MENICHELLA DONATO

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MENICHELLA DONATO

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Direttore generale dell’IRI e governatore della Banca d’Italia.

Nasce a Biccari (FG) il 23 gennaio 1896. Inizia i suoi studi secondari medi al Collegio Ruggero Bonghi di Lucera, consegue nel 1913 il diploma di ragioniere presso Istituto Pietro Giannone di Foggia e nel 1920, dopo aver preso parte alla Prima guerra mondiale, ufficiale di artiglieria in Albania, si laurea in Scienze sociali presso l’Istituto Cesare Alfieri di Firenze. Il 22 maggio del 1922 sposa Anita Moffa da cui avrà tre figli Vincenzo, Franco ed Irene. I suoi antenati, appartenenti all’antica famiglia Iosa, erano banchieri.

Dopo un breve periodo alle dipendenze dell’Istituto Nazionale per i cambi con l’estero (INCE), entra nel 1921 in Banca d’Italia dove, nel 1923, si occupa della liquidazione della Banca Italiana di Sconto (BIS). Dal 1924 lavora per la Banca Nazionale di Credito (BNC) e nel 1931, dopo la fusione tra BNC e Credito Italiano (Credit), segue gli affari industriali della nuova BNC e dirige la Società Finanziaria Italiana (SFI), che aveva rilevato le partecipazioni industriali di Credit.

Nel 1933 è chiamato all’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) dal presidente Alberto Beneduce e posto a capo della Sezione Smobilizzi Industriali. È il principale e più fidato collaboratore di Beneduce, prendendo di fatto il posto di quest’ultimo quando, nel 1936 a causa di problemi di salute, il presidente dell’Iri sarà costretto a ritirarsi. All’IRI il suo lavoro è decisivo per il salvataggio dell’economia italiana di quegli anni. Dal 1934 al 1944 è Direttore generale dell’IRI e dà un contributo sostanziale alla preparazione della Legge bancaria del 1936, ribattezzata “riforma Menichella” e imperniata sul principio della separazione tra banca e impresa.

Nel 1946, su indicazione di Luigi Einaudi, Menichella assume l’incarico di Direttore generale della Banca d’Italia e nel 1947 (con la nomina di Einaudi a ministro del Bilancio nel quarto governo De Gasperi), le funzioni di Governatore della Banca d’Italia, al vertice della quale è nominato nel 1948. Nel 1947 accompagna De Gasperi negli Stati Uniti, da dove tornarono con il prestito da 100 milioni di dollari necessario alla ricostruzione italiana.

Nel dicembre 1946 è tra i fondatori dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ), che elabora l’idea di un “nuovo meridionalismo”, fondato sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Alla scadenza del Piano Marshall, e sull’esempio dell’americana Tennessee Valley Authority, Menichella suggerisce il progetto della Cassa per il Mezzogiorno (1950), intesa come agenzia temporanea destinataria delle disponibilità della Banca Mondiale a finanziare con prestiti in dollari programmi di investimenti nelle aree depresse del mondo.

Nel 1960, dopo aver contribuito al raggiungimento di prestigiosi traguardi economici internazionali (parità della lira secondo le disposizioni del Fondo Monetario Internazionale, Oscar del Financial Times per la migliore valuta alla lira e Oscar come migliore governatore centrale), si dimette dall’incarico di Governatore della Banca d’Italia. Riceverà il titolo di Governatore onorario dell’Istituto di emissione, dignità che in seguito sarà conferita ai governatori uscenti Paolo Baffi, Carlo Azeglio Ciampi, e Mario Draghi .

Ultimo rappresentante di un’intera epoca della finanza e dell’amministrazione pubblica italiana, muore a Roma il 23 luglio 1984. Quattro giorni dopo di lui muore la moglie Anita.

A lui, nel 1986, la Banca d’Italia intitola una prestigiosa borsa di studio e, nel 1999, il centro operativo di Vermicino, nel comune di Frascati (RM).

 

Testimonianze

  • La legge che, istituendo nel 1950 l’intervento straordinario, diede avvio ad una nuova politica meridionalistica è essenzialmente opera di Donato Menichella. Il testo fu redatto nel suo ufficio di governatore della Banca d’Italia con l’assistenza di Francesco Giordani, che era stato presidente dell’IRI al tempo in cui Menichella ne era stato direttore.(Pasquale Saraceno, Corriere della sera 6 marzo 1990)
  • Luigi Einaudi ha anche il merito di aver scelto subito come direttore generale un uomo che veniva dall’IRI: Donato Menichella. Con il quale lavora in sintonia perfetta e al quale lascia nel 1948 il timone della banca. Donato Menichella, che si meritò per la sua capacità del non apparire il nomignolo di “governatore-ombra”, è il protagonista, dal punto di vista della Banca d’Italia, delle vicende della ricostruzione, con la gestione dei fondi del Piano Marshall e di tutto il processo espansivo dell’apparato produttivo italiano fino alle soglie del “miracolo”. Un tempo di prezzi stabiliti e di bilanci positivi, con la lira che si avvia a diventare una moneta forte. Anche il tempo di apertura all’Europa che porterà alla CEE, della Cassa del Mezzogiorno, dell’esplosione siderurgica con l’attuazione del Piano Sinigaglia, dell’Eni di Enrico Mattei. Tutte cose che accadono sotto la sua attenta vigilanza. E non c’è dubbio che Donato Menichella sviluppi una sua accorta politica monetaria. Ma lo fa senza ricorrere a strumenti canonici […]. Si parla oggi della grande autorità morale e di una straordinaria capacità di persuasione, con cui riusciva a far fare agli altri, alle grandi banche, le operazioni che riteneva opportune. […]. Sempre fedele al principio che un governatore della Banca d’Italia non deve farsi vedere, non deve parlare, deve rimanere per il pubblico il grande sconosciuto; finito il suo compito deve escludersi da ogni attività. (Franco Vegliani, Successo, gennaio 1980)
  • …Mio padre era uno “specialista dell’autoriduzione”. Autoridusse il suo stipendio nell’anteguerra a meno della metà. Non ritirò, quando fu reintegrato all’IRI, due anni e mezzo di stipendio; al presidente Paratore rispose: ‘Dall’ottobre 1943 al febbraio 1946 non ho lavorato!’. Fissò il suo stipendio nel dopoguerra a meno della metà di quanto gli veniva proposto; lo mantenne sempre basso. Se il decoro del grado si misura dallo stipendio, agì in modo spudoratamente indecoroso! Il 23 gennaio 1966, al compimento del settantesimo anno, chiese ed ottenne che gli riducessero il trattamento di quiescenza, praticamente alla metà, giustificandosi così: ‘Ho verificato che da pensionato mi servono molti meno danari!’. Ai figli ha lasciato un opuscolo dal titolo: ‘Come è che non sono diventato ricco’, documentandoci, con atti e lettere, queste ed altre rinunce a posti, prebende e cariche. Voleva giustificarsi con noi: ‘Vedete i denari non me li sono spesi con le donne; non ci sono, e perciò non li trovate, perché non li ho mai presi!’ Mia madre (gli voleva molto bene) ha sempre accettato, sia pure con rassegnazione, tali sue peregrine iniziative (anche quando dovemmo venderci la casa e consumare l’eredità di lei); però ogni tanto ci faceva un gesto toccandosi la testa, come a dire: ‘Quest’uomo non è onesto, è da interdire’ poi sorrideva e si capiva che era orgogliosa di lui.(Vincenzo Menichella, Roma, “Giornata Menichella”, 23 gennaio 1986)

 

Bibliografia

  • Sabino Cassese, La preparazione della riforma bancaria del 1936 in Italia, in “Storia contemporanea”, 1974, n. 1, pp. 3-45.
  • Banca d’Italia, Donato Menichella: testimonianze e studi raccolti dalla Banca d’Italia, Atti della Giornata di studio tenuta a Roma nel 1986, Roma, Laterza, 1986.
  • Massimiliano Monaco, Risanamento e riforma bancaria nell’opera di Donato Menichella, Bari 1996. Sito Tesioinline.
  • Franco Cotula, Cosma O. Gelsomino e Alfredo Gigliobianco (a cura di), Donato Menichella: stabilità e sviluppo dell’economia italiana, 1946-1960, 2 voll., Roma, Laterza, 1997.
  • Giampiero Cama, La Banca d’Italia, Bologna, Il mulino, 2010.

MENICHELLA, Donato

di Pierluigi Ciocca – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 73 (2009)

 

MENICHELLA, Donato. – Nacque il 23 genn. 1896 a Biccari, in Capitanata, da Vincenzo e Irene Checchia, proprietari di una media azienda agricola.

Diplomato ragioniere nel 1913 all’istituto Pietro Giannone di Foggia, il 28 marzo 1920 – dopo aver servito come ufficiale nel 1916-18 e dopo aver superato, nel 1919, la malaria contratta nei tre anni di guerra in Albania – si laureò presso l’Istituto di scienze sociali Cesare Alfieri di Firenze.

Il 4 luglio 1921 fu assunto alla Banca d’Italia dove venne assegnato alla Sezione speciale autonoma (istituita nel marzo 1922) del Consorzio per le sovvenzioni sui valori industriali – ente interbancario esistente dal 1914 – la quale, nell’ambito della Banca, ebbe l’incarico di gestire i finanziamenti alle aziende di credito e alle imprese in difficoltà.

Nel 1922 sposò Anita Moffa, compagna delle scuole elementari, da cui ebbe tre figli.

A metà del 1923 D. Gidoni, già ragioniere generale della Banca d’Italia – cui erano affidati sia il comitato liquidatore della Banca italiana di sconto, caduta in dissesto nello scorcio del 1921, sia la Banca nazionale di credito, che amministrava la liquidazione per il comitato –, chiese alla Banca d’Italia il distacco di un funzionario che potesse collaborare con lui. B. Stringher, alla guida dell’istituto di emissione, scelse il M., il quale si dimise dalla Banca d’Italia il 31 ott. 1924 per passare, anche formalmente, alle dipendenze della Banca nazionale di credito.

La vicenda della Banca italiana di sconto, e del gruppo siderurgico e meccanico Ansaldo dei fratelli Pio e Mario Perrone a essa legato, si trascinò fra violente polemiche giornalistiche, giudiziarie e politiche fino al 1926. Per il M. fu un’esperienza di questioni scottanti, aziendali e giuridiche: traumatica, non priva di rischi personali, ma altamente formativa.

Nel luglio 1929 il M. venne nominato direttore di sede della Banca nazionale di credito e preposto all’ufficio di rappresentanza di Roma. Mantenne tale funzione, con il compito di curare specifici affari industriali, dopo la fusione tra la sua banca e il Credito italiano, avvenuta nel febbraio 1931, e la conseguente costituzione della nuova Banca nazionale di credito.

La missione di quest’ultima era gestire le partecipazioni industriali del Credito italiano, insieme con la Banca commerciale italiana (Comit) e il Banco di Roma, fra i principali intermediari finanziari italiani ed europei.

Pochi mesi dopo, nel luglio 1931, il M. divenne direttore generale della Società finanziaria italiana, la holding milanese a cui il Credito italiano, con l’avallo del ministero delle Finanze e della Banca d’Italia, affidò la più gran parte delle sue partecipazioni azionarie immobilizzate. Nel 1931-32 il M. visse quindi dall’interno le tensioni che spinsero sull’orlo del fallimento i maggiori istituti creditizi del Paese, banca centrale compresa.

La crisi internazionale del 1929 era stata anticipata in Italia dall’eccessivo apprezzamento della lira – connesso con l’ambiziosa politica del cambio forte, a «quota 90» rispetto alla sterlina – e dalla recessione, tutta italiana, che ne seguì nel 1927. Dal 1929 al 1933 la produzione dell’industria italiana cadde quasi di un quarto, non meno di quanto avvenne nei Paesi europei più avanzati. L’interazione fra crisi reale e crisi bancaria fu resa serrata dal persistente orientamento delle maggiori banche italiane a finanziare le imprese industriali non profittevoli di cui erano azioniste: questa rischiosissima strategia venne spinta sino a trasformare le banche in vere e proprie holdings, che detenevano il controllo di grandi gruppi industriali dalla cui sorte quella delle banche veniva a dipendere; tale strategia fallì e le perdite annullarono il capitale delle imprese e delle banche. Tra il 1921 e il 1933 la dimensione complessiva dell’intervento pubblico per i salvataggi imposti dalle perdite e dagli immobilizzi cumulatisi in oltre un decennio era divenuta macroeconomica, circa 11 miliardi di lire del tempo (10% del prodotto interno lordo). La stessa Banca d’Italia era nella sostanza insolvente e, alla fine del 1932, era direttamente o indirettamente esposta verso il complesso finanziario-industriale in dissesto per 7,3 miliardi: un importo corrispondente a più della metà del valore facciale dei biglietti che aveva in circolazione (13,7 miliardi). Soprattutto, in A. Beneduce, consigliere economico personale di B. Mussolini, si consolidò il convincimento che i capitalisti privati non fossero in grado, nonostante la compressione dei salari consentita dal regime e i sostegni statali, di portare la grande industria e l’alta finanza fuori dalla crisi. Anche secondo il M., con particolare riguardo al capitale delle banche, si dovette constatare che «non restava quindi che […] riconoscere puramente e semplicemente che lo Stato era il vero padrone delle banche e il vero padrone delle azioni delle industrie possedute dalle banche stesse» (D. Menichella, Le origini dell’I.R.I. e la sua azione nei confronti della situazione bancaria [1944], in Id., Scritti e discorsi

scelti…, pp. 127 s.).

Dovendo porsi un limite al «paga Pantalone» – come il M. celiando soleva dire –, con lo Stato che copriva le perdite private stampando moneta nuova ovvero con il danaro dei contribuenti, la soluzione prevista da Beneduce fu la creazione di un ente economico pubblico, l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI), avvenuta con d.l. del 23 genn. 1933; Beneduce, primo presidente dell’Istituto fino al novembre del 1939 – allorché gli succedette F. Giordani – volle assicurarsi il conforto dell’esperienza che il M. aveva accumulato nella conduzione di aziende problematiche e, il 19 apr. 1933, lo scelse per dirigere la sezione smobilizzi cui si aggiunse, il 18 maggio del medesimo anno, la sezione finanziamenti.

L’azione dell’IRI e la sua stessa esistenza evitarono al momento il dissesto delle banche e della Banca d’Italia, il panico dei risparmiatori e la fuga dai depositi, il crollo dell’offerta di credito, una ulteriore contrazione dell’economia. In seguito, con la legge bancaria del 1936, l’IRI pose altresì le basi di un generale riassetto del sistema finanziario, fondato sulla rescissione dei rapporti proprietari e di controllo reciproco tra banche e imprese. Rilevando perdite, immobilizzi e partecipazioni delle più grandi banche, di cui divenne proprietario e si riconobbe debitore, l’IRI venne a sostituirsi nella loro esposizione verso le industrie, da un lato, nel loro indebitamento verso la Banca d’Italia, dall’altro. Si assicurava in tal modo la separatezza proprietaria delle banche rispetto alle imprese non finanziarie: da holdings ridiventarono banche commerciali, vocate al credito ordinario a breve termine, alimentato con raccolta di depositi. La Banca d’Italia venne restituita al suo ruolo di banca centrale: responsabile della liquidità del sistema attraverso il credito di ultima istanza concesso ai soli operatori non insolventi.

Avendo lo Stato dietro di sé – con un contributo annuo di 285 milioni e la possibilità di emettere obbligazioni, anche convertibili in azioni, munite di garanzia statale – l’IRI esordì con un conto patrimoniale in seguito stimato in 16 miliardi di lire (P. Saraceno, D. M. e l’IRI. Appendice, in D. M.: testimonianze e studi…, tab. 5, p. 437). La cifra era costituita, al passivo, da debiti netti verso le grandi banche per 10 miliardi di lire e da debiti verso la Banca d’Italia per 6; all’attivo, da quasi 9 miliardi di partecipazioni e crediti verso le industrie, 2 miliardi di titoli di Stato e altre disponibilità liquide, quindi da oltre 5 miliardi di scoperto patrimoniale.

Ai vertici dell’IRI sin dalla fondazione, il 21 ag. 1934 il M. assunse la carica, appena istituita, di direttore generale dell’Istituto, che mantenne sino al 26 febbr. 1944, per poi riassumerla brevemente il 16 marzo 1946. La missione, a un tempo industriale e finanziaria, cui veniva chiamato l’IRI di Beneduce e del M. – concepito come temporaneo, poi reso permanente nel giugno del 1937 – non era certo facile. Consisteva nel valorizzare le partecipazioni industriali e bancarie ed eventualmente ricederle ai privati così da rimborsare i debiti, in primo luogo all’istituto di emissione, colmare con i propri utili lo scoperto patrimoniale, ridimensionare l’impegno delle pubbliche finanze.

Sotto il profilo industriale, principalmente rilevando i portafogli delle tre grandi banche nazionali – Credito italiano, Banca commerciale italiana, Banco di Roma – l’IRI acquisì e gestì partecipazioni azionarie pari, in valore nominale, al 22% delle azioni emesse dalle società italiane.

Questi possessi azionari comportavano, direttamente o indirettamente, il controllo di una sessantina di imprese e gruppi il cui capitale era pari al 42% del capitale complessivo delle società per azioni del Paese. L’IRI arrivò a controllare, oltre alle tre principali banche, la totalità dell’industria siderurgica bellica; il 90% delle costruzioni navali; più dell’80% della navigazione marittima; l’80% del potenziale produttivo di locomotori e locomotive; quasi tutti i servizi telefonici; oltre il 40% della siderurgia comune; quote minori nelle industrie dell’energia elettrica, del rayon, del

cotone, nell’industria meccanica; un vasto patrimonio immobiliare.

Sotto il profilo finanziario, col favore della ripresa dell’economia dalla contrazione che era culminata nel 1932-33, l’IRI, già alla fine del 1936, dimezzò lo scoperto patrimoniale.

Ciò avvenne attraverso utili, plusvalenze, smobilizzi, ristrutturazioni di debiti (fra cui il consolidamento di quelli verso la Banca d’Italia, favorevole all’IRI e punitivo verso la Banca). Il riequilibrio realizzato nel primo quadriennio si completò attraverso la proroga del contributo statale di 285 milioni per il tempo necessario affinché il valore attuale delle ulteriori annualità corrispondesse allo scoperto patrimoniale che restava da coprire.

Fino a tutto il 1939 le cessioni di partecipazioni azionarie si ragguagliarono a poco meno di 7 miliardi e si concentrarono nei rami tessile, minerario, immobiliare, edilizio, agricolo, ma anche in quello elettrico. Nello stesso periodo l’IRI effettuò investimenti per oltre 5 miliardi nelle imprese di cui aveva il controllo, per migliorare e ampliare gli impianti. Nel portafoglio delle partecipazioni industriali la quota dei settori armatoriale, siderurgico, meccanico raddoppiò (dal 27 al 54% del totale), salendo ulteriormente durante la guerra.

La gestione delle imprese controllate, e ancor più quella delle banche, non si ispirò a una idea di economia pianificata o corporativa, neanche nel senso di una programmazione indicativa, imperniata sull’IRI e sulle società partecipate. Si trattò di amministrazione di aziende, tesa al ripristino o al rafforzamento della efficienza, della redditività, degli equilibri patrimoniali secondo uno stile e un metodo, piuttosto che secondo una strategia operativa unitaria, di gruppo.

Per le banche era imperativa la loro riconduzione a una gestione fisiologica degli attivi e del rapporto raccolta/impieghi secondo prudenziali criteri di rendimento e rischio. Ma anche le attività industriali vennero governate secondo un principio di economicità, in un’ottica di decentramento settoriale: «Anche se l’istituto venne coinvolto nelle esigenze della autarchia, dello sviluppo coloniale (leggi Africa orientale) e, infine, dall’entrata in guerra dell’Italia, i bilanci di quel periodo stanno a documentare l’ortodossia di una gestione» (E. Cuccia, Un esempio inimitabile, in D. M.: testimonianze e studi…, p. 290). Lo strumento organizzativo fu quello delle finanziarie, appunto, «di settore» espresse dall’IRI e chiamate a ricercare sinergie di specializzazione fra le imprese controllate in un determinato ramo di industria: Stet (1933, per le telecomunicazioni), Finmare (1936, per i trasporti marittimi), Finsider (1937, per la siderurgia).

Il M. costituì il perno e rappresentò la continuità nella conduzione dell’IRI, soprattutto dopo che Beneduce, nel luglio 1936, venne colpito da una grave malattia da cui cominciò a riprendersi solo alla fine di quell’anno.

Egli non era economista per formazione; cionondimeno, nei suoi auspici vi era un’economia italiana aperta agli scambi con l’estero dopo l’autarchia fascista, affidata per quanto possibile al mercato e a una impresa privata che cessasse di far conto sulle connivenze bancarie, politiche, sindacali. Per l’esperienza di grandi aziende in bancarotta che dovette vivere, era tuttavia chiaro come il M. «non avesse una grande considerazione del capitalismo privato italiano» (F. Caffè, Una esperienza di apprendimento con il servire, ibid., p. 182).

Toccò all’IRI colmare il vuoto di capitale di comando che si era aperto in ampie sezioni dell’industria e dell’alta finanza. Finché il M. visse, non lo abbandonò la convinzione che le grandi banche non erano privatizzabili. Era per lui ineluttabile «la coesistenza nella nostra economia di due princìpi organizzativi, quelli dell’impresa privata e dell’impresa pubblica» (G. Carli, D. M., governatore della Banca d’Italia, ibid., p. 22). Banche e imprese, anche se pubbliche, non dovevano essere gravate di compiti e di oneri legati alla politica economica, che spettava allo

Stato. Non dovevano esserlo neppure di fronte al problema, non solo economico, di cui l’Italia unita si era fatta carico: la questione del Mezzogiorno.

Il M., meridionale, costituì un gruppo coeso con meridionali come Giordani, P. Saraceno e un meridionale d’elezione, G. Cenzato, che diresse importanti imprese elettriche nel Sud. Egli era dell’avviso che per il Sud occorresse una specifica azione propulsiva attuata dallo Stato. Dal 1946 le riflessioni sarebbero avvenute anche presso l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez), fondata per promuovere l’industrializzazione in Italia meridionale, e avrebbero animato nel dopoguerra il contributo che il M. diede alla configurazione dell’intervento straordinario attraverso la Cassa del Mezzogiorno, istituita nel 1950 per sostenere sia le infrastrutture sia le attività industriali nel Meridione.

L’apporto dell’IRI fu di rilievo nel processo che portò l’Italia a uscire dalla crisi nel 1933 e a una successiva crescita annuale della produzione del 4% sino al 1939; ma, con la guerra, il reddito nazionale crollò, nel 1945, al 60% del livello anteguerra. Nell’Italia occupata per l’IRI il problema principale fu quello della sua stessa sopravvivenza, dal momento che, nel giugno 1944, la Commissione alleata di controllo era determinata a smantellarlo, se si fosse accertata una compromissione dell’Istituto col fascismo. Sebbene il M. si fosse dimesso da alcuni mesi, venne comunque contattato dal capitano statunitense A.M. Kamarck, preposto al controllo e all’esame della questione IRI. Attraverso una serie di colloqui e un rapporto riservato richiestogli da Kamarck (cfr. D. Menichella, Le origini dell’IRI e la sua azione, in Id., Scritti e discorsi scelti…ad ind.), egli riuscì a persuadere gli Alleati che le sorti dell’IRI dovevano essere rimesse alle autorità italiane in ragione del ruolo che l’Istituto rivestiva per la futura struttura economica, finanziaria e politica dell’Italia, nel frattempo divenuta Paese cobelligerante.

«Le mie conversazioni con il dottor Menichella mi avevano insegnato ad apprezzarlo, a rispettarlo e a riporre in lui la mia fiducia […]. Il memoriale di Menichella era logico e convincente» (A.M. Kamarck, D. M.: la Commissione di controllo alleata e l’IRI, l’ECA e la Banca d’Italia, in D. M.: testimonianze e studi…, p. 39).

L’apprezzamento, il rispetto e la fiducia che il M. riscuoteva ebbero un’eco presso L. Einaudi, dal gennaio 1945 governatore della Banca d’Italia, il quale gli propose l’incarico di direttore generale della Banca che il M., il 19 apr. 1946, accettò.

La nomina sanciva, fra l’altro, la chiusura della parentesi più amara della vita del M., in quanto, nel febbraio del 1944, l’alto commissario aggiunto per l’epurazione aveva accusato i dirigenti dell’IRI, e quindi anche il M., di aver favorito il trasferimento al Nord, alla Repubblica sociale italiana (RSI), di titoli di proprietà dell’Istituto. L’accusa si rivelò infondata, ma trascorsero mesi prima che venisse dichiarata tale dal Consiglio dei ministri e finalmente, nel gennaio 1946, dalla corte d’appello di Roma.

Il governatore Einaudi, economista di formazione accademica, nominando il M. volle accanto a sé un risolutore di problemi: «Vedeva in Menichella il banchiere avveduto e geniale, il tecnico dalla sconfinata competenza, il conoscitore di uomini scettico e scaltro, il negoziatore paziente e infaticabile, il realizzatore concreto ed efficiente» (A. D’Aroma, M., Einaudi e un collaboratore fedele, ibid., p. 298). Il M., oltre ad aver efficacemente svolto funzioni di sorveglianza sulle banche dell’IRI, aveva avuto un ruolo centrale (insieme con Beneduce, adiuvante Saraceno) nella concezione, e financo nella scrittura (con A. De Gregorio), della legge bancaria del 1936, fondata sulla separatezza banca/industria, sulla specializzazione degli intermediari, sui poteri discrezionali dell’autorità di vigilanza. Nel dopoguerra il completamento a livello di normativa secondaria e l’applicazione di questa legge ricaddero più che in passato sulla Banca d’Italia.

Nel settembre del 1944 era stato soppresso l’Ispettorato per la difesa del risparmio e l’esercizio del credito e i poteri di vigilanza bancaria del ministero del Tesoro erano stati delegati alla Banca d’Italia; erano state altresì assegnate al governatore, in tale sua specifica qualità e posizione, le «facoltà» e le «attribuzioni» prima a lui spettanti quale capo dell’Ispettorato.

A seguito della nomina di Einaudi a vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio nel quarto governo De Gasperi, il M. quale direttore generale svolse, dal 30 maggio 1947, le funzioni di governatore.

La politica monetaria restrittiva attuata nell’estate di quello stesso anno consistette principalmente nell’inasprimento della riserva obbligatoria sui depositi bancari, dal M. e dai suoi uffici disegnato; la manovra – imposta da Einaudi e di cui Einaudi assunse la responsabilità politica – valse a piegare le aspettative inflazionistiche e a stroncare un’inflazione che, fra il giugno del 1946 e il settembre del 1947, aveva «galoppato» al ritmo del 100% l’anno.

Il 7 ag. 1948, pochi mesi dopo l’elezione di Einaudi alla presidenza della Repubblica, il M. gli succedette quale governatore della Banca d’Italia, carica che ricoprì per dodici anni, consolidando la qualità tecnica dell’Istituto e affermandone l’autonomia dagli interessi economici e finanziari, dall’esecutivo e, ai sensi dell’art. 10 della legge bancaria, dal potere giudiziario. Per l’Italia, dopo il disastro bellico, furono gli anni della ricostruzione, poi del «miracolo economico», attraverso cui il sistema produttivo si trasformò.

Nel 1950 si tornò al livello di reddito anteguerra; nel decennio successivo il prodotto crebbe a ritmi annuali mai prima sperimentati, 5,8%, mentre il costo della vita aumentava solo del 3,5% l’anno. Il debito pubblico non andò oltre il 30% del prodotto, il cambio della lira restò fisso, si incrementarono le riserve in oro e valuta. Venne assicurata la stabilità bancaria e finanziaria; il peso dell’industria sul valore aggiunto si avvicinò al 40%; nel Mezzogiorno il reddito pro capite salì dal 50 al 55% rispetto a quello del Centronord.

Non sorprende, quindi, che, sulla base di tali risultanze economiche e del prestigio internazionale meritato dalla Banca d’Italia, il Financial Times, quotidiano della City di Londra, l’11 genn. 1960 conferisse alla lira l’Oscar delle monete per il 1959 e al M., nel 1961, l’Oscar quale «most successfull central banker» per il 1960. Tali storici progressi dipesero da un concorso di fattori strutturali e di circostanze, interne e internazionali, con cui l’azione della Banca d’Italia del M. – assistito da consulenti giuridici come A.C. Jemolo e, nel Servizio studi della Banca, da economisti come P. Baffi, S. Guidotti, F. Caffè, G. Parravicini, G. Di Nardi – interagì positivamente su tre fronti: la riapertura dell’economia, la stabilità monetaria, la solidità del sistema bancario.

Durante il periodo fascista il M. aveva sperimentato il protezionismo e l’autarchia, di cui aveva colto lucidamente tutti i limiti per un’economia come quella italiana, importatrice di risorse primarie e di beni strumentali, esportatrice di merci e di forza-lavoro. Dal dopoguerra egli fu tenace assertore dello sviluppo e della industrializzazione del Paese come economia di mercato aperta ai rapporti internazionali, segnatamente verso l’Europa. I governi De Gasperi – di cui il M. fu ascoltato consigliere – orientarono alla salvaguardia della scelta liberoscambista che venivano effettuando gli stessi aiuti del Piano Marshall (1,3 miliardi di dollari nel quinquennio 1948-53, pari al 10% del PIL dell’Italia nel 1949). Vincendo opposizioni e critiche, il M., a presidio degli equilibri di medio periodo dei conti con l’estero, fece confluire una parte cospicua di queste risorse nelle riserve valutarie.

Abbattuta l’inflazione nel 1947 – con costi nell’insieme limitati per la produzione, l’occupazione, gli stessi investimenti – nel corso degli anni Cinquanta la politica monetaria della Banca d’Italia assecondò lo sviluppo dell’economia e prevenne tensioni sui prezzi di origine creditizia.

L’aumento rapido della produttività e la moderazione salariale – imposta ai sindacati anche dalla larghezza d’offerta della manodopera – tendevano di per sé a calmierare i prezzi dal lato dei costi. Il governo della moneta garantì che non si determinassero eccessi della domanda globale sulla capacità produttiva. Mantenne saldo il controllo delle aspettative. Alla linea Einaudi – Menichella, alla credibilità della Banca d’Italia quale guardiano della moneta, i risparmiatori ancorarono ragionevoli attese sull’andamento futuro del costo della vita.

Memore dei guasti dell’inflazione bellica, il M. vedeva nella stabilità del livello medio dei prezzi un valore in sé e un prerequisito essenziale dello sviluppo economico. Tassi d’interesse reali più elevati che negli altri Paesi, dipendenza delle banche per la liquidità dai finanziamenti della banca centrale, razionamento di tali finanziamenti commisurato alla crescita dell’economia in uno scenario di bassa inflazione: la politica monetaria cui costantemente la Banca d’Italia si attenne fu dal suo stesso artefice definita «semplice nei mezzi e parca negli interventi» (Banca d’Italia, Relazione per l’anno 1959. Considerazioni finali, Roma 1960, p. 353).

Insieme con la stabilità monetaria la Banca d’Italia seppe garantire al Paese la stabilità bancaria, altrettanto preziosa. Il M. elevò il rilievo istituzionale e il livello operativo della supervisione sulle banche.

Orientò decisamente la legislazione bancaria del 1936 alla saldezza dell’intermediazione creditizia, alla sicurezza dei depositi presso le banche. Interpretò in un duplice senso, che fece dottrina e giurisprudenza, lo spirito e la lettera della normativa alla cui concezione e redazione aveva tanto contribuito: ampia discrezionalità dell’organo di vigilanza (la Banca d’Italia nella persona del suo governatore, esclusivo depositario della responsabilità della supervisione bancaria) nell’uso degli strumenti amministrativi e di mercato, impiego attivo di tali strumenti a evitare che banche solo prive di liquidità divenissero insolventi, che banche insolventi confidassero nel salvataggio, che la insolvenza di singoli intermediari contagiasse l’intero sistema finanziario. Il quale ultimo era frenato nell’assunzione dei rischi dai vincoli, dagli obblighi e divieti, dalla moral suasion espressi dalla Banca d’Italia. Dall’Unità, lungo tre quarti di secolo, frequenti episodi di crisi avevano qualificato il sistema bancario italiano come il più instabile fra quelli dei principali Paesi, con perdite in ciascun episodio valutabili in diversi punti percentuali del PIL. Dal secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta, invece, il quadro mutò drasticamente nella direzione della stabilità bancaria, in Italia maggiore che altrove. Nei confronti delle banche che intervenivano per rilevare istituti in difficoltà, la Banca d’Italia concesse l’apertura di nuovi sportelli, attenuò gli oneri della riserva obbligatoria, accordò linee di credito a condizioni di favore. Per tali vie, i depositanti furono tutelati e i focolai di instabilità bancaria circoscritti con trasferimenti di risorse pubbliche complessivamente modesti.

Nel febbraio del 1960, adducendo motivi di salute e di famiglia, il M. rassegnò le dimissioni da governatore – già preannunciate ad A. Zoli nei primi mesi del 1958 – nelle mani del presidente del Consiglio A. Segni, e lasciò la carica il 18 ag. 1960.

Nominato governatore onorario, continuò a frequentare assiduamente la sede della Banca, in via Nazionale, ponendo a disposizione il proprio consiglio senza ingerenze nella guida dell’Istituto, dove gli era succeduto G. Carli. Sempre vicino all’Accademia nazionale dei Lincei, fu amministratore italiano presso la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea fino al 1974 e consigliere della Svimez fino al 1980, declinando, oltre alle interviste, ogni ulteriore offerta di incarichi, pubblici e privati, compreso quello di senatore a vita.

Il M. morì a Roma il 23 luglio 1984.

I principali scritti del M. sono stati raccolti in: D. Menichella, Scritti e discorsi scelti, 1933-1966,

Roma 1986; D. M.: stabilità e sviluppo dell’economia italiana 1946-1960, a cura di F. Cotula – C.O. Gelsomino – A. Gigliobianco, I-II, Roma-Bari 1997, ad ind.; D. M.: stabilità e sviluppo negli anni Cinquanta, I-III, a cura di F. Cotula, ibid. 1998-2000.

Fonti e Bibl.: Ministero dell’Industria e del Commercio, L’Istituto per la Ricostruzione Industriale. IRI, Torino 1955-56, passim; E. Cianci, Nascita dello Stato imprenditore in Italia, Milano 1977, ad ind.Industria e banca nella grande crisi 1929-1934, a cura di G. Toniolo, Milano 1978, ad ind.Banca e industria fra le due guerre, Bologna 1981, ad ind.La legge bancaria. Note e documenti sulla sua storia «segreta», a cura di M. Porzio, Bologna 1981, ad ind.; G. Rodano, Il credito all’economia. Raffaele Mattioli alla Banca commerciale italiana, Milano 1983, ad ind.D. M.: testimonianze e studi raccolti dalla Banca d’Italia. Atti della Giornata di studio, Roma… 1986, Roma-Bari 1986; La Banca d’Italia e il sistema bancario, 1919-1936, a cura di G. Guarino – G. Toniolo, Bari 1993, ad ind.; P. Baffi, Osservazioni sull’IRI, in Scrittori italiani di economia, a cura di P. Ciocca – R. Bocciarelli, Bari 1994, ad ind.; S. Cafiero, Storia dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno (1950-1993), Manduria 2000, ad ind.La Banca d’Italia. Sintesi della ricerca storica 1893-1960, a cura di F. Cotula – M. De Cecco – G. Toniolo, Roma-Bari 2003, ad ind.; A. Gigliobianco, Via Nazionale. Banca d’Italia e classe dirigente. Cento anni di storia, Roma 2006, ad ind.; P. Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Torino 2007, ad ind.; G. Ruta, Banca e risparmio. Saggi di legislazione bancaria (1940-1999), Roma 2007, ad ind.; M. Franzinelli – M. Magnani, BeneduceIl finanziere di Mussolini, Milano 2009, ad indicem.

Pierluigi. Ciocca

http://www.comune.biccari.fg.it/index.php/elenco-vivere-biccari/i-personaggi-storici/donato-menichella

Donato Menichella

Direttore Generale dell’IRI – Governatore della Banca d’Italia

 

Primo Direttore Generale dell’IRI dall’agosto 1934 al febbraio 1944 e dal marzo al maggio 1946.

Nasce a Biccari (Foggia) il 23 gennaio 1896. Compie gli studi all’Istituto Tecnico “Pietro Giannone” di Foggia e poi al Regio Istituto di Scienze Sociali “Cesare Alfieri” di Firenze, dove si laurea nel 1920. Durante la prima guerra mondiale presta servizio militare, come ufficiale, in Albania.
Assunto alla Banca d’Italia nel 1921, comincia, nel 1923, ad occuparsi delle pratiche relative alla liquidazione della Banca Italiana di Sconto di cui dirige gli uffici dal 1924, dopo essersi dimesso dalla Banca d’Italia. Nel 1929 è preposto all’Ufficio di Rappresentanza di Roma della Banca Nazionale di Credito. Nel 1931 assume la Direzione Generale della Società  Finanziaria Italiana.
Nell’aprile 1933 è chiamato da Beneduce, primo Presidente dell’I.R.I., a dirigere la Sezione Smobilizzi dell’Istituto e, un mese dopo, diviene Direttore anche della Sezione Finanziamenti con Regio Decreto Legge del 21 agosto 1934.
Dopo le vicende belliche lascia, nel febbraio 1944, la carica che riassume, su invito del Presidente dell’IRI Paratore, nel marzo 1946. Pochi mesi dopo, su indicazione di Luigi Einaudi, diventa Direttore Generale della Banca d’Italia; seguirà, nel 1948, la nomina a Governatore della stessa.
Il “Finalcial Times” gli conferisce l’Oscar di “most successful central banker” per il 1960.
Muore a Roma il 23 luglio 1984.

Donato Menichella: il Governatore

Nato nel 1896. Dopo la laurea presso l’Istituto di Scienze Sociali Cesare Alfieri di Firenze, è assunto…

24 giu 2019 · Caricato da Orizzonti TV

 

Le borse di studio Stringher, Mortara, Menichella della Banca...

…visita il sito della banca d’Italia https://www.bancaditalia.it/chi-siamo/lavorare-bi/borse-di-studio/stringher-mortara-menichella…

https://www.cblive.it/news-dal-molise/premio-donato-menichella-

Premio ‘Donato Menichella’, a Roma molisano Iosa racconta la storia della famiglia dell’ex governatore della Banca d’Italia in uno spaccato di storia di Campobasso

Redazione 12 Luglio 2016

Nell’edizione straordinaria del Premio “Donato Menichella” per gli studi sullo sviluppo industriale del Sud, svoltosi a Roma l’11 luglio 2016 intervenne il legale pugliese trapiantato in Molise Luigi Iosa per “relazionare su “Gli antenati del Menichella e la loro attività di banchieri nella Provincia di Capitanata”, in quanto nipote dell’ex presidente dell’IRI, nonché ex governatore della Banca d’Italia (i trisavoli dell’avvocato Luigi Iosa e di Donato Menichella erano fratelli, Giambattista Iosa e Nicola Iosa, così come le loro consorti erano sorelle, originarie di Busso e sorelle di Francesco Marsico, sindaco napoleonico di Campobasso dal 1811 al 1815, ndr).

Iosa, oltre a parlare degli antenati del Menichella, ha raccontato anche l’episodio di storia campobassana, “poco conosciuta a livello nazionale, che ha rappresentato esempio di coesione civica, anticipando, senza alcuna attività cruenta, la Rivoluzione francese del 1789 e quella napoletana del 1799”.

“I cittadini demanisti – ha spiegato Luigi Iosa – si ribellarono, senza violenza, al feudatario Carafa per acquistare il feudo di Campobasso. I cittadini, infatti, consapevoli della ‘mala gestio’ governativa, si ribellarono e decisero di autotassarsi, acquistando da soli la città di Campobasso. Fu un’attività straordinaria, perché le famiglie di Campobasso, da quelle più benestanti a quelle più povere, si indebitarono per generazioni e la famiglia Iosa entrò in questo affare, prestando tanti soldi. I cittadini presero possesso delle chiavi della città, consegnandole nel 1742 a un cittadino di umili origini”.

“Di lì a poco – ha proseguito Iosa – intervenne il periodo napoleonico, che incise negativamente sull’attività bancaria della famiglia Iosa, perché quando Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone Bonaparte, diventò re di Napoli, attuò la riforma amministrativa, la cui legge del 2 agosto 1806 dichiarò una moratoria dei cittadini demanisti verso i creditori. La famiglia Iosa perse una fortuna incredibile in ventiquattro ore, pur tuttavia l’attività bancaria proseguì fino al 1821”.

“Menichella – ha spiegato Iosa – ben conosceva la storia della sua famiglia e sapeva che le realtà familiari e collettive erano assoggettate a influssi esterni, consapevole che tutto può cambiare in poco tempo. La sua famiglia, infatti, passò dall’aver prestato soldi, senza mai vederli restituiti, a essere costretti a chiedere prestiti usurai”.

 

“Menichella – ha chiosato l’avvocato Luigi Iosa  è stato uno dei migliori economisti di fine millennio e protagonista della ricostruzione italiana fino al boom economico. Fu grazie a lui che la Lira guadagnò l’Oscar, il prestigiosissimo riconoscimento del Financial Time, in quanto valuta più stabile al mondo. Lui stesso fu premiato in qualità di migliore governatore centrale al mondo. Se la stabilità della Lira è preistoria, quanto raccontato è pezzo di storia inedita di uno dei migliori governatori di sempre della Banca d’Italia”.

giusform

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