere poco a poco questa creazione verticale che portava nella contrada il richiamo delle torri delle nostre cattedrali sospese sulle scogliere.
Concluso il suggestivo paragrafo poetico, Maselli descrive le bellezze del Palazzo costato sette milioni di lire con un finanziamento di due mutui accesi con il Banco di Napoli… lo stile architettonico si richiama a quella monumentalità italiana del primo Rinascimento, ma quei caratteri tipici dell’epoca sono stati convenientemente modernizzati per adattarli al mutato spirito dei tempi: un classico nazionale che fa armonizzare il Palazzo con gli altri che lo circondano di stile Novecento.
Il porticato d’ingresso è senz’altro il più ricco e interessante di tutto l’edificio… cinque arcate chiuse da pesanti cancelli di ferro battuto mentre il vestibolo è sostenuto da snelle colonne di granito rosa, le pareti sono rivestite con ‘filetto rosso di Puglia’ di Poggio Imperiale, i portali sono di marmo cipollino verde apuano a masso, il pavimento del vestibolo è di marmo con riquadri di ‘giallo di Siena’ e con fascioni di ‘filetto rosso’.
Il soffitto a cassettoni di legno di quercia con Fasci Littori e stemmi dell’Amministrazione. Le arcate verso il cortile interno sono chiuse da pesanti vetrate in legno di rovere. Dal sontuoso atrio ricco di statue fra luci variopinte filtrate attraverso vetrate istoriate, si accede allo scalone d’onore su due rampe di marmo a tenaglia che conducono ai piani di rappresentanza. Da questi ultimi, con una scala interna si accede alla Pinacoteca.
Il corpo centrale del prospetto dell’edificio è decorato, al primo piano, con due colonne di granito sostenenti due aquile di marmo e la torre, alta sessantacinque metri, è incorporata nel cuore del Palazzo spostata leggermente verso un lato.
Quello che però è utile notare è che Maselli non fa alcun cenno al progettistao al direttore dei lavori Luigi Baffa. È una ‘disattenzione’non da poco, considerato che all’epoca era uso citare anche il nome dell’ultimo della fila!
Baffa si spegne nel novembre del 1933, gli succede l’ing. Vincenzo Chiaia, componente dell’Amministrazione provinciale che si occuperà soprattutto della parte artistica, decorativa e di arredamento degli interni affidati, per lo più, alla ditta Melchiorre Bega di Bologna, una delle imprese più note del settore. La sala del Consiglio, invece, è affrescata dal pittore barese Antonio Lanave. In definitiva, un insieme eterogeneo di grande efficacia.
Per completare, poi, il magnifico panorama del lungomare Nazario Sauro, bisogna attendere il dopoguerra quando vengono costruiti sia la sede dell’INPS, 1951/1955, su progetto dell’architetto Riccardo Morandi, sia il Palazzo dell’Assessorato alle risorse agroalimentari, odierno Assessorato regionale all’agricoltura, progettato dall’architetto Marino Lopopolo e dall’ingegnere Vincenzo Rizzi, i cui lavori hanno inizio nel 1953 e terminati nel 1955.
Nel 1934,infine, Dioguardi presenta alla Commissione edilizia municipale il progetto per la costruzione della sede barese della società di assicurazioni Riunione Adriatica di Sicurtà, cinque piani in corso Cavour angolo via Putignani. Il progetto è bocciato, ma emendato e ripresentato l’edificio è pronto ed agibile dal 22 dicembre 1935.
L’ultima opera privata di questi primi anni Trenta dell’Architetto e dell’impresa Dioguardi è la ristrutturazione del Banco di Roma nel 1936.
Poi, la festa finisce.
All’inizio del 1935 Araldo Di Crollalanza lascia il ministero dei Lavori Pubblici in ossequio al principio della turnazione degli incarichi pubblici.S’incrina così… quel rapporto privilegiato tra la città e l’apparato statale che Di Crollalanza aveva saputo curare. Questi cambiamenti politici – si legge in Storia e cultura di una città a cura di Angela Colonna e Michele Lastilla – producono una brusca battuta d’arresto nella realizzazione di opere pubbliche per Bari tanto che alcuni lavori vengono lasciati incompleti.

Il fascismo, l’Etiopia, l’Impero (Leggi anche)

Mussolini aveva deciso di fare del Regno d’Italia un Impero occupando l’Etiopia, il Paese più povero in assoluto di tutta l’Africa, ‘ricco’ di pietre e perennemente dilaniato da guerre tribali e sanguinosi scontri fra ‘signori della guerra’. La Società delle Nazioni c’infligge dure sanzioni, l’Italia risponde quasi gioiosamente ‘faremo da soli’: è l’autarchia. In meno che non si dica, si è alla raccolta dell’oro ‘alla Patria’, dell’argento e del ferro – vengono spogliati delle loro inferriate tutti i giardini pubblici del Paese per fare cannoni, per riarmarsi, per inviare volontari alla guerra civile spagnola, teatro di ‘addestramento’per le Forze Armate italiane e l’aviazione tedesca in previsione delfuturo, prossimo conflitto scatenato dai nazisti hitleriani dalla cui terra arriva in tutta l’Europa un forte odore di bruciato.
Così, dalla previsione di un Paese pieno di prospettive per il futuro – l’Italia è un immenso cantiere – le migliorate condizioni economiche, l’aumento della produzione industriale e la ‘quasi’ piena occupazione, si torna ai sacrifici, alle privazioni, all’emigrazione di Stato con migliaia di famiglie inviate a ‘civilizzare’ l’Etiopia, ai lutti.
Nel 1936 anche Saverio Dioguardi, lasciata la cura dell’impresa al fratello Giuseppe, emigra in Etiopia… messo in second’ordine il ruolo di progettista – scrive Fabio Mangone – si dedica appieno a quello d’imprenditore lavorando per diversi enti pubblici e privati… inserendosi nel piano di valorizzazione dell’Africa orientale italiana,contribuendo alla costruzione di strade, all’urbanizzazione di Mogadiscio, di Dessié e di città nuove come Bari d’Etiopia. Poi la guerra, il 10 giugno 1940 l’Italia entra nel secondo conflitto mondiale, pone fine alle sue iniziative imprenditoriali africane.
Già all’inizio del 1941 l’Architetto è fatto prigioniero dagli inglesi e internato in Kenia.Torna in Italia subito dopo l’armistizio, nell’ottobre del 1943 e, nonostante la città, la provincia di Bari, non abbia subito gli ingenti danni materiali del resto del Paese, quello che gli alleati si lasciano dietro, dopo quattro anni di occupazione, è devastante:avevano requisito quasi tutta la città:alberghi, pensioni, abitazioni private, caserme, circoli, ospedali, cinema, il teatro Petruzzelli, la Camera di Commercio, la Fiera del Levante e molto altro ancora.Quando finalmente se ne vanno, si lasciano dietro una scia di rovine materiali e morali.

La ricostruzione, le banche, il grattacielo

Bisogna cominciare daccapo. L’Azienda di Dioguardi è sana, le risorse per riprendere le attività non mancano, in centro possiede diversi lotti di terreno edificabili, né mancano le referenze, i contatti – banche, assicurazioni – ma l’economia nazionale è al collasso e la borghesia locale si è dissanguata con il mercato nero.
Bisogna aspettare il 1947. Bisogna aspettare il ritorno di Alcide De Gasperi dal suo primo viaggio negli Stati Uniti, bisogna attendere gli aiuti economici del ‘Piano Marshall’. L’accordo è firmato il 22 settembre 1947, ma le banche americane avevano già ricevuto dal governo federale l’ordine di ‘aprire i cordoni della borsa’ alle banche italiane.
Infatti, la prima commessa importante di Dioguardi, nel 1947, è la costruzione su suolo di proprietà dell’Impresa della sede della Banca Commerciale italiana, un grande edificio che occupa un intero isolato: via Piccinni, Andrea da Bari, Roberto da Bari e Abate Gimma. L’enorme, lussuoso immobile è ancora lì, ma non è più una Banca. Dove ieri c’era l’Istituto di credito oggi c’è una grande azienda di abbigliamento.
Alla commessa della Comit seguirà la Cassa di Risparmio di Puglia nel 1954, con il caratteristico ingresso ad angolo fra via Calefati e via Roberto da Bari, odierna Banca Ubi-Carime. Nel 1959 Dioguardi torna al ruolo di direttore artistico per ammodernare la sede del Banco di Roma in via Andrea da Bari angolo via Calefati e, mentre scriviamo, anche il Banco di Roma non è più. L’edificio è in fase di ristrutturazione per una nuova destinazione d’uso: stanno facendo uffici, appartamenti e un grande negozio di abbigliamento.
Intanto, prima delle suddette commesse e in assenza di committenti, Dioguardi si dedica all’organizzazione dell’impresa di famiglia per affrontare adeguatamente la ripresa delle attività. Nel contempo, realizza numerosi progetti funerari per far fronte alla sostenuta richiesta di piccoli monumenti commemorativi e celebrativi ma in un clima nuovo e cambiato: i committenti chiedono cappelle, tombe e piccole edicole che non abbiano più… un’ostentata glorificazione del lutto e del dolore, quanto un raccolto e commosso intimismo – scrive Mangone – con superfici più nitide e volumi lineari.
Eppure, anche in tempi di magra, l’architetto-artista, non ha abbandonato il ‘sogno’ della ‘Grande Bari’.
Nel 1950 infatti, pubblica due nuovi progetti: una ‘casa torre’ da costruirsi in fondo a corso Italia, angolo via Francesco Petrelli, e un ‘grattacielo’ sempre in corso Italia con via Casale nel quartiere Libertà. I suoli sono di proprietà dell’Impresa. Il ‘grattacielo’,di 15 piani, è ancora una volta stranamente simile a quello realizzato dall’ingegnere Vincenzo Rizzi, ad angolo fra corso Cavour e corso Vittorio Emanuele, noto come ‘Palazzo Motta’, edificato nella seconda metà degli anni Cinquanta quando Bari si proponeva come la ‘Milano del Sud’.
Il progetto di Dioguardi si differenzia pochissimo da quello di Rizzi. Il primo ha il corpo ad angolo alto 15 piani e la parte più bassa,che si allunga in corso Vittorio Emanuele, di 7 piani. Viceversa il grattacielo di Rizzi, consegnato nel 1960, ha la torre ad angolo alta 12 piani e il corpo più basso di 8 piani.
Dioguardi presenta il suo progetto di grattacielo alla Commissione edilizia municipale nell’ottobre del 1954 e… viene respinto. La Commissione giustifica il mancato accoglimento per ‘esigenze estetiche’. Insomma era troppo alto rispetto alla media degli edifici cittadini. Ma in Commissione dovevano pur saper che il nuovo piano regolatore, redatto dagli architetti Alberto Calza Bini e Marcello Piacentini – censori nel Ventennio di ogni progetto architettonico non conforme allo stile fascista – dovevano sapere che il piano regolatore approvato e firmato nello stesso mese dal Capo dello Stato, prevedeva costruzioni alte fino a 32 metri per tutto il territorio urbano senza distinguere le zone popolari dal quartiere murattiano.
All’inizio degli anni Cinquanta Bari è popolata da 270 mila abitanti. Dopo gli anni dell’occupazione alleata, decine di migliaia di persone provenienti da tutti i centri della provincia, anche da oltre, si sono riversati nel Capoluogo in cerca di una opportunità, un lavoro, uno qualunque, e l’unico settore che offre qualche possibilità, che comincia a tirare, è l’edilizia insieme a tanta, tantissima manodopera nei mestieri più disparati. Ma non ce n’è per tutti e Bari diventa una tappa intermedia per emigrare al Nord dove il governo… è impegnato nella improrogabile necessità di procedere alla ricostruzione dell’industria settentrionale per sollevare rapidamente il reddito nazionale.
Dunque niente ‘trippa’ per il Meridione alla faccia della legge della Cassa del Mezzogiorno, varata il 29 luglio 1950, che prevedeva investimenti per mille miliardi in dieci anni.
Nel 1956, Saverio Dioguardi, dopo un’altra commessa che lo impegna ad ammodernare ed ampliare la sede della SET, Società Esercizi Telefonici, poi SIP, in via Marchese di Montrone, oggi in completo stato di abbandono, decide di separarsi dal fratello Giuseppe lasciandogli l’azienda madre, ‘Nicola Dioguardi e Figli’, per fondare la ‘Arch. Saverio Dioguardi’ che si espande per tutta la regione.
Infatti, dopo la costruzione della sede barese della Commerciale, lo stesso Istituto di credito gli commissiona prima la costruzione della sede di Taranto, consegnata nel 1957, poi quella di Barletta nel 1958.
Il suo impegno professionale ormai è senza soste e purtroppo la parte progettuale è di gran lunga maggiore di quella imprenditoriale, l’edilizia abitativa, popolare o signorile, è ancora latente, bisognerà attendere l’inizio degli anni Sessanta per vedere crescere come funghi, nelle periferie della città, decine palazzi.
L’ultima commessa importante della sua azienda è la costruzione della nuova sede pugliese della SIP in piazza Massari, ancora con il caratteristico frontale ad angolo ‘piatto’ a ridosso della Prefettura, consegnata nel 1960 e successivamente dismessa dalla Società dei telefoni e divenuta una delle sedi della Banca Popolare di Bari.
In origine però, sul sito che Saverio Dioguardi ha edificato il Palazzo, c’era una vecchia palazzina di un piano dove Giuseppe Gimma aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita. Scomparso il 21 aprile 1829, l’anziano architetto della via Consolaree del ‘nuovo’ borgo di Bari era, lui pure, figlio di un ‘maestro muratore’ di Polignano.
Il 22 novembre 1961 a settantatré anni appena compiuti, il 5 novembre, Don Saverio, come lo chiamavano i suoi operai, improvvisamente muore.

Nicola Mascellaro

da “Bari Dal Borgo alla Città–I protagonisti”, Di Marsico Libri, luglio 2018 pagg.69 -100

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